Capitolo 22

Arthur fissò la cartina geografica che Raven gli aveva spedito. La mail era arrivata un quarto d’ora dopo la partenza dell’avvocato. L’immagine mostrava il mondo intero, e c’erano sparsi sopra diverse centinaia di puntini bianchi. Raven aveva mandato anche un file criptato con la spiegazione di cos’era la carta, e questa lo spaventava tanto quanto lo affascinava. Non era difficile trovare il puntino che rappresentava lui stesso, ce n’era uno solo in tutta la Scandinavia. Rilesse per l’ennesima volta quanto esatto era il sistema. Tutti i rilevamenti avevano un margine di approssimazione di almeno tre chilometri. Non era una precisione notevole in un’epoca in cui si poteva installare il GPS sul telefonino, ma era comunque fin troppo buona. Arthur non dubitava che se avessero effettuato sufficienti rilevamenti la notte e li avessero sovrapposti per poi estrapolare la posizione precisa, avrebbero trovato i letti dei Bambini, incluso il suo.

Non sapeva dire perché accettasse la spiegazione della carta senza obiezioni. Fino a qualche mese prima si sarebbe rifiutato di crederci, ma ora era solo l’ennesima stramberia che si aggiungeva all’insieme delle precedenti. Si sforzò di ricordare le immagini che aveva visto dal Guardiano. Gli sfocati fili nebbiosi partivano dalla Terra, ma non riusciva a mettere a fuoco i dettagli necessari per ricordare da dove venissero.

Non poteva essere una coincidenza: al Guardiano serviva aiuto per trovare uno dei Bambini, e all’improvviso saltava fuori una tecnologia che rendeva possibile individuare ogni singolo componente del loro gruppo? Il Guardiano aveva detto di non poter far niente nel mondo reale, ma per Arthur quello era affidabile tanto quanto la capacità di Emilie di non mangiare i dolciumi del sabato tutti in una volta.

Finalmente capiva perché il Consiglio desiderava che qualcuno andasse a Parigi. Ma non sapeva decidere qual era la sorpresa più grande: che lui fosse l’unico Bambino che avrebbe preso parte a quel viaggio, o che avessero scelto di coinvolgere quel Nathaniel Wilkins.

Raven aveva cose più importanti da fare, ma non scriveva cosa questo volesse dire. Gli aveva spedito dei documenti che spiegavano in dettaglio la tecnologia alla base della carta geografica, quello che avrebbero fatto a Parigi e una valutazione di Nathaniel. Non diceva nulla sul perché volevano che proprio lui, Arthur, andasse a Parigi; avrebbe avuto più senso che ci andasse Raven stessa. E perché poi avevano deciso di raccontare tutto ciò a Nathaniel? Quel ragazzo li aveva accidentalmente scoperti, è vero, ma ciò non spiegava i rischi che il Consiglio stava correndo. Ci doveva essere qualcosa che non gli avevano detto. O si lasciava influenzare troppo da quello che sapeva? Dopotutto era lui stesso il depositario dei segreti più importanti. Anche se a volte si pentiva del proprio silenzio, sapeva che si sarebbe pentito ancora di più se avesse rivelato qualcosa. Quando quella porta fosse stata aperta, non ci sarebbe stato più ritorno, e Arthur non era ancora pronto.

C’erano molte cose per cui non era ancora pronto.

 

 

Arrivò la sera.

Arthur aveva già raggiunto il controllo di cui aveva bisogno per gestire le sensazioni provocate dai ricordi, ma voleva essere meticoloso. Il pensiero dell’ultimo ricordo lo atterriva molto più del fatto che i piani di Paolo fossero reali.

Si distese sul letto e chiuse gli occhi.

Il mondo sparì in uno spazio vuoto, e la sgradevole ma familiare sensazione di essere risucchiato verso qualcosa giunse quasi immediata. Arthur impiegò il tempo necessario per prepararsi, poi si lasciò andare.

Sentì la propria coscienza scomparire, e un’altra prese il sopravvento.

Il sole era basso sull’orizzonte, e lui strizzò gli occhi verso l’alta torre. Era il suo unico punto di riferimento in quella città. Si sporse oltre l’orlo della grande terrazza sul tetto e guardò in basso verso il selciato bianco. Il profumo di pane appena sfornato che proveniva dalla famiglia del primo piano aveva raggiunto anche i due bambini che stavano giocando a scalone. L’aria marina era mite e si arricciava sulla pelle come una coperta invisibile. Una leggera brezza sollevò la cenere dalla vicina griglia e depositò uno strato di particelle grigie sulla ringhiera della terrazza. Lui ci premette sopra un dito ottenendo un’impronta perfetta, che soffiò via. La cenere si disperse nell’aria e scomparve.

«Fimbulvinter.2 Sol ter sortna, sigr fold imar»3 sussurrò piano.

Si udì una voce da una finestra aperta al piano di sotto, e i due bambini si precipitarono dentro il portone sbattendolo contro il muro, con uno schianto che echeggiò per l’intero cortile. Lui si sedette al tavolino e aprì il raccoglitore che c’era sopra. Sul foglio c’era un cerchio grande, circondato da tanti piccoli. Seguì la linea che da un cerchio al margine portava a quello grande al centro, dentro cui campeggiava una F. C’erano diciotto cerchi in tutto, e dentro dodici di essi c’era una X. Anche i cerchi piccoli erano collegati fra loro da linee. Lui aveva un nome per ciascuno di essi. Era una ragnatela di cui il mondo non aveva mai visto l’uguale. Faceva quasi tristezza pensare che nessuno mai avrebbe capito il nesso logico.

Guardò l’orologio.

Che ne era di Mercer? Aveva voglia di mettere un’altra X in un cerchio. Si alzò, si sporse dalla ringhiera e guardò di nuovo la strada sottostante. I bambini erano tornati, stavano seduti su uno scalino, ciascuno con la sua enorme fetta di pane in mano. Potevano essere gemelli. Divorarono il pane fino all’ultima briciola, con un’urgenza che possono avere solo bambini affamati che non hanno il tempo di mangiare. Innocente ignoranza, semplice piacere. Quanto avrebbe dato per provare la stessa sensazione! Della sua propria infanzia lui non si ricordava più. Non si ricordava cosa si prova ad avere un fratello, una sorella, una madre o un padre. Quei bambini si sarebbero ricordati la propria infanzia come felice e spensierata? Una volta adulti, avrebbero ricordato momenti come quello? Ne dubitava.

Il cellulare sul tavolo squillò.

«Sì?»

«Vogliono il doppio».

Perché dovevano sempre essere così prevedibili?

«Dagli il trenta percento, cinquanta se consegnano in tempo».

«E se non accettano?»

«Convincili».

La linea cadde. Lui tracciò una X dentro il cerchio e sorrise. Non avrebbero consegnato nei tempi prestabiliti, e più tardi avrebbero preteso di più. Nessuna delle due cose era un problema. Non erano stupidi, ma avidi, e questo comportava sempre dell’imprudenza. Accese lo stereo, e con Verdi che si propagava in tutto il vicinato cominciò a preparare la cena.

 

 

Arthur aprì gli occhi. Le ultime note del quartetto di archi gli si ripetevano in continuazione nella testa. Più di tutto era sollevato. Era rimasto calmo ed equilibrato durante tutto il ricordo: non aveva riconosciuto la città, ma credeva che fosse in uno dei vecchi stati dell’Unione Sovietica. Qualunque fosse la cosa che quei due avevano fatto lì, era andata a buon fine.

L’immagine dei tanti cerchi era chiara come il cristallo nella sua mente. Non sapeva nulla di cosa ci fosse dietro ogni singolo cerchio, ma sapeva che tutto partiva dal cerchio nel mezzo e si allargava come anelli concentrici nell’acqua. Il fatto più preoccupante era il numero di cerchi con dentro una X. E che cosa volevano dire fimbulvinter e le parole che aveva sussurrato? Fimbulvinter era legato all’antica mitologia norrena e al Ragnarök, ma Arthur non conosceva il significato delle parole. Le cercò su Google, e il risultato fu: Völuspá. Un antico poema norreno sulla fine del mondo. I due primi versi di una strofa. Accanto c’era la traduzione: ‘Il sole si oscura, la terra affonda nel mare, le stelle splendenti cadono dal cielo. Il vapore sibila con quel che alimenta la vita, l’alta vampa gioca con il cielo stesso’.

Era una tipica profezia da giorno del giudizio, ma Arthur dubitava che Paolo fosse religioso.

Continuò a cercare informazioni su fimbulvinter: secondo la mitologia era un rigido inverno che sarebbe giunto a preannunciare il Ragnarök, dove tutti gli esseri umani sarebbero periti. No, non tutti, ne sarebbero rimasti due. Significava qualcosa di particolare? Ricordava in modo sospetto l’inverno nucleare, ma Paolo non poteva certo riuscire a provocare una guerra atomica. Era impossibile. Doveva essere impossibile.

I pensieri gli turbinavano nella testa, ma ce n’era uno che si presentava ripetutamente: in quanti cerchi c’era la croce, adesso?