Capitolo 23
Arthur percorse la hall dell’aeroporto con la valigia in una mano e il cellulare nell’altra. Lanciò un’occhiata alla piccola foto di Nathaniel che gli aveva spedito Raven. Si erano messi d’accordo di trovarsi al gate. I genitori di Arthur gli camminavano a fianco, ciascuno da un lato: avevano insistito per accompagnarlo, se non altro per conoscere Nathaniel. Arthur aveva protestato, alla solita maniera degli adolescenti, assicurandogli che ce l’avrebbe fatta benissimo da solo, ma invano. Sperava che quel Nathaniel sarebbe stato in grado di comportarsi in maniera normale.
Nathaniel si era seduto in un angolo con un libro e cuffie nelle orecchie. Sulla sedia accanto c’era una piccola montagna di pezzi di carta stropicciati. O era un mangione, o era seduto lì da un pezzo. Arthur chiese ai genitori di aspettare mentre andava a prenderlo.
«Ehi!» disse, agitandogli la mano davanti agli occhi per fargli alzare lo sguardo.
Sul viso di Nathaniel non c’era neanche l’ombra di un sorriso. Arthur gli tese la mano.
Nathaniel si alzò e richiuse il suo libro in edizione tascabile.
«Arthur».
«Nathaniel».
«Il mondo nuovo di Aldous Huxley» fece Arthur quando vide la copertina del libro. «Un classico. Ti piace?»
Per un attimo, Nathaniel sembrò essere da tutt’altra parte. Girò il libro e ne guardò il retro, come se lì ci dovesse essere una risposta. «Non lo so».
«Risposta onesta» ribatté Arthur, sorridendo. «Sei pronto per Parigi?»
Nathaniel lo guardò come se fosse l’incarnazione della stupidità. Evidentemente non aveva intenzione di rendergli le cose facili, cosa che Arthur poteva anche comprendere.
«Salutiamo dei genitori preoccupati e mandiamoli a casa» disse Arthur. «A proposito, negli ultimi giorni hai avuto lo stomaco sottosopra e non ti sei sentito bene». Poi si girò e ritornò dai genitori.
Nathaniel lo seguì, dopo aver raccolto uno zainetto.
«Non è in gran forma, è appena guarito da qualche giorno di disturbi intestinali» annunciò Arthur ai genitori.
Si salutarono, e Nathaniel riuscì finalmente a sorridere, sebbene in modo tirato. La madre gli domandò da dove veniva, cosa faceva e come era entrato a far parte di quell’organizzazione. Arthur si preoccupò per un istante, ma senza motivo. Nathaniel aveva le risposte pronte. Alla fine il padre li interruppe dicendo che era ora di tornare a casa. Si scambiarono abbracci, e poi Arthur e Nathaniel rimasero soli.
«Ti vogliono molto bene» commentò Nathaniel, in tono quasi sorpreso.
«E io voglio bene a loro».
«Ma non sanno niente?»
«Certo che no».
Nathaniel fu sul punto di dire qualcosa, ma cambiò idea. Arthur poteva forse immaginare a cosa stava pensando. Fecero qualche spesa prima dell’imbarco, senza parlarsi molto. Sull’aereo non avevano posti vicini, così Arthur approfittò del tempo per leggere. Arrivò quasi a metà del libro di Umberto Eco prima che l’aereo atterrasse al Charles de Gaulle. Nathaniel stava accanto al nastro del ritiro bagagli con la frangia negli occhi e i capelli di dietro che gli stavano sparati in fuori con una piega innaturale. Sbadigliò e si stropicciò gli occhi.
«E adesso che si fa?» domandò, quando entrambi ebbero ritirato le proprie valigie.
«Sai cosa dobbiamo fare qui?»
«No, Noorah ritiene che non mi serva saperlo. Non sono nient’altro che un alibi per te».
«Scusa. Noorah può essere un po’ difficile».
«Un po’ difficile?»
«Non prenderla sul personale, è così con tutti».
«Ah, ecco, questa sì che è un’attenuante».
Arthur non era sempre d’accordo sul modo in cui agiva Raven, ma in quello preferiva non immischiarsi.
Indicò il cartello dell’uscita. «Possiamo noleggiare una macchina o prendere un taxi, come preferisci».
«Taxi» rispose Nathaniel risoluto.
Arrivarono all’hotel e si registrarono, ciascuno in una stanza. Era quasi mezzanotte, ma Arthur non voleva ancora andare a letto: lì almeno poteva parlare con Nathaniel a tu per tu senza che nessuno li ascoltasse.
Bussò alla porta e Nathaniel aprì. Teneva in mano un pc portatile, e indossava ancora la giacca e le scarpe. Lo guardò strano.
«Cosa c’è?» chiese Arthur entrando.
Nathaniel gli porse il computer senza dire una parola. Lo schermo mostrava un ingrandimento della carta geografica dell’Europa, su cui erano sparsi diversi puntini. Uno era grande quasi il doppio degli altri, e copriva quasi tutta l’area di Oslo.
«Continuo a non capire» fece Arthur.
«Ingrandisci ancora».
Arthur cliccò sullo zoom, e al tempo stesso il puntino si rimpicciolì notevolmente, solo qualche pixel di grandezza. Il suolo si avvicinava sempre più, e a poco a poco non fu difficile riconoscere l’aeroporto di Gardermoen. Alla fine non fu più possibile ingrandire ulteriormente l’immagine.
«Guarda l’ora» disse Nathaniel.
Ci volle un po’ prima che Arthur capisse il senso di tutta quell’operazione. «Ma com’è possibile?! Il sistema ha un margine di approssimazione di diversi chilometri, ma questo puntino mostra quasi perfettamente dove mi trovavo!»
«Il tuo segnale è molto più forte di tutti gli altri».
«Non capisco».
«Il tuo segnale è molto più forte di tutti gli altri».
Arthur lo guardò disorientato.
«La domanda è: perché il tuo segnale si distingue? Il fatto che stai diventando adulto ha chiaramente avuto delle conseguenze su di te».
Era solo quello che Raven non gli aveva detto, o c’era dell’altro?
«Tu sai il perché, vero?» chiese Nathaniel.
«Cosa dovrei sapere?»
Nathaniel si riprese il computer e si sedette sul bordo del letto. «Non sembri tanto sorpreso che il tuo segnale sia molto più forte, e qualcosa mi dice che tu ne sai il perché».
«Non ne ho idea».
«Io non sono bravo a leggere le espressioni, ma Noorah mi ha spiegato in dettaglio quali segni dovevo osservare in questo caso».
Arthur inarcò le sopracciglia. «Sarebbe interessante sapere cosa siano questi segni».
«Be’, se tu mi dici perché non sei sorpreso, io ti riferisco quello che ha detto Noorah».
«Ma io sono sorpreso».
«Sì, ma non abbastanza».
Arthur si voltò a guardare la porta che aveva già chiuso dietro di sé. Da quanto tempo Raven sapeva?
«Non è che per caso negli ultimi tempi sei diventato estremamente intelligente o qualcosa di simile?» domandò Nathaniel.
«Mi spiace, ma credo che possiamo affermare con certezza che quella parte della tua teoria non è vera».
«Meno intelligente, allora». Sul viso di Nathaniel si diffuse un lieve rossore. «Cioè, non era... non intendevo in quel senso».
Arthur non poté fare a meno di sorridere. «Chi lo sa? A volte sento che sto per diventare definitivamente pazzo».
Nathaniel non parve soddisfatto di quella dichiarazione. «Perché tu in realtà sai che cos’è veramente?»
«Scusa, adesso ti ho perso. So cos’è cosa?»
«Cosa c’è in voi che fa scattare il rilevamento. Perché non tutti gli esseri umani vengono registrati dal sistema?»
Ad Arthur fu evidente che quella domanda lo tormentava, proprio come aveva detto Raven nella sua descrizione di Nathaniel.
«Non so cosa sia, so solo che è in relazione a quello che siamo».
«Ma perché il tuo segnale è tanto più forte di quello di tutti gli altri? Cos’hai tu di speciale?»
«È proprio quello che mi chiedo anch’io».
Nathaniel non parve credergli, ma non fece altre domande.
Lo stomaco di Arthur emise un forte brontolio. Gli avevano dato un pasto caldo sull’aereo, ma piuttosto scarso, e il suo appetito era cresciuto parecchio nelle ultime settimane. «Ho bisogno di mangiare qualcosa. Tu hai fame?»
«Sì, tra le altre cose. Ma prima vorrei sapere cosa dobbiamo fare in questo posto».
«Sì, hai ragione. In poche parole, dobbiamo implementare il tuo sistema nel nostro Network. Ecco. Ora andiamo a mangiare?»
«È tutto? Facciamo tutto questo per l’upgrade di un sistema informatico?»
«Aspetta e vedrai. È un po’ più complicato di così».
«Ok, andiamo allora».
«Mi sembra che abbiamo passato un ristorante a un isolato da qui».
Nathaniel si alzò. «No, andiamo a sistemare questo Network. Perché aspettare? Il mio ritmo sonno-veglia è ancora scombinato dal jet-lag, sono sveglio come un grillo. Possiamo trovare qualcosa da mettere sotto i denti lungo la strada, mica ci saranno solo ristoranti chic in questa città?»
Arthur non si era preparato ad andare subito alla Biblioteca, ma forse dopotutto non era una cattiva idea. «Ok, ma ci vuole una mezz’ora di cammino».
«Sicuro?» chiese Nathaniel, improvvisamente un po’ scettico.
«Sì, perché no? Devo solo prendere una cosa dalla valigia e chiamare casa, altrimenti mia madre va in tilt».
«Non ne dubito» ribatté Nathaniel, e per la prima volta da quando si erano incontrati fece un sorriso genuino.
«Aspettami alla reception tra dieci minuti. E porta il computer».
La temperatura era perfetta per una sera d’estate. Si sarebbe mantenuta sopra i venti gradi per il resto della notte, quindi la giacca non serviva. Per le strade ferveva la vita, la gente si godeva appieno la serata estiva.
«Sei già stato a Parigi?» domandò Arthur.
Nathaniel camminava con le mani in tasca e guardava più per terra che in qualsiasi altra direzione. «No».
«È una bellissima città. Io ci ho abitato verso la fine degli anni Trenta. Anzi, guarda, non era lontano da qui, circa quindici minuti a piedi nella direzione opposta. A proposito, parli qualche altra lingua oltre all’inglese?»
«No».
Arthur non sapeva cosa si era aspettato da Nathaniel, ma una parte di lui era rimasta delusa. Allo stesso tempo vedeva l’ironia della situazione: finalmente aveva incontrato una persona che sapeva la verità sul conto dei Bambini, sapeva cosa erano. Ora che poteva perfino parlarne in libertà, non sapeva più bene cosa fosse lui stesso, dato che il suo processo di crescita non si era arrestato.
Passarono davanti a un chiosco che vendeva crêpe, e Arthur non poté fare a meno di comprarsene due col ripieno di cioccolato.
Una la diede a Nathaniel, che la guardò storto.
«Cos’è?»
«Una frittella dolce con ripieno di cioccolata. Assaggia».
Arthur ne prese un grosso morso, lo inghiottì soddisfatto e proseguì il cammino.
La città era cambiata, ma una certa atmosfera era ancora la stessa. Persone che non sembravano accorgersi del mondo intorno a loro, e altre che non facevano altro che lasciarsi intossicare da tutti gli stimoli: musicisti di strada, artisti, saltimbanchi. Erano vestiti secondo la loro epoca, ma immutabili nella loro natura.
«Tu parli un francese perfetto» disse d’improvviso Nathaniel. «Quante altre lingue parli?»
«Vive o morte?»
«Diciamo quelle utili».
«Sapere una lingua, anche se morta, è utile di per sé, dato che una lingua forma il modo in cui pensiamo. Ma okay, mmh... tutte le lingue principali, almeno, tranne l’indonesiano. Perfettamente, aggiungerei».
«Voi siete tutti così, immagino».
«Così come?»
«Sapete tutto, siete manipolatori, avete sempre una risposta pronta, siete cinici».
«Certo. Dobbiamo prendere il controllo del mondo, cosa credi?» rispose Arthur con un’espressione troppo seria. «No, ovviamente siamo diversi fra noi, come tutti. Per fortuna».
Forse più diversi di altri, se doveva essere onesto. Sperò che Paolo fosse un’eccezione molto particolare.
Nathaniel non era sicuro di credere ad Arthur. Non si era preparato psicologicamente all’esistenza della sua famiglia. Aveva due sorelle, proprio come lui, e un padre e una madre che sembravano adorarlo. Lo avevano informato, ma l’incontro con i genitori glielo aveva fatto capire sul serio. Una piccola parte di lui non riusciva a non pensare che era ingiusto, sapendo al tempo stesso che si trattava di un pensiero idiota.
Ormai da tempo aveva perso la cognizione della strada che avevano percorso. Avevano attraversato un fiume e costeggiato quello che doveva essere un enorme parco. Era come se fossero entrati in un altro mondo dove i secoli si mostravano sotto forma di enormi alberi ed edifici che parevano aver visto molto. Eppure doveva essere solo una minuscola frazione di ciò che aveva visto quel ragazzino. Strano come quegli oggetti avessero un tale effetto su di lui, ma Arthur no. Non ancora, perlomeno. Lui e Noorah erano davvero diversi, cosa di cui era grato.
Per strada non c’era quasi nessuno. Attraversarono vicoli secondari dove lui non avrebbe osato avventurarsi neanche di giorno, ma era chiaro che Arthur sapeva esattamente dove si trovava, anche se una volta erano dovuti tornare indietro perché una via era stata chiusa dalla recinzione di un edificio.
Si fermarono davanti all’ingresso di una palazzina. Sembrava un condominio qualsiasi, ma doveva significare qualcosa per Arthur. Era facile capirlo dal modo in cui appoggiò la mano su uno dei due enormi portoni alti almeno tre metri, e la fece scivolare lungo il legno. I cardini di ferro erano macchiati di ruggine, e il legno scheggiato sembrava quasi marcio. L’entrata a fianco era di data molto più recente: su un lato c’era la debole luce del pannello di un citofono. Arthur si avvicinò e digitò un codice.
Dalla porta si udì un forte ronzio, e Arthur spinse il battente. Entrarono in un piccolo corridoio che conduceva in un enorme cortile.
Fu come penetrare in un mondo che Nathaniel associava ai dipinti e ai film. Il cortile interno assomigliava più a un orto botanico: c’era un rigoglio di fiori di ogni colore, e i muri erano ricoperti di edera verde. Solo i balconi luccicanti, che seguivano un disegno a spirale su tutto il lato interno, rivelavano una superficie metallica. L’erba si stendeva da un muro all’altro, interrotta solo da lastre di pietra che marcavano piccoli sentieri. Ovunque c’erano cespugli e alberelli, e al centro si ergeva un grande ciliegio giapponese circondato da vecchie panchine di legno.
Nathaniel sbirciò dentro le finestre. Sembrava che il tempo nell’edificio fosse trascorso in modi diversi: al primo piano c’era una cucina dei tempi andati, con semplici mobili di legno e lucenti paioli di rame appesi al soffitto; al piano superiore si poteva in parte scorgere un soggiorno dove metallo e superfici nere brillavano in tale quantità che la presenza umana sembrava fuori posto.
Arthur entrò nel giardino e avanzò fino a una scultura che Nathaniel non aveva notato: era una fontana, illuminata fiocamente da luci che dovevano essere sott’acqua. Arthur si sedette sul bordo, affondò la mano a coppetta, e schizzò l’acqua verso la scultura.
Nathaniel non era un esperto d’arte, ma quando la vide capì che era eseguita con un livello di abilità manuale che aspirava alla perfezione. Rappresentava una ragazza giovane, con un vestito semplice e un grembiule allacciato in vita. Teneva in mano un vaso da cui sgorgava un fiotto continuo d’acqua. Non fosse stato per il biancore spettrale della pelle, poteva sembrare viva. Il viso non era perfetto: era reale. Nathaniel non trovò una parola migliore per descriverlo. Ma la cosa che più lo inquietò fu che la ragazza piangeva: una lacrima solitaria le scorreva lungo la guancia, ma il suo viso non era triste. Assieme al dolore c’era anche qualcos’altro. Qualcosa di enigmatico. Guardarla faceva male, Nathaniel non sapeva perché.
Lanciò un’occhiata ad Arthur. L’espressione del suo volto rispecchiava quella della statua. Nathaniel voleva domandare molte cose, ma non riuscì a dire nemmeno una parola.
Arthur si alzò e proseguì attraverso il giardino. Nascosti in un angolo c’erano dei gradini che parevano scolpiti nella roccia e scendevano fino a una porta. Arthur si mise a rovistare nel suo zaino alla ricerca di qualcosa, e cominciò ad armeggiare con la serratura.
«Persa la chiave?» chiese Nathaniel in tono mezzo scherzoso.
«Non c’è nessuna chiave».
Arthur premette un interruttore, e un corridoio che sembrava inusitatamente lungo venne illuminato da tre semplici lampadine che pendevano da una volta arcuata. Nathaniel poté intravedere una porta all’estremità opposta: le pareti erano nude, e avevano lo stesso colore grigio del soffitto e del pavimento. C’era polvere dappertutto, ma c’erano un paio di impronte che andavano fino alla porta e tornavano indietro. Vecchie impronte. Dovevano appartenere a un uomo, a giudicare dalla taglia.
Arthur chiuse la porta dietro di sé, e la serratura scattò da sola. Si incamminò lungo il corridoio, si fermò dopo qualche metro fissando il muro sulla sinistra. Le sue dita tastarono la parete cercando qualcosa, poi appoggiandosi con entrambe le mani al muro Arthur si chinò in avanti. Dalla parete si udì un piccolo scatto, e delle sezioni del muro scorsero di lato rivelando un pannello numerico. Un pannello numerico di legno.
Nathaniel lo fissò e richiuse la bocca.
Riuscì a sentire le ruote dentate fare clic una dentro l’altra come piccoli orologi. Doveva essere tutto meccanico. Di colpo non fu sicuro di voler essere lì. La gente veniva ammazzata per segreti ben più piccoli di quello.
«Dove stiamo andando?» chiese.
Arthur non rispose, e cominciò invece a digitare cifre a una velocità incredibile. Usava tre dita, e Nathaniel non aveva la minima possibilità di seguirlo. Dopo che il pannello fu scivolato di nuovo a posto senza emettere un suono, Nathaniel non riuscì a vedere nient’altro che una comune parete, pur sapendo della sua esistenza.
«Alcuni di noi la chiamano Biblioteca. Altri la chiamano casa».
Arthur andò alla porta e l’aprì. Dietro c’era un piccolo ascensore. Non c’era alcuna indicazione di piani, solo un pannello simile al precedente. Arthur digitò diverse cifre, e l’ascensore iniziò a muoversi, ma Nathaniel ebbe una strana sensazione.
«Ci stiamo muovendo... di lato?» chiese.
«A dire il vero verso il basso, in diagonale».
Nathaniel stava cominciando ad avvertire una certa claustrofobia, quando le porte finalmente si riaprirono. Fuori era tutto buio, ma la luce dell’ascensore gli permise di vedere i contorni di un corridoio con il soffitto arcuato che si congiungeva alle pareti. Uscirono nel corridoio, e Arthur trovò un interruttore: con un cenno del capo e un gesto cortese delle mani, indicò a Nathaniel che doveva andare avanti lui. Quando quest’ultimo giunse alla fine del corridoio, si affacciò in una stanza tanto grande che non era sicuro che la parola ‘stanza’ fosse appropriata. Doveva essere così che i gladiatori del Colosseo si sentivano la prima volta che prendevano parte ai combattimenti. Alla luce fioca poteva a malapena intravedere il muro dall’altra parte. Tutt’intorno allo spazio aperto c’erano colonne che sostenevano un piano dopo l’altro.
Nathaniel contò fino al quarto prima che il buio gli impedisse di arrivare oltre, e ciascuno dei piani doveva essere alto almeno tre metri.
«Fuck» gli sfuggì di bocca.
La parola si innalzò nel grande spazio vuoto.
«Fiat lux!» esclamò Arthur, e girò un interruttore.
Le lampade si accesero in successione ascendente, un piano dopo l’altro, e Nathaniel cominciò a ridere. C’erano ben sette piani! Scalette a chiocciola li collegavano tra loro, mentre una normale scala a pioli appoggiata a un muro portava al primo livello. Le ombre indistinte che aveva visto nel centro della stanza diventarono tavoli, sedie e sofà. Era semplice capire perché alcuni la chiamavano Biblioteca: ogni parete era un unico grande scaffale, e così continuava anche al secondo piano. Nathaniel immaginò che così fosse per tutti gli altri piani. Dovevano esserci decine di migliaia di libri, forse centinaia di migliaia.
«Benvenuto nel luogo dove tutto ha avuto inizio» disse Arthur.
«Tutto?»
«Questo è stato il primo posto alla cui costruzione abbiamo lavorato insieme».
«Vuoi dire che esistono altri posti del genere?»
«No, non proprio come questo».
Nathaniel si chiese cosa significasse, ma l’interesse per i libri prese il sopravvento. «Che genere di libri ci sono qui?»
«Tutti i generi possibili. Troverai prime edizioni di autori mai notati, vecchi libri di cucina, trattati scientifici, prime edizioni di romanzi noti in tutto il mondo e altre cose che secondo alcuni di noi valeva la pena conservare. Ma più importanti di tutto sono le nostre storie, quelle che abbiamo scritto noi».
A Nathaniel si rizzarono i peli sulle braccia e lo assalì un senso di vertigine tanto forte che dovette sedersi. «Quindi voi avete raccolto delle cose qui? Storie? E scritto storie? Le avete pubblicate?»
«Sì, è successo anche che nei secoli qualcuno di noi sia riuscito a pubblicare delle opere minori» rispose Arthur, in un modo che suggeriva tutto il contrario. «Ma la maggior parte è solo per noi, e non sono storie fittizie. Parlo delle nostre storie. Tutto quello che ci è accaduto, come abbiamo vissuto, cosa abbiamo sperimentato. I due piani più in alto sono dedicati alle cose scritte da noi».
«Ma... ma come?! Di quanti libri stiamo parlando? Come avete fatto a scrivere una simile quantità di roba?»
«Vieni». Arthur si avvicinò alla scala e cominciò ad arrampicarsi.
Salirono un piano dopo l’altro. Nathaniel cercò di vedere cosa ci fosse negli scaffali, ma era troppo buio. Ogni piano era pieno zeppo di libri, a eccezione dell’ultimo, in cui gli scaffali erano pieni solo a metà. Quando vide i libri, rimase deluso: ciascuno scaffale aveva un nome e un anno. I libri avevano solo un numero sul dorso. I nomi erano insoliti, ma Nathaniel ne riconobbe alcuni: Varash, Ganesha, Cassiopea.
Arthur si arrestò a uno scaffale etichettato Eshu e tirò fuori un libro contrassegnato con un decimale. «Tieni, prendi questo».
Nathaniel lo aprì con cautela. Non era particolarmente grosso, e aveva un aspetto sorprendentemente nuovo. Sulla prima pagina c’era scritto: Eshu. Circa 2500 A.C.
«Cosa vuol dire Eshu?» chiese.
«È un nome».
«E la data indica il momento in cui è stato scritto?»
«No, indica il periodo di cui si suppone parli il libro».
«Duemilacinquecento avanti Cristo? Questa è davvero una storia accaduta quattromilacinquecento anni fa?»
«Più o meno».
Nathaniel voltò pagina. «Inglese? Eshu è il tuo nome?»
Arthur annuì. «È una delle prime storie che ho deciso di trascrivere. Credo che la troverai interessante».
Nathaniel guardò di nuovo lo scaffale chiamato Eshu. Dovevano esserci diverse centinaia di libri, ed erano meno di quelli catalogati sotto altri nomi.
«Ma come siete riusciti a scrivere tutto questo?»
«Non è così incredibile come può apparire. Non ci è mai mancato il tempo, e fino a poco tempo fa non ci mancavano neanche i mezzi. Quando è nato il Network, creare questo posto era uno degli obiettivi. Qualcuno voleva che fosse una casa, o perlomeno un luogo dove potevamo raccogliere ciò che era nostro. Qui possiamo venire a leggere le esperienze degli altri, e talvolta a rileggere le nostre per vedere come il passare del tempo influenza ciò che ricordiamo. La maggior parte è stata scritta nel corso degli ultimi duecento anni, e alcuni di noi sono di gran lunga più prolifici di altri». Arthur andò alla ringhiera e si sporse in fuori. «Prima era più difficile, ovvio. Oggi è relativamente facile sia scrivere sia conservare ciò che si è scritto, senza doverlo stampare su carta o in forma di libro».
«Non riesco a capacitarmi. Capisco che voi vivete in eterno, ma anche così... Come vi siete costruiti un posto simile, come avete fabbricato i libri? Come possono dei bambini riuscire a fare questo genere di cose?» Nathaniel udì la sua stessa voce e si rese conto di sentirsi un tantino isterico.
«Chi ha detto che ci siamo riusciti da soli? Be’, oggi come oggi ci riusciamo da soli».
«E così vi siete fatti aiutare da gente normale? Voglio dire, da adulti, come me?»
«Non esattamente come te, ma sì, gente normale».
«Ma allora anche altri sanno della vostra esistenza?»
«Dipende. È possibile che una persona conosca la verità, ma non so se è ancora in vita. Nel caso lo sia, non si trova molto lontano».
«Quindi altri sapevano la verità in epoche precedenti? E vi hanno aiutato con tutto questo?» Nathaniel non sapeva perché, ma non gli piaceva il pensiero che altre persone normali fossero coinvolte.
Arthur indicò uno degli scaffali più in basso: nel legno era inciso un simbolo, una squadra e un compasso con una grande rosa al centro.
Nathaniel ebbe la sensazione di averlo già visto. «Cos’è?»
«Magari hai già visto qualcosa che gli assomiglia. Se al posto della rosa metti una grande G, forse lo riconosci».
Quell’informazione non facilitò granché la memoria di Nathaniel.
«Con una G è il simbolo dei massoni» spiegò Arthur.
Nathaniel annuì. Aveva letto un libro su di loro molto tempo addietro. «Esistono ancora, vero?»
«Sì».
«Ma cosa significa allora il simbolo della rosa?»
«È evidente che non potevamo realizzare tutto questo da soli. Possiamo pianificare e procurarci i mezzi, ma siamo e saremo sempre bambini. Così dovevamo farlo realizzare ad altri, altri in grado di mantenere il segreto. Furono suggerite diverse alternative, ma una si distinse dalle altre. Sono sempre esistite persone che si lasciano affascinare dal mistero, e noi abbiamo le idee chiare su che cosa motivi gli esseri umani. Si imparano alcuni trucchi nel corso degli anni». Arthur si mise una moneta sulla palma, chiuse la mano, la riaprì e la moneta era scomparsa. «Per farla breve, infiltrammo la Loggia qui a Parigi e costruimmo un’organizzazione dentro l’organizzazione. I membri furono scelti sulla base della personalità, la posizione all’interno della Loggia e non da ultimo il potere che avevano nella società. Il nuovo simbolo rappresentava anche quello».
«Ma voi vivete solo quattordici anni, e venite piazzati a caso in giro per il mondo. Continuo a non capire come sia possibile. E di quei quattordici anni forse solo otto sono effettivi».
«Hai assolutamente ragione, ma la fase di pianificazione è durata almeno dieci anni. Si può predisporre un bel po’ di cose in quell’arco di tempo. Il piano viveva di vita propria. Alcuni di noi hanno cominciato il lavoro, mentre io vi ho partecipato verso la fine».
«Ma qualcuno poteva scoprirvi, no?»
«E scoprire cosa? Nessuno sapeva per chi lavorava in realtà: credevano di lavorare per una sezione segreta della Loggia».
«Be’, ma potevano scoprire il posto!»
Arthur gli voltò le spalle, si appoggiò a una delle colonne e lasciò vagare lo sguardo nella stanza. «Sì».
«E come lo avete evitato?»
Il silenzio durò troppo a lungo. «Nel peggiore dei modi».
Qualcosa nella voce di Arthur fece esitare Nathaniel, che però non riuscì a trattenere le parole: «Voi non escludete nessun mezzo, eh?»
Arthur si girò e lo guardò con un’aria strana. «So che Noorah ti ha minacciato usando la tua famiglia. Mi dispiace».
L’irritazione proruppe dal nulla. «‘Mi dispiace’?! Ma fammi il piacere! Anche tu avresti fatto lo stesso!»
La voce di Nathaniel salì nell’oscurità e scomparve, per poi ritornare sotto forma di debole eco. Quando il silenzio riprese il sopravvento, non sapeva cosa dire. Avrebbe quasi voluto essere più arrabbiato.
«Io in realtà avrei fatto le cose in modo diverso da Noorah. Forse ci sarei arrivato ugualmente alla fine, se tu ti fossi ostinato a non ascoltare la ragione, ma non avrei cominciato così come lei».
«Ragione!?» Nathaniel allargò le braccia. Cosa c’entrava tutto quello con la ragione?
Per un attimo incrociò lo sguardo di Arthur. Non doveva per forza trovarsi in quella situazione.
Il libro che aveva tra le mani sembrò di colpo diventato pesante. Si appoggiò al muro, lo aprì e lesse le prime righe, se non altro per evitare di dire qualcosa.
‘La cima della piramide era già abbastanza acuminata, anche senza la punta. L’enorme folla che ci circondava da tutti i lati ricordava il mare in tempesta, e il clamore ci gettava nella disperazione. Mancava così poco, eppure ora sembrava così lontano. Mio padre era assorto nei suoi pensieri. Probabilmente pensava alla punizione che gli sarebbe toccata se non avesse completato il lavoro nel tempo prestabilito’.
«Portatelo via se vuoi» disse Arthur, e si avviò verso la scala.
Alla fine Nathaniel richiuse il libro e lo mise nello zaino. Scesero di nuovo, ed entrarono in un altro lungo corridoio. Voleva veramente essere lì? Non gli gridava forse tutto quel luogo di starsene alla larga?
«Qui» disse Arthur, fermandosi davanti a una porta.
Questa si aprì con il rumore di un sigillo che veniva rotto. L’aria nella stanza era fredda e aveva un disgustoso odore di stantio. Il corridoio si riempì del rumore di ventilatori e macchine che ronzavano al massimo della potenza.
Entrarono. Faceva freddo abbastanza da far accapponare la pelle. Nella stanza c’erano almeno tanti server quanti ne aveva l’università nella sala principale, ma non un solo cavo pendeva fuori posto. Sulle pareti erano montate file di ventilatori, e grandi segnali di pericolo ammonivano che nella stanza erano conservati dei gas. I server erano allineati in file che confluivano verso il centro della stanza, e il loro rumore era intenso e fastidioso.
Arthur aprì un armadio e tirò fuori due plaid e due cuffie auricolari di protezione con un grande microfono a lato. «Ecco. Mi senti?»
Nathaniel annuì armeggiando col microfono.
«Ok, vediamo se tutto funziona come deve» proseguì Arthur. Prese con sé due sedie da un angolo, si sistemò vicino a un armadio rack di server e tirò fuori una tastiera, un mouse e un monitor piegato. Lo schermo era tutto nero, con l’eccezione di un puntino intermittente. «In quale sistema operativo vuoi lavorare?»
«Prima dimmi che cosa devo fare».
«Dobbiamo innanzitutto verificare i tuoi risultati» spiegò Arthur, digitando riga dopo riga i comandi.
Non c’era niente che indicasse una riga di comando o un equivalente, e Nathaniel non capiva un accidente di cosa stesse scrivendo Arthur. «Che genere di sistema operativo è questo?»
«Si chiama semplicemente OS, non si trova da nessun’altra parte se non qui. Ma adesso...» Arthur premette Invio, e lo schermo si fece di colpo riconoscibile, «... hai Unix. Dovrebbe funzionare, no?» Aprì un altro cassetto e ne tirò fuori un altro terminal giusto a lato, ci inserì una chiavetta USB che aveva in tasca e si sedette sulla sedia. «Così possiamo lavorare fianco a fianco».
Nathaniel si sedette sull’altra sedia, soffiò la frangia da un lato e guardò confuso lo schermo. «Ma cos’è che devo fare?»
«Ci arriviamo. Stai attento adesso».
L’altro schermo si risvegliò, e una lunga lista cominciò a scorrere. C’erano due elementi per colonna, un nome di persona e un nome di luogo. Nathaniel riconobbe alcuni dei nomi scritti sugli scaffali.
«Nel sistema c’è la localizzazione di molti dei Bambini, circa duecento per il momento. La inseriscono loro stessi quando e se hanno occasione di connettersi al Network. Quello che dobbiamo fare adesso è trovare un modo per controllare i risultati dei satelliti sulla base dei dati registrati qui».
Nathaniel si soffiò di nuovo la frangia da un lato. «Non si fa più in fretta a stampare i risultati e depennarli a mano? Immagino che, per esempio, Pechino possa dare molte combinazioni sotto forma di coordinate, sai che è una città gigante. Non sarà facile mettere in relazione le localizzazioni con le coordinate in quattro e quattr’otto».
«Sì, invece, se potessimo farlo una volta soltanto. Non c’è accesso ai dati di localizzazione dei Bambini attraverso la rete, o io perlomeno non ce l’ho. E la carta viene completamente aggiornata a intervalli di quattordici anni, quindi dobbiamo trovare un modo per automatizzare il processo. Noorah ha già cominciato a lavorarci. Speriamo che funzioni».
«E quanto tempo abbiamo?»
«Le due settimane della durata della conferenza, naturalmente. In quell’arco di tempo si potrebbe mettere insieme una piccola intelligenza artificiale, dunque qualche giorno dovrebbe bastare».
Nathaniel trattenne il respiro finché vide il sorriso di Arthur. «Aaah! Idiota!»
«Ammettilo, per un attimo mi hai creduto».
Purtroppo, pensò Nathaniel.
Arthur si assicurò che avessero spento correttamente il sistema, e andarono a cercare la cucina: era stata rinnovata dall’ultima volta che Arthur c’era stato, ma non c’era niente da mangiare. Nel soggiorno c’era una TV nuova, ma tutto era come prima. Non avevano cambiato nemmeno i divani di pelle. Tutto era talmente impolverato che una persona allergica avrebbe avuto un attacco soltanto a guardarsi intorno. A eccezione di due camere da letto, pulite di recente: Arthur immaginò che fosse stata Raven a predisporlo. Nathaniel sembrò trarre le sue conclusioni, ma non gli fece l’ovvia domanda.
Andarono a prendersi ciascuno il proprio bicchiere d’acqua e sedettero in una delle due camere. Nathaniel scribacchiò idee o altro su un taccuino. Arthur ispezionò armadio, cassetti e scaffali, più per noia che per altro.
«Ah, senti» cominciò Arthur, «hai salvato tutti i rilevamenti effettuati dal satellite?»
«Sì, ce li ho tutti» rispose Nathaniel, dandosi una pacca sulla tasca dei pantaloni.
Arthur cercò di ricordare cosa aveva scritto Raven. I satelliti percorrevano un’orbita semisincronizzata, il che significava che nell’arco di ventiquattro ore giravano due volte attorno alla Terra.
«Circa ventidue giorni con quarantaquattro set di dati?» domandò.
«Quarantatré, per la precisione» rispose Nathaniel.
«E possiamo usarli per testare il programma quando sarà finito?»
«Certo».
Decisero di dormire nella Biblioteca.
Arthur si assicurò di essere in una posizione confortevole prima di contattare il Guardiano.
«Se il sistema di Nathaniel funziona, è probabile che gli dirò la verità e il motivo per cui tu mi hai risvegliato» disse.
«Ma tu credi che funzionerà?» la voce del Guardiano sembrò fin troppo vicina.
«Non so, ma è meglio dei ricordi. Molto meglio. I ricordi non mi danno altro che mal di testa e sensazioni che non voglio provare».
«Qualcosa di utile dovrà pur saltar fuori prima o poi. Dovrei riuscire a recuperare altri ricordi più rapidamente».
«Lo avevi detto anche all’inizio, e non è successo un bel niente».
«Faccio quello che posso, proprio come te».
‘E non è molto, per il momento’ aveva voglia di dire a voce alta Arthur.
«E con l’altro allenamento come va?» chiese il Guardiano.
«Non lo so. Non ho la minima idea di cosa mi stia allenando a fare, ricordi?»
Nella voce del Guardiano si insinuò una nota allegra. «No, ma non ho dubbi che lo scoprirai. Devi solo continuare: l’effetto si farà sentire presto».
Arthur eseguiva gli esercizi mentali, anche se li trovava del tutto privi di senso ed estremamente ripetitivi. Erano diversissimi dall’allenamento che faceva per resistere alle sensazioni provocate dai ricordi: questi erano puri problemi di logica, si trattava di visualizzare delle forme e metterle assieme in modi particolari. E doveva cercare di farlo mentre si dedicava ad altro: pensiero in parallelo lo chiamava il Guardiano. È vero che era diventato via via più facile, anche se stava pensando a tutt’altro, ma non aveva ancora idea di cosa esattamente stesse esercitando. Il Guardiano aveva detto che era meglio che non lo sapesse.
Ciò non lo tranquillizzava per niente.