Capitolo 41

Dallo specchietto retrovisore Nathaniel guardò la figura farsi sempre più piccola e infine scomparire. Arthur si comportava in modo diverso dal solito, ma Nathaniel non riusciva a capire bene come. La questione era se fosse una cosa positiva o meno. Arthur era preoccupato per lui. Lui stesso non provava più sentimenti, ma questo non significava che non li riconoscesse negli altri. Forse Arthur era diventato più freddo, più cupo. Il Guardiano aveva menzionato qualcosa a proposito delle sue condizioni, ma Nathaniel non si ricordava cosa fosse. Era qualcosa che riguardava i ricordi. Se Arthur si spingeva troppo oltre, lui doveva rammentargli la tecnica. Era tutto. Sperava che fosse abbastanza.

Qual era il limite di velocità in quell’area? Nathaniel rallentò e ridusse la scala della mappa del GPS per poter avere un’idea complessiva della zona. Arthur l’aveva pregato di non fare nulla, ma Paolo o Mercer non si sarebbero forse aspettati che lui tentasse qualcosa? Nathaniel si fidava di Arthur, ma a tutto c’era un limite. Fermò la macchina in un tratto abbastanza rettilineo e tirò fuori lo zaino. Ci doveva pur essere qualcosa che poteva fare. Rovesciò il contenuto nel bagagliaio e cominciò a pensare. Non c’erano molte possibilità, ma una era meglio di niente. Trovò il coltello e il nastro adesivo e iniziò a lavorare.

Squillò il telefono.

«Sì?»

«Dirigiti verso Old Faithful. Dopo aver passato Madison, fermati alla prima area di sosta. La trovi sul lato destro, circa tre-quattro chilometri dopo Madison. Un uomo ti aspetterà lì . Ok?» La voce di Mercer suonava come se stesse parlando con un vecchio amico.

«Ok».

«Arthur è con te?»

«No, è rimasto indietro».

«Ti teniamo d’occhio. Se vediamo Arthur, ti posso garantire che non incontrerai più tua sorella».

«Ok».

Mercer mise giù prima che Nathaniel riuscisse a dire ancora qualcosa. Cercò di chiamare Arthur, ma trovò solo la segreteria telefonica. Lasciò un breve messaggio in cui spiegava cosa gli avevano detto di fare.

Il traffico di automobili in entrambe le direzioni aumentò. Nathaniel cercò di ricordarsi quanti visitatori il parco era solito accogliere nell’arco di un’estate, ma non ci riuscì, anche se era sicuro di averlo letto in un dépliant nell’ufficio dell’avvocato quella mattina. Dovevano comunque essere decine di migliaia. Quanti di loro sarebbero stati in pericolo se avessero dovuto far esplodere la bomba? Quanti sarebbero morti? Prima non sarebbe stato in grado di fare quello che stava facendo in quel momento, anche se era una scelta ovvia. L’alternativa era la morte di un numero ancora più grande di persone. Era sbagliato privare qualcuno della vita, ma era altrettanto sbagliato non salvarla. Una vita era una vita, e dieci vite erano più di una.

Cos’era cambiato davvero in lui quando aveva perduto i sentimenti? Era così che la moralità aveva a che fare tanto coi sentimenti quanto con la giustizia? Perché adesso era in grado di compiere un’azione che avrebbe privato della vita così tante persone, e prima no? L’azione era pur sempre la stessa. I pensieri continuarono a dibattersi, senza che Nathaniel giungesse ad alcuna conclusione.

Rallentò di nuovo.

Non fosse stato per il cartello, non si sarebbe mai accorto di Madison. L’area di sosta arrivò di lì a poco. C’erano diverse automobili, e la gente stava sparpagliata sulle panchine a godersi il sole. Nathaniel parcheggiò e uscì dalla macchina. Due famiglie erano sedute a mangiare, ma non c’era nessuno che sembrasse aspettarlo. Prese la tavoletta dall’auto e la mise sotto un braccio; in tasca aveva il passaporto e il portafoglio.

C’era una grande roccia piatta vicino alla macchina, e Nathaniel si sedette lì sopra ad aspettare. Dopo venti minuti una grande jeep proveniente dal senso opposto entrò nella piazzola. Dentro c’erano due uomini, che si diressero dritti da lui.

Uno di loro uscì dal veicolo e lo indicò. «Sei tu Nathaniel?»

Nathaniel annuì e si alzò. L’uomo era quasi tanto largo quanto alto, e non pareva esserci molto grasso su quel corpo. I capelli tagliati corti e il mostro orientale tatuato sul collo gli davano un’aria che molti probabilmente avrebbero trovato minacciosa. Indossava una giacca troppo calda per quella giornata, che nascondeva a malapena le armi che si portava dietro.

Andò all’auto di Nathaniel e gettò un’occhiata all’interno. «Ok, tu vieni con noi. Niente scherzi. Se io non rispondo al telefono a intervalli regolari, sai cosa succede a tua sorella».

Nathaniel fece spallucce e si sedette nel retro della jeep. Sospettava che la sorella avrebbe passato dei guai comunque. L’uomo si sedette accanto a lui. Si vede che non avevano pensato di perquisirlo. Strano.

Partirono. Anche l’autista aveva i capelli corti, ma gli occhi nello specchietto non davano l’idea di uno pronto a uccidere. Fischiettava piano una semplice melodia, che Nathaniel non riconobbe. Non sembrava che avessero fretta. L’uomo accanto a lui fissava la strada attraverso il parabrezza come se tutto fosse normale, ma non era difficile vedere che lo teneva d’occhio.

 

 

Viaggiavano da un’ora e mezzo. Si erano fermati a una stazione di servizio, dove l’autista aveva riempito una tanica di benzina e l’aveva messa nel bagagliaio. Il cellulare dell’uomo aveva squillato solo una volta. Nathaniel dedusse che si stavano avvicinando alla destinazione, quando la strada all’improvviso diventò uno sterrato e i passeggeri quasi sobbalzarono sui sedili, anche se stavano andando piano. Non c’erano altre macchine, e passarono diversi cartelli che avvertivano che quella non era una strada comune. L’uomo a fianco di Nathaniel prese a guardarlo più spesso, come se si aspettasse che sarebbe accaduto qualcosa.

Nathaniel guardava fuori dal finestrino cercando di ricordarsi l’aspetto della zona sulla mappa.

Aveva fatto quello che poteva. Tutto ciò che sarebbe accaduto d’ora in poi era fuori dal suo controllo, con un’eccezione. Si chiese quale fosse il piano di Arthur. Erano passate quasi tre ore da quando si erano separati. È vero che loro erano andati piano fino a lì, ma era improbabile che Arthur li avesse preceduti. Altamente improbabile.

Nathaniel scorse il campo base già da molto lontano.

Il fondovalle era piatto, e la torre di trivellazione si ergeva come un’erbaccia metallica nel paesaggio aperto. La descrizione della mappa era corretta. Sembrava impossibile scalare i fianchi delle montagne. Il bosco era fitto e arrivava così vicino al campo base che gli ricordò quella scena nel Signore degli Anelli in cui la foresta comincia a mettersi in marcia. Diverse automobili erano parcheggiate a qualche distanza dal campo base: due camion con il piano di carico vuoto, un grosso furgoncino con un portello aperto e due jeep, identiche a quella in cui sedevano loro. C’erano quattro grandi tende allineate nelle vicinanze della torre. Nathaniel non vide persone, e la torre non pareva in funzione, cosa che era un buon segno oppure uno pessimo. Accanto alla torre giacevano grandi quantità di tubi accatastati, e c’era una marea di apparecchi, generatori e cavi che andavano in ogni direzione. Ma nemmeno una persona.

Parcheggiarono l’auto accanto alle altre jeep.

Uscirono. L’autista squadrò Nathaniel da capo a piedi, poi lo invitò a svuotare le tasche e a sollevare la T-shirt.

«Vai» disse l’uomo grosso, facendo un cenno in direzione dell’accampamento. Sembrava a disagio, sia nell’aspetto che nella voce.

Mercer venne fuori da una delle tende. Indossava gli stessi identici vestiti dell’ultima volta, e si riparava gli occhi dal sole con la mano mentre guardava verso di loro. Scomparve di nuovo dentro la tenda.

Di colpo Nathaniel fu assalito dalla nausea e per un attimo ebbe l’impulso di vomitare, ma gli passò.

«Rimanete qui». L’uomo grosso si rivolse sia a Nathaniel che all’autista. Quest’ultimo prese un accendino e si accese una sigaretta, mentre il suo compagno si dirigeva verso la tenda. Nathaniel si infilò una mano in tasca. La reazione dell’autista fu così rapida che quasi non la vide, ma la pistola che gli venne puntata contro era reale abbastanza. Lo sguardo dell’uomo, però, era ancora mite. Nathaniel ricordò a se stesso che a volte le supposizioni erano pericolose.

«Fuori la mano dalla tasca, lentamente». Parlava inglese in modo tale da sembrare la parodia del cattivo in un film.

Nathaniel obbedì e sollevò la tavoletta con entrambe le mani tenendola davanti a sé quasi come uno scudo.

L’autista abbassò la pistola.

«Nathaniel!» gridò Emma nell’attimo in cui sgusciò fuori dalla tenda. Sembrava illesa.

L’autista disse a Nathaniel di incamminarsi. Emma gli corse incontro e gli si gettò al collo con una forza tale da farlo quasi cadere all’indietro. Le lacrime le scorrevano lungo le guance.

«Nathaniel, cosa sta succedendo? Chi sono questi? Cosa vogliono da te?»

Nathaniel la circondò automaticamente con entrambe le braccia, sapendo che era importante. Da qualche parte nel profondo della sua coscienza fu come se ricordasse qualcosa, qualcosa che non riusciva a esprimere in parole, qualcosa che premeva per venir fuori. Mercer e Paolo uscirono dalla tenda assieme all’uomo grosso.

«E così Arthur ti ha lasciato venire qui?» chiese Paolo. «Solo?»

«Sì».

«Sai dov’è?»

«No. So solo che ha abbandonato l’auto dopo la tua telefonata».

Paolo lo guardò senza dir nulla. Mercer fissava la tavoletta. Emma gli stringeva così forte il braccio che le sue unghie sembravano aghi.

«È strano. Che cos’ha?» chiese Paolo.

«Credo che quell’oggetto lo governi in qualche modo» rispose Mercer. «Non ne sono sicura».

Quell’oggetto lo governava? Nathaniel non aveva mai formulato quel pensiero, ma non era impossibile. Qualunque cosa fosse la tavoletta, possedeva poteri che superavano la sua fantasia. Certo che poteva influenzarlo, ma la logica era la logica. Ciò che aveva fatto era comunque giusto.

«Cosa facciamo adesso?» chiese Paolo.

«Appoggia la tavoletta per terra» disse Mercer.

«Lasciate andare Emma» replicò Nathaniel.

«Tu appoggiala per terra e allontanati di due passi, e lei potrà andare».

Nathaniel fece voltare Emma verso di sé. «Va’ alla macchina, Emma. Ti accompagneranno via da qui. Te lo prometto». Guardò Mercer cercando una sua reazione. «Poi metterò giù la tavoletta».

Paolo fece un cenno di assenso all’autista, che prese Emma per il braccio e tentò di portarla via con sé.

Emma gridò e si divincolò, ma Nathaniel le afferrò una mano e la strinse forte. «Andrà tutto bene. Fidati di me».

Emma lo guardò, come se all’improvviso lo vedesse per la prima volta.

«Vai» ripeté Nathaniel lasciandola libera.

«Metti giù la tavoletta» intimò Mercer.

Emma sembrò in procinto di crollare a terra, ma si incamminò verso l’auto, girata di lato, con il viso rivolto verso il fratello.

Nathaniel le fece un cenno col capo, poi si voltò verso Mercer e gettò la tavoletta a terra fra sé e gli altri due.

Mercer cercò di apparire indifferente, ma indietreggiò in modo quasi impercettibile.

«E adesso?» domandò Nathaniel.

«Prendilo» ordinò Paolo all’uomo grosso.

L’uomo gli afferrò un braccio e glielo bloccò dietro la schiena. Nathaniel non oppose alcuna resistenza.

Paolo raggiunse la tavoletta e la raccolse con cautela. Nathaniel sperò che esplodesse, ma si rivelò una speranza vana.

«Lui ci serve?» chiese Paolo.

«Di certo non nuoce averlo» rispose Mercer. «Non posso fargli nulla, visto che è stato a contatto con la macchina. Non so quanta influenza abbia su di lui, ma mostra qualche debole reazione nei confronti della sorella, quindi possiamo provare quella strada».

«Risponderò a qualsiasi domanda» disse Nathaniel. «Non c’è motivo di minacciarmi».

«Credi che ci fidiamo di te?» ribatté Paolo. «Mi dispiace, ma non esiste proprio».

«Avrete le stesse risposte qualsiasi cosa facciate a Emma. Non ne ho altre».

«Vedremo» commentò Paolo.

Nathaniel tese i muscoli, ma non aveva alcuna possibilità di muoversi, stretto com’era nella presa d’acciaio dello scagnozzo.

Paolo fece un cenno all’uomo che si era allontanato con Emma.

«Lasciatela andare, io...» cominciò Nathaniel.

Qualcosa di bagnato lo spruzzò sulla nuca e sulla faccia. Al tempo stesso esplosero dei colpi tanto rapidi che non riuscì a contarli. Sentì la stretta attorno alle sue braccia allentarsi. Mercer parve cadere all’indietro, ma poi rotolò su se stessa a terra e prima che Nathaniel facesse in tempo a muovere un dito era di nuovo in piedi.

Paolo crollò al suolo. Emma gridò, e Nathaniel si girò verso di lei. L’uomo la teneva davanti a sé puntandole la pistola alla testa, ma si guardava freneticamente intorno. Nathaniel non poteva vedere Arthur, ma doveva essere lui a sparare. Gli rimaneva un’unica possibilità. Scalciò via le scarpe. Mercer non era lontana: si mise a correre con tutte le sue forze verso di lei.

I loro occhi si incontrarono per un istante. Il sorriso di Mercer gli suscitò di nuovo un’improvvisa nausea, ma lui la represse. Ora lei era quasi alla sua portata. Nel preciso istante in cui Nathaniel si gettò verso di lei, Mercer rotolò di lato e lui atterrò al suolo così pesantemente che rimase ad annaspare in cerca d’aria. Esplosero ancora colpi, e Nathaniel sentì qualcuno correre. Si costrinse a rotolare sulla schiena.

Arthur arrivò correndo a una velocità incredibile.

Un altro colpo. Piccole scintille bluastre sprizzarono attorno al corpo di Mercer, e qualcosa che assomigliava a proiettili le ricaddero intorno.

A Nathaniel restava da fare una cosa sola, ma quando?

 

 

La più grande paura di Arthur era cadere durante la corsa.

Era difficile mirare mentre correva, ma sfruttò al massimo i suoi poteri. Rallentò notevolmente il tempo per brevi intervalli. Non nutriva la minima speranza che i proiettili avrebbero provocato danni, ma forse avrebbero sortito quel piccolo effetto sorpresa di cui c’era bisogno. Nathaniel aveva reagito con una rapidità sorprendente, ma sembrava che Mercer non volesse correre alcun rischio.

Arthur non fu sorpreso quando comprese che i proiettili che sparava contro di lei venivano fermati da una sorta di scudo. Svuotò il carrello e caricò di nuovo l’arma. Paolo era disteso a terra e lo stava prendendo di mira con una pistola, ma non sparava. Perché no?

Arthur si bloccò.

Nathaniel giaceva ancora a terra, e guardava ora Arthur ora Mercer, mentre le sue labbra si muovevano come se stesse parlando con se stesso.

«Non sparargli» intimò Mercer a Paolo, fissando Arthur. «Dovrà provare tanto dolore quanto ne ha inflitto a me». Fece qualche passo ed estrasse un coltello dalla guaina appesa alla cintura.

Arthur mirò prima all’uomo che teneva ferma Emma. Gli sparò un colpo alla testa e poi puntò su Paolo, ma Mercer si intromise fra di loro prima che avesse il tempo di sparare anche solo un colpo. Allora Arthur prese di mira lei, e fece fuoco due volte. Di nuovo sprizzarono scintille azzurre, e due proiettili appiattiti caddero a terra.

«Spero che tu abbia un coltello» fece Mercer, «altrimenti sarà noioso».

Arthur spostò la pistola nella mano sinistra, e tirò fuori il proprio coltello. Era più piccolo di quello di Mercer, ma non di molto. Era possibile che lo scudo, o qualunque cosa fosse ciò che la donna aveva intorno, non funzionasse a distanza ravvicinata.

Arthur avanzò verso Nathaniel.

«Se si alza, sparagli» disse Mercer indicando Nathaniel.

Arthur continuò ad avanzare verso il compagno, ma Mercer non volle attendere oltre. C’erano quasi quindici metri fra di loro, ma la donna si mosse con tale rapidità che se Arthur non avesse avuto i poteri attivati tutto sarebbe finito in quel momento. I coltelli si incontrarono così veloci e con tale intensità che il loro rumore sembrò un unico suono che durava a oltranza. Arthur sparò un colpo a distanza ravvicinata, ma il proiettile rimbalzò. Non aveva alcuna possibilità di puntare la pistola direttamente addosso alla donna senza offrire il fianco a un attacco. Mercer si ritrasse per un breve istante, prima che Arthur sferrasse un nuovo assalto, stavolta ancora più rapido. I coltelli guizzarono, a pochi millimetri soltanto dalla pelle.

Il calcio arrivò all’improvviso, ma Arthur lo vide al rallentatore, e lasciò che il proprio corpo si muovesse sull’onda del movimento impresso dal colpo.

Dopo, Mercer rimase a guardarlo con disprezzo. «Come mi aspettavo. Sei davvero un bambino. Nessun istinto, nessun equilibrio. Nessuna capacità di leggere l’avversario eccetto quando freni il tempo».

Arthur si rialzò. Gli faceva male qualche costola, ma i dolori erano così distanti che non se ne curò.

«Perché fate questo? Perché volete sterminare il genere umano?»

«Chi ha detto che vogliamo sterminarvi? Probabilmente ci riuscirete da soli. Non una grossa perdita, nel grande schema delle cose. È sorprendente quanto poco siate in grado di contribuire». Mercer parve delusa. «Non avete nulla di unico. Nulla».

«Anche se quello che dici fosse vero, cosa abbiamo fatto per darvi fastidio?»

Mercer fece una breve risata. «Fatto? Credevi davvero che voi foste speciali? Com’è che lo chiamate? Nel posto sbagliato al momento sbagliato? Voi siete uno sbaglio, nient’altro. Ma non preoccuparti, stai per morire, una volta per sempre, oggi stesso».

Non c’era nessun motivo per cui Mercer dovesse mentire. Arthur vide che Nathaniel era in procinto di alzarsi, ma anche Paolo vide la stessa cosa. Nathaniel non aveva alcuna chance di raggiungere Mercer senza essere colpito. Aveva gli occhi ridotti a fessure e tutto il corpo teso. Qualunque fosse l’azione che aveva in programma, sarebbe accaduta nei pochi attimi successivi.

Arthur si slanciò in avanti fingendo di voler attaccare Mercer con il coltello, ma all’ultimo momento le si gettò di lato così da ottenere un’apertura verso Paolo. Nello stesso istante sparò. Era assurdo sperare di centrare il bersaglio, ma i colpi fecero sì che Paolo si raggomitolasse su se stesso cercando di farsi il più piccolo possibile, e non fosse in grado di sparare a Nathaniel. Poi Mercer gli fu di nuovo addosso. Bloccare il suo attacco non era possibile, e il coltello della donna gli affondò nell’avambraccio. Arthur non avvertì alcun dolore, ma la mano perse all’improvviso tutta la sua forza e il coltello scivolò via.

Nathaniel scattò con tutta l’energia di cui era capace. Arthur non poté dire se si muoveva rapido o lento. Una lieve speranza si affacciò, ma scomparve non appena Paolo si riprese. I proiettili colpirono Nathaniel alla coscia e al braccio, e lui cadde malamente a terra, neppure prossimo a raggiungere Mercer. Ma tenne gli occhi fissi su di lei, tutto il tempo, perfino mentre cadeva.

«Tu non sai niente!» urlò. La sua voce era strana.

Mercer fece un passo verso di lui. «Che cosa hai detto?»

«Ho detto che non sai niente, non hai capito un bel niente! Il Guardiano è qui, dentro di me». Nathaniel si sollevò lentamente con il braccio illeso. In un movimento bizzarro, avvicinò i talloni.

«Allora pregalo di salvarti» ritorse Mercer. «Peccato, purtroppo, che io sappia che è già morto». Estrasse la pistola e si mosse verso Nathaniel.

«Proprio come te...» disse Nathaniel, e sbatté i talloni l’uno contro l’altro.

Il mondo svanì inghiottito da un’onda di luce, aria e fragore.

Ad Arthur tornarono pian piano le forze.

Mercer si rialzò con un ringhio disumano, stringendo ancora nei pugni coltello e pistola. Aveva un taglio lungo e profondo sulla gola, ma non sanguinava. Il suo viso era contorto dalla rabbia quando avanzò verso Arthur.

Il calcio lo colpì allo stomaco con tale forza che il mondo per un attimo scomparve di nuovo. Mercer gli si sedette sopra e gli puntò il coltello alla gola. Prese qualcosa dalla tasca e glielo premette contro il torace. Da quel contatto con la sua pelle scaturì una strana energia.

«Non mi dispiacerebbe se ad aspettarti ci fosse la vostra patetica versione dell’Inferno» disse, e premette più forte.

Ad Arthur sembrò che ogni suo muscolo dovesse lacerarsi. Tutto il corpo fu percorso da scosse tali che pensò stesse per saltar su da terra. La pulsazione si fece più intensa. Arthur voleva urlare, ma nessun muscolo reagì come di consueto. Sentì la punta del coltello penetrare lentamente attraverso la pelle. Mercer gli parlava, ma lui non era in grado di capire una sola parola.

All’improvviso udì un’altra voce che gli sussurrava qualcosa, da molto, molto lontano. E il mondo si trasformò.

Anche volendo, Arthur non avrebbe potuto evitarlo.

 

 

Non era difficile riconoscere il posto. Tutto era bianco, e solo grazie all’esperienza fatta in passato Arthur ebbe la sensazione che ci fosse qualcosa su cui poggiare i piedi.

Mercer era dieci metri davanti a lui. Si guardava attorno confusa, e pareva sul punto di cadere da un momento all’altro. Indossava dei semplici, larghi pantaloni rossi. Assomigliava a un essere umano, ma i seni e i capezzoli erano scomparsi. Non aveva neppure l’ombelico, e le braccia erano di una lunghezza anormale. La sua pelle aveva uno strano colore bluastro e sembrava quasi splendere di luce propria. Il volto non era lo stesso, anche se era facile riconoscerla. Era più stretto e più magro di quanto fosse anatomicamente possibile, e più androgino. C’era qualcosa di macabro in tutta la sua figura, qualcosa di ultraterreno.

Arthur si guardò a sua volta: aveva l’aspetto di sempre, ma poteva muovere il braccio come se nulla fosse accaduto.

«Vlan Shock?» Un guizzo di paura passò sopra il volto di Mercer.

Arthur non sapeva di che cosa stesse parlando. In un modo o nell’altro aveva costretto Mercer a seguirlo nello stesso spazio dove lui e il Guardiano si erano incontrati.

«Com’è possibile?» gridò Mercer. «Cos’hai fatto?» Si guardò il corpo meravigliata, poi fissò Arthur. «Non ne hai la minima idea, vero? E ciononostante sei riuscito a far questo. Questo, che noi da così tanto tempo abbiamo perduto!»

Arthur l’ignorò. Cercò di manipolare lo spazio come aveva fatto in passato, ma le regole non erano più le stesse. Lo spazio rimase una grande, piatta superficie bianca. Cos’era successo?

Arthur non aveva dubbi che fosse stata quella voce a mandarlo lì. Ma Mercer, come c’era venuta anche lei? Sperò che il mondo reale si fosse arrestato, che il coltello di Mercer non gli stesse più penetrando nella pelle. D’istinto si portò una mano alla gola, ma non sentì nulla.

Mercer assunse una strana posizione, tenendo le palme delle mani rivolte in fuori all’altezza del petto e chiudendo gli occhi. Il suo respiro pian piano cessò, e dalle sue mani emanò una debole luce. Mosse il corpo controllata, componendo figure che dovevano aver richiesto molti anni di perfezionamento. Era come se con le braccia circondasse qualcosa. I suoi movimenti si fecero sempre più rapidi, e la luce aumentò di pari passo. A poco a poco davanti a lei si materializzò una spada. Questa seguiva perfettamente i suoi movimenti, come se non fosse altro che un prolungamento del suo stesso corpo.

Quella strana spada non aveva una lama nel vero senso del termine, ma una sottile linea blu circondata da un alone nebbioso. Non emetteva alcun suono, ma Arthur poté avvertire le vibrazioni attraverso l’aria. Mercer sollevò le palpebre e parve quasi non credere ai suoi occhi. Per un attimo Arthur pensò che gli ricordava un bambino piccolo. Capì il perché. Guardarla era innegabilmente ipnotico.

Mercer posò di nuovo gli occhi su di lui, con uno sguardo lungi dall’amichevole. Si posizionò in un modo che annunciava che quella era una battaglia, e Arthur il suo avversario. Arthur chiuse gli occhi, si concentrò, e percepì il bastone tra le proprie mani. Queste riconobbero il bambù molto prima che lui lo vedesse. Era un po’ più lungo di lui, e aveva un bilanciamento perfetto.

Mercer attaccò senza fare alcun rumore.

Il primo colpo fu duro, dritto al bersaglio, senza alcuna forma di raffinatezza. Le mani tremarono quando la spada entrò in contatto con il bastone. Mercer si strinse nelle spalle: probabilmente non funzionava come aveva creduto. Arthur dedusse che né la potenza fisica né la forma dell’arma avevano alcun significato in quel luogo.

Mercer si ritrasse e cambiò posizione.

Arthur attaccò con prudenza, a titolo di prova, mentre cercava di ricordarsi forme di combattimento che aveva appreso molto tempo addietro. Ogni fendente fu respinto a colpi secchi, come se fossero esercizi di riscaldamento.

«Lo sai che cosa succede se muori qui dentro?» chiese Mercer mentre giocava con la spada in una mano e la faceva danzare in cerchio. «Non è il tuo corpo che muore qui. Sei tu stesso. Tutto ciò che sei. Tutto ciò che sei stato».

C’era del vero in quelle parole. Arthur poteva quasi sentirlo sulla pelle. Erano i ricordi che sarebbero morti. Il corpo sarebbe sopravvissuto, ma non sarebbe rimasto nulla di ciò che era lui. Eshu sarebbe morto.

Il pensiero non lo spaventò, era quasi seducente. Dimenticare tutto prima della fine. Non era forse una benedizione?

Solo un riflesso gli evitò di essere tagliato in due dalla spada. Per un attimo Arthur rimase confuso, ma Mercer continuò ad attaccare, e i pensieri furono spinti via dalla concentrazione. Il suono delle armi che si incontravano era come un crepitio di nacchere mentre i due si danzavano intorno. La lunghezza del bastone rendeva facile tenere Mercer a distanza, ma il ritmo si faceva sempre più serrato. Se Arthur si fosse fermato, anche solo per un secondo, sarebbe stato spacciato. Ma non poteva. Non voleva.

Arthur spezzò il ritmo e attaccò più rapido che poté.

Il terzo colpo saettò verso il braccio di Mercer, ma lei con una mossa sovrumana si contorse e lo schivò, cosicchè il bastone le scalfì appena il braccio. Ciononostante il dolore fu sufficiente da farle digrignare i denti.

«Questa commedia è durata abbastanza» disse, e spiccò il salto verso Arthur.

I fendenti di spada gli grandinarono addosso. Rapidi, da ogni direzione. Passo a passo fu costretto a indietreggiare. La mano di Mercer gli colpì il petto con tale forza ché Arthur venne sollevato da terra. Atterrò sulla schiena, e sfruttò l’attimo per rotolare via e rialzarsi in piedi, ma il bastone era scomparso.

Mercer rimase immobile a guardarlo, e annuì fra sé. «Spero che dopo questo rimanga qualcosa del tuo cervello, così possiamo scoprire cosa ti hanno fatto. Riprendi la tua arma. Non mi interessa una vittoria sleale».

Arthur cominciò a ridere. Sleale? Era fuori da ogni realtà.

Mercer gli stava davanti quasi immobile, ma in tutta quell’arroganza Arthur colse un pizzico di insicurezza.

«E io che credevo che voi foste creature avanzatissime! In che senso non vuoi una vittoria sleale? Non dovresti piuttosto ringraziarmi per averti portato qui, se non siete nemmeno in grado di farlo da soli? Cos’altro avete perso?»

Mercer doveva aver sentito ogni parola, ma non sembrò ascoltare.

«La tua arma» intimò. «Ora».

Arthur dovette far forza su se stesso per non mettersi a urlare come un bambinetto. Doveva esserci qualcosa che poteva fare. Mercer non conosceva per nulla quel mondo, e quella era la sua debolezza. Arthur rivide con gli occhi della mente tutto ciò che era successo là dentro, e un piccolo dettaglio risaltò più vivido degli altri. Era una pazzia, ma non aveva nulla da perdere.

Pensò a un osso, un femore, e lo sentì nel pugno. Tagliato, affilato e levigato per diventare una delle armi più primitive, una delle primissime che aveva usato. Una parte dell’osso era limata per consentire una presa migliore, tuttavia era abbastanza spesso da adattarsi bene alla mano. L’estremità tondeggiante era massiccia, e poteva facilmente spaccare un cranio; l’altra estremità era acuminata, affilata e dura come un qualsiasi coltello. La sensazione di tenere l’osso in mano era così familiare che Arthur si chiese se non fosse una copia esatta di quello che aveva usato quando era stato un membro della casta dei guerrieri.

«Voi siete un’infamia per l’universo» dichiarò Mercer, e avanzò su di lui facendo roteare la spada una volta.

L’attacco era semplice da prevedere, e Arthur lo bloccò. Due nuovi attacchi, che furono bloccati a loro volta. Mercer lo stava saggiando, come se pensasse che Arthur stesse cercando di ingannarla con il passaggio da un’arma lunga a una corta. Quando sferrò l’attacco vero e proprio, accadde così in fretta che Arthur non sarebbe riuscito a bloccarlo con il femore neanche se avesse voluto, ma d’altra parte non era quella la sua intenzione.

L’arma più antica dell’uomo era l’uomo stesso.

La spada gli si abbatté vicino al il collo, ma Arthur la fermò con la mano. Per quale motivo lì dentro non si sarebbe potuto utilizzare qualsiasi oggetto come arma?

Il dolore non assomigliava a nulla che avesse mai provato prima. Non era come se qualcosa gli avesse tagliato una mano, ma come se fosse stato tagliato lui tutto intero, in una volta sola. Come se tutto ciò che lui era fosse stato disgregato e ridotto a brandelli, più e più volte. Ma aveva arrestato l’attacco.

Ci volle un attimo prima che Mercer capisse cos’era accaduto, ma ormai era troppo tardi.

La punta penetrò da sotto il mento dentro la testa come fosse stata aria.

Nessuna resistenza, niente sangue.

Solo un paio d’occhi che fissavano davanti a sé fin quando non furono scomparsi assieme al resto del corpo. Le supposizioni di Arthur non erano state del tutto esatte. Qualsiasi cosa dicessero le leggende di Vlan Shock menzionate da Mercer, comportavano un’arma, e Arthur ne capì il motivo. Erano pensieri e forza di volontà le armi con cui avevano combattuto, ma era più difficile credere a certe idee che ad altre. Ora sentì che le forze lo stavano abbandonando. Mercer non esisteva più, ma nel mondo reale il suo corpo stava ancora sopra il suo, con il coltello in procinto di bucargli la gola. Anche priva di conoscenza, Mercer poteva finire per ucciderlo.