Capitolo 32
Arthur aprì gli occhi e ricordò i suoni uditi in sogno, senza capire cosa fossero. Si tirò a sedere sul letto e si strappò di dosso la maglietta. La macchina fotografica era sul pavimento, collegata al computer. Cliccò un tasto, e lo schermo si risvegliò. Il trasferimento dati era completo. In realtà non avrebbero dovuto usare la quota a loro disposizione per trasferire dati per mezzo del telefono satellitare, ma Raven doveva ricevere le foto il prima possibile, e Arthur non voleva utilizzare la connessione internet della pensione. Chiuse la posta, e apparve la carta geografica. Il giorno prima Paolo era stato sulla costa orientale degli USA, ma ora si stava dirigendo in Europa, presumibilmente nel Galles. Con ogni probabilità era in viaggio verso di loro.
La notte sembrava già molto lontana. Avevano trovato delle persone che lavoravano con Paolo, e di conseguenza anche la sua base, e tra non molto avrebbero trovato anche lui. Non sapevano ancora chi fossero quelle tre persone né cosa facessero, probabilmente erano dei ricercatori, o di astronomia o di geologia. Ad Arthur quel fatto non piaceva per nulla. I momenti in cui la sua fiducia nel genere umano era stata ai minimi storici erano paradossalmente legati alla ricerca o alla religione. Religiosi capaci di tutto in nome di ciò in cui credevano, ricercatori capaci di tutto per arrivare a sapere.
E una cosa era certa: Paolo non usava questa gente a scopi benefici per l’umanità.
Nessuno dei ricordi più recenti gli aveva dato anche solo un’idea di cosa avesse fatto Paolo nell’ultimo anno. Alcuni quasi non avevano senso, e sembravano più che altro incubi. Incontri con persone, loschi accordi per la consegna di attrezzatura, ma mai nulla di definitivo. Arthur aveva avuto uno scoppio di rabbia col Guardiano, come se potesse servire a qualcosa. Ancora non aveva escogitato un modo per fermare Paolo, tranne quello più ovvio.
Guardò fuori dalla finestra. In giardino c’era un triciclo rosso che assomigliava a quello che Emilie aveva barattato con uno dei gattini del vicino. Non fosse stato per l’allergia della madre, avrebbe probabilmente potuto tenerlo. Arthur aprì la finestra e inspirò l’aria fresca.
Ogni cosa aveva fine.
Bussarono alla porta, ed entrò Nathaniel. «Da quanto sei sveglio?»
«Da non molto».
Nathaniel sbadigliò e sedette sul pavimento davanti al computer. Arthur prese il cellulare e controllò se Raven avesse risposto al messaggio.
«Cosa si fa ora?» chiese Nathaniel.
«Niente, prima che io abbia parlato con Raven».
«Ma poi?»
Arthur si voltò di scatto. «Non lo so, porca miseria! Va bene?!»
Si guardarono, Nathaniel con la sorpresa dipinta in volto.
«Scusa. Non volevo» disse Arthur e si girò dall’altra parte.
Lo vide con la coda dell’occhio, qualcosa di grande e bianco che volava in direzione della sua testa. Il mondo rallentò la velocità, ma nemmeno la reazione più istantanea sarebbe riuscita a evitare che il cuscino lo colpisse dritto in faccia.
«Stupido idiota!» Quando il mondo ritrovò la sua consueta velocità, la voce di Nathaniel arrivò come una grossa ondata che si infrange sulla riva. Aveva gli occhi lucidi. «Credi che non mi accorga di cosa fai, di cosa dici e non dici? Affermi che i ricordi non aiutano, ma dopo hai la faccia tutta grigia. Non hai nominato la tua famiglia neppure con una parola, ma controlli in continuazione siti di notizie norvegesi. Sei tu che devi fare il superuomo e mantenere la calma! Non io!»
Arthur raccolse il cuscino, e tenendolo in braccio si sedette sul bordo del letto. «Non è che io non ci abbia provato, ma...» Lisciò il cuscino e lo girò. «Non lo so. Non so nemmeno se dipende da me».
«C’entra qualcosa?»
Arthur sentì tornare a crescere l’irritazione. «Certo che c’entra! Io so quali sono le mie capacità. Ma in questo preciso istante...»
«Almeno evita di far finta di niente. È una cosa che odio».
Arthur ebbe la sensazione che la reazione di Nathaniel fosse dovuta a qualcosa con radici più profonde della situazione concreta in cui si erano appena trovati. «Ok. Ci proverò». Si alzò e consegnò il cuscino a Nathaniel. «Grazie» disse a bassa voce.
Nathaniel sembrò confuso per un attimo, poi si sistemò il cuscino dietro la schiena e si appoggiò al bordo del letto. «Di nulla. Ma la prossima volta tiro qualcosa di più duro».
La sua voce era un po’ troppo alta e rauca.
«In quel caso probabilmente me lo sarò meritato. Solo assicurati che dopo io mi svegli!»
«E allora perché mai dovrei tirare qualcosa di più duro?» volle sapere Nathaniel.
«Per sentirti meglio?»
Nathaniel sorrise. «Sì, forse».
Fecero colazione leggendo ciascuno il proprio libro, e rimasero così per il resto della mattinata fino a che Raven finalmente non mandò un messaggio pregandoli di chiamarla. Aveva visto le foto, e letto il loro rapporto. Poteva volerci un’eternità per estrarre informazioni dai pochi elementi che avevano, ma era perlomeno qualcosa. Nemmeno Raven era particolarmente entusiasta dell’attività di quei ricercatori. La cosa più importante era identificare Paolo e Mercer, tutto il resto passava in secondo piano.
«Se mi date un’identità, cambia tutto» dichiarò. «Appena ho una traccia da seguire, niente mi potrà fermare».
«Io voglio parlare con Paolo» disse Arthur, come se fosse in contraddizione con quello che aveva detto Raven.
«Naturalmente, ma non c’è nessuna fretta. Ora che sappiamo di questa base e di queste persone, abbiamo sempre un modo per raggiungerlo. Possiamo lasciargli un messaggio o un numero di telefono, e lui dovrà chiamarci».
Arthur si morse il labbro inferiore. «E come la mettiamo con Mercer? Se la uccidiamo alla prima occasione, sarà ancora più difficile per Paolo».
Nathaniel tentò di nasconderlo, ma Arthur si accorse della sua reazione.
Anche la piccola pausa di Raven fu eloquente. «Ma se non hai con te nemmeno un’arma da fuoco, Arthur. Raccogliamo prima le informazioni, poi possiamo decidere il da farsi».
Nathaniel si schiarì la voce. «Come facciamo a risalire alla sua identità? E una foto mica risolve automaticamente tutti i nostri problemi, no?»
«No, ma insieme alle sue abitudini di viaggio dovremmo riuscire a identificarlo» dichiarò Raven. «Fidatevi di me. Datemi una foto, e lo troverò».
«Ci vorrà del tempo» commentò Arthur.
«Certo che ci vorrà del tempo, ma questo è l’unico modo. L’unico modo sicuro».
Arthur scosse la testa, ma non disse nulla.
«E se non riusciamo a fare una foto, cosa succede?» volle sapere Nathaniel.
«Ci riusciremo» ribatté Arthur.
Continuarono a discutere ancora per un po’ prima di mettersi d’accordo su quando avrebbero richiamato Raven. Arthur e Nathaniel impacchettarono tutte le loro cose e sistemarono i bagagli in macchina.
Prima di tutto ritornarono alla biblioteca locale, dove c’era una collezione di vedute aeree che potevano usare per farsi un’idea della zona in cui si trovava la fattoria dov’erano andati i ricercatori. Nathaniel si assicurò di aver fotografato le immagini più importanti e le trasferì subito sul computer. Dopo il giro notturno, sapevano che la fattoria si trovava in fondo a una strada privata. Restava da escogitare il modo più semplice per tornare lì senza essere scoperti. Dovevano anche pensare alle vie di fuga. Non c’erano strade sul retro dell’edificio, quindi la cosa migliore era proseguire ancora un pezzetto e poi attraversare i campi a piedi, ma così si escludeva qualsiasi forma di ritirata veloce nel caso fossero stati scoperti. Ci voleva oltre un chilometro di cammino, e perfino in quel caso potevano essere costretti a percorrere l’ultimo tratto strisciando per non essere visti. Per fortuna le previsioni davano cielo coperto, ma non pioggia.
Nathaniel provò a cercare informazioni sulla fattoria, o su chi ci aveva abitato, ma non trovò nulla. Arthur non voleva domandare a nessuno. Per il momento ne sapevano abbastanza, e non c’era motivo di comunicare ad altri il loro interesse.
Gli ultimi risultati dei satelliti indicavano che Paolo si trovava in un punto sopra l’Atlantico, e Arthur si mise immediatamente a cercare quale volo di linea fosse diretto a Cardiff, la capitale del Galles. C’era solo una partenza possibile, ma anche l’eventualità che Paolo usasse un jet privato non era da escludere. A ogni buon conto, da qualche parte sarebbe dovuto atterrare, e in teoria doveva essere possibile ottenere informazioni a riguardo. Era probabile che Paolo avrebbe raggiunto la fattoria in serata. Mandarono a Raven un sms con le ultime notizie e le chiesero di controllare le informazioni sul traffico aereo.
La proprietà consisteva in tre costruzioni: un edificio abitativo, un fienile e qualcos’altro che era difficile identificare dalla foto. C’era un giardino su un lato e sul retro dell’abitazione. In confronto a quest’ultima, il fienile sembrava gigantesco: la superficie doveva essere almeno cinque volte tanto. Una strada sterrata conduceva fino a lì. Su ogni lato c’erano campi coltivati. Avvicinarsi alla fattoria restando al riparo di cespugli o alberi era quasi impossibile. L’unico modo era girarci attorno, così che il fienile rimanesse fra loro e l’abitazione. La questione era se il fienile venisse utilizzato per qualcosa: doveva pur esserci un motivo se i tre della pensione erano lì, e il fienile era abbastanza grande da nascondere parecchie cose.
Si fermarono a un chilometro di distanza.
«E se hanno armi da fuoco?» chiese Nathaniel, fissando i vestiti neri che Arthur aveva riposto sul sedile posteriore.
«Me la caverò. In ogni caso, non penso che tu dovresti venire fino alla casa. Basta uno di noi due per fare le foto. Io sono più piccolo di te, e so muovermi senza far rumore. È meglio che tu rimanga in macchina».
«Forse sì».
«Io sguscio fino all’abitazione e faccio le foto che ci servono. Tu aspetti, e puoi fare rapporto a Raven nel caso succeda qualcosa».
«Ma come faccio a sapere cosa succede?»
«Ci teniamo in contatto col cellulare».
Nathaniel tirò fuori il proprio e lo mise in carica. «Avremmo dovuto avere un apparato radio o qualcosa del genere».
«Troppo tardi per pensarci adesso».
Arthur si frugò le tasche per accertarsi che si ricordava dov’era tutto quanto. Era tutt’altro che disarmato: con un coltello e l’abilità di analizzare tutto in slow motion era in grado di avere la meglio anche sul soldato più addestrato.
Rimaneva solo da aspettare.
Stava finalmente giungendo il crepuscolo, e nel cielo si affollavano nuvole scure che minacciavano pioggia. Nathaniel parcheggiò la macchina in una piazzola accanto alla strada. La fattoria stava sull’altro lato di un piccolo dosso, e si riusciva a malapena a scorgere il fienile in lontananza. Arthur indossò i vestiti scuri e si spalmò la faccia di trucco nero. Era nero dalla testa ai piedi, inclusi i guanti e un passamontagna che alla fine gettò via perché era più fastidioso che utile, sostituendolo con un semplice berretto nero. Controllò il livello di batteria della macchina fotografica e del cellulare, e li infilò nello zaino.
«Ok, mando un sms quando raggiungo il retro del fienile. Non venirmi a cercare. Se non rispondo, tu te ne vai e contatti Raven».
«Aspetto qui, leggo un libro o qualcosa del genere». Nathaniel si ficcò le mani tremanti in tasca.
«La cosa migliore è che tu non sia neppure nei paraggi. Fai un giro in macchina e ritorna più tardi».
«Ma posso provare a tenerti d’occhio». Nathaniel tirò fuori il binocolo da visione notturna che avevano comprato.
«Ok» convenne Arthur alla fine, e si sedette su una roccia sul ciglio della strada. Chiuse gli occhi e inviò alcuni semplici messaggi al Guardiano senza darsi la briga di ricreare la savana.
La risposta giunse inaspettata: «Perché non ucciderlo adesso?»
Arthur rispose con una sola parola: «Informazioni».
Arthur scavalcò la staccionata e si avviò attraverso il campo. La terra era arata di fresco, e assieme all’aria umida l’odore gli riportò alla memoria momenti di gran lunga più tranquilli. Poteva appena discernere la luce della fattoria. Proseguì lungo il limitare del terreno fino ad arrivare alla fila di alberi e pietre che segnavano il confine con un altro campo, e la seguì in direzione della fattoria. Era stranamente facile vedere per terra nonostante la coltre di nubi nascondesse sia la luna che le stelle.
Si avvicinò all’ultima staccionata. Il fienile era enorme. C’era solo una lampada che faceva luce. Era appesa sul lato destro dell’edificio, con un filo quasi invisibile tra un palo e la parete. Arthur tirò fuori il binocolo e guardò lo spiazzo antistante alla fattoria. C’erano vecchi macchinari da lavoro e un trattore, tutti ben disposti lungo un lato. Accanto a una delle pareti c’era una vecchia vasca da bagno, la cui superficie chiara quasi emanava una luce propria. Il fienile aveva un grande portone oltre a due porte più piccole sul retro.
Arthur mandò un sms a Nathaniel per spiegargli dov’era, poi scavalcò la staccionata e sgattaiolò verso il fienile.
Cadde qualche goccia sparsa di pioggia. Una parte del tetto era stata sostituita con della lamiera, e dato che regnava un grande silenzio il rumore della pioggia sulla superficie ondulata coprì qualunque altro suono. Per quanto poteva vedere non c’erano tracce di persone o di ruote. Controllò le porte del fienile: dovevano essere chiuse a chiave in qualche modo dal di dentro. Il portone non volle toccarlo. Il viottolo che portava alla casa principale si trovava sulla destra, così Arthur decise di tenersi sulla sinistra del fienile.
Si distese a pancia in giù e sbirciò verso la casa da dietro l’angolo. Era più grande di quanto si fosse immaginato. La luce dalle finestre faceva sì che la vegetazione gettasse lunghe ombre. Davanti al fienile erano parcheggiate tre automobili, tra cui Arthur riconobbe l’Audi della sera prima. Tirò fuori la macchina fotografica, zoomò sulle targhe, scrisse i numeri in un sms e lo inviò sia a Nathaniel che a Raven. Il binocolo rivelò il contorno di un macchinario satellitare attraverso dei cespugli. Non era possibile guardare dentro la casa, dato che le finestre erano troppo in alto. Arthur rimise la macchina fotografica nello zaino.
Dalla sua postazione non c’era alcun modo di avvicinarsi di più alla casa senza attraversare lo spazio aperto, così Arthur ritornò sul retro del fienile e riprese la via del campo. Strisciò lungo il terreno fino ad arrivare alla siepe che divideva il giardino dal campo. Questa era troppo alta per poter guardare al di sopra, ma Arthur riuscì a sbirciarvi attraverso in alcuni punti. Su quel lato non proveniva altrettanta luce dalle finestre, ma non si riusciva comunque a vedere un granché.
Arthur cominciò a percorrere la siepe in tutta la sua lunghezza per vedere se c’erano punti in cui intrufolarsi. Era quasi arrivato alla fine, quando udì delle voci provenienti dalla casa. Era impossibile sentire cosa dicevano, ma erano due voci maschili.
Una porta cigolò, e le voci divennero subito più distinte. Due figure uscirono in giardino e si accesero una sigaretta. Erano i due uomini della pensione. L’uomo grosso esalò il fumo in un filo sottile verso l’alto e sputò per terra. L’americano più giovane si chinò in avanti e disse qualcosa, ma parlavano così piano che Arthur non poté afferrare nulla. L’uomo grosso si limitò a scuotere la testa e prese un’altra boccata. L’americano fissò il cielo. Non dissero nulla, e avevano l’aria tutt’altro che soddisfatta. Rientrarono e si chiusero la porta alle spalle.
Il viso di un ragazzino apparve per un attimo alla finestra accanto alla porta. Arthur avvertì il brivido familiare dell’adrenalina scorrergli nelle vene.
Tutto ciò che gli serviva era una foto.
Mandò un sms a Nathaniel e continuò il percorso intorno alla casa. La siepe si trasformò in un muretto in pietra molto più basso, lungo cui Arthur dovette strisciare. Era come se la casa fosse stata costruita su una sorta di rigonfiamento del terreno; su quel lato tutto il resto si trovava a un livello più basso. Da quella posizione, a meno che non si fossero affacciati alla finestra, non sarebbe mai riuscito a far loro una foto. Certo, poteva aspettare con la speranza che prima o poi si sarebbero mostrati alla finestra, ma non ci fece troppo affidamento. Doveva trovare un posto da cui si poteva vedere bene l’interno della casa.
Sul lato corto non c’erano finestre.
Arthur arrivò alla fine del muretto e guardò l’aia. Da quel lato sembrava molto diversa. Sul davanti del fienile c’era solo una semplice porta. In alto sul muro c’erano due buchi, proprio come se una volta lì ci fossero state delle finestre. Arthur tirò fuori il binocolo. Provò a calcolare l’angolatura, ma era difficile misurare la distanza al buio. Se riusciva ad arrivare là in alto, forse era possibile vedere dritto dentro le finestre sul davanti della casa. Nel peggiore dei casi forse ci si poteva nascondere un giorno intero, e fare le foto quando fossero usciti dalla porta. Ripercorse la stessa via all’indietro, e mandò un sms per spiegare la situazione. In un modo o nell’altro doveva entrare nel fienile. Non aveva molte altre possibilità se non provare la porta sul retro.
Con cautela, abbassò la maniglia. La porta scivolò di lato molto più facilmente di quanto avesse creduto, e per fortuna in perfetto silenzio. Arthur guardò in alto. Lucidi binari di metallo, molto più nuovi della porta stessa, luccicavano alla debole luce della luna.
La aprì quel tanto che bastava per sgusciare dentro, e la richiuse. Dentro era buio pesto. Solo un piccolo spiraglio di luce che proveniva da sotto la porta rivelava che stava camminando su un pavimento cementato di fresco. Doveva tirare fuori la torcia? Arthur chiuse gli occhi e lasciò che si abituassero all’oscurità.
Ascoltò.
Annusò.
Dall’interno proveniva una sorta di sibilo, come aria che fuoriuscisse lentamente da un palloncino.
E cos’era quell’odore?
Arthur inspirò attraverso il naso, ma l’odore non divenne più distinto. La bocca invece fu pervasa da uno strano sapore metallico. Aprì gli occhi, badando a non guardare verso lo spiraglio di luce. Con prudenza, fece qualche passo verso l’interno della costruzione. I passi echeggiarono in modo anomalo per un fienile. Era impossibile distinguere il soffitto, ma Arthur poteva percepire il grande spazio aperto che si stendeva davanti a lui. Il pavimento era pulito e ricordava quello di una fabbrica. Ancora più in fondo, Arthur intravide una luce azzurrognola.
I contorni di tre grandi container a poco a poco si fecero visibili. Stavano quasi l’uno addosso all’altro, con un piccolo spazio sul lato lungo. Tra di essi correvano grossi fasci di cavi. L’aria tra i container era più fredda, e Arthur improvvisamente poté vedere il proprio respiro. Avanzò tra i container, spalancando le orecchie. Il ronzio proveniva principalmente da uno di essi. Poteva essere quello il motivo per cui Paolo era così spesso nel Galles? Arthur mandò un sms a Nathaniel. Col coltello in mano e il più silenziosamente possibile, girò l’angolo. Solo uno dei container era aperto, ed era da lì che proveniva la luce azzurra. Non c’era nient’altro nelle vicinanze. Niente porte, niente finestre, niente luce. Arthur raggiunse l’apertura e guardò dentro.
File su file di luci lampeggiarono verso di lui.
Non furono i computer ad attirare la sua attenzione. In fondo, in un angolo, stava un’enorme cassa ricoperta di brina, collegata con cavi a ogni singola macchina. Non assomigliava a niente che avesse mai visto. Arthur raschiò con cautela il sottile strato di ghiaccio che ricopriva il vetro: l’intera cassa era piena di un liquido denso, con piccole bolle d’aria. Il colore era di un caramello chiaro, quasi come sciroppo, ma molto trasparente. Montati su una lastra di metallo contò venti processori mobili, tutti collegati fra loro. Chiunque avesse creato la scheda madre sapeva il fatto suo.
Arthur prese la macchina fotografica e appoggiò la mano sul bordo della cassa per far sciogliere la brina quel tanto che bastava per fare una foto decente. Sperava che qualcuno nel Network avrebbe potuto confermare i suoi sospetti, ma era abbastanza sicuro di trovarsi di fronte a una forma di elaborazione parallela fino ad allora sconosciuta. Un superprocessore che governava tutti gli altri computer.
Per che cosa i ricercatori avevano bisogno di una simile potenza di calcolo?
Fece diverse foto al sistema. Doveva distruggerlo?
Non ancora.
Poteva sempre ritornare. Meglio quando Paolo e Mercer fossero stati molto, molto lontani.
Aveva bisogno di altri strumenti, qualcosa in grado di connetterlo al sistema senza fili. Ciò che si celava dietro la tecnologia, lo scopo per il quale serviva, era probabilmente molto più importante della tecnologia stessa. La cosa migliore era andarsene senza farsi vedere, parlare con Raven e poi ritornare. Mise via la macchina fotografica e sgusciò attraverso la porta.
Una mazzata lo colpì proprio in faccia.
Stranamente ci volle del tempo prima che tutto si oscurasse, e l’unica cosa che Arthur riuscì a pensare fu perché mai non avesse visto arrivare il colpo.