20

Hands Clean

ALANIS MORISSETTE

Stasera ti devo parlare.Al suo rientro da Nizza, Daniele accolse la sua ragazza così. Non avrebbe mai voluto allarmarla al telefono. Detestava le discussioni in cui non ci si può guardare in faccia e si finisce sempre per essere fraintesi. Ma non era riuscito a trattenersi.

Viola venne presa dal panico. Disse “va-bene” con la remissione di un condannato – la voce che non vedi è capace di sentenze più dure – e visse uno dei pomeriggi più lunghi della sua vita. Ma perché adesso, perché, perché.

Pensare che era tornata da quella minivacanza carica di entusiasmo. Alice l’aveva fatta entrare nelPaese delle meraviglie. Era stata organizzata anche una festicciola in suo onore: in mezzo a quel covo di scienziati, l’aspirante filologa aveva fatto un figurone. E poi si era conquistata tutti con il suo entusiasmo per la precessione degli equinozi, le aberrazioni cromosomiche o i multivibratori bistabili. L’avevano anche invitata in una delle città più amate – e odiate – al mondo: New York.

Ora un fulmine stava bruciando tutto. Un po’ se lo sentiva, le ragazze se lo sentono sempre, o così credono, ma il beneficio del dubbio l’aveva aiutata ad allontanare le preoccupazioni. Voleva sentire Rocco per vedere se era riuscito a scoprire qualcosa. Per fortuna un buonsenso propiziatorio la fermò. Paura mista a diffidenza le sconsigliò invece di chiamare Madame Germaine: vedo un’altra persona, vedo cosa non ti posso dire. Restò in attesa con la sua preoccupazione. Non voleva ascoltare le insinuazioni delle amiche e non se la sentiva di scomodare la sorella.

Daniele non stava sicuramente meglio. Non sapeva ancora cosa avrebbe detto, perché l’ho chiamata perché perché. Del suo stato d’animo non capiva niente. In questo momento era un fiume in piena: su una sponda c’era Viola, con le sue torte al cioccolato e la mano nei capelli, i tacchi. Sull’altra riva quel bacio. Un bacio dato dopo trent’anni di baci – un gesto adulto – ma ancora in grado di cambiare le cose.

Ebbe la fortuna che quello fu uno dei giorni più impegnativi della sua carriera pubblicitaria. Era imminente la presentazione delle proposte creative per Sweetie. Roxanne stava nervosamente preparando la sua performance davanti al cliente.

– Mi raccomando, Daniele. Tutto deve essere perfetto. Controlla che ci sia il documento introduttivo e guarda che gli storyboard siano a posto. Se tutto va come dico io, possiamo vincere Cannes.

– Che head hai deciso per la campagna?

– “Sweetie. Your Christmas pleasure.”

Daniele cercò di fare l’interessato, con la mascella tutta proiettata in avanti.

– L’inglese mi sembra una scelta molto azzeccata.

– Non ho chiesto la tua opinione. Ti ho solo detto di controllare il materiale.

Mai parlare al direttore creativo cinque minuti prima della presentazione. È vietato. Daniele se lo ripeteva ogni volta, ma poi incorreva sempre nell’errore per distrazione. Così obbedì agli ordini senza cambiare espressione, solo la cicatrice ebbe una piccola scossa, ma si contenne. Aveva già abbastanza pensieri per dare peso anche alle regole d’agenzia. Uscì dall’ufficio alle otto e mezzo, inventando la scusa di un parente all’ospedale.

Camminò cercando di ripassare un copione che non aveva mai letto. Tirava un vento stranamente caldo, che portava con sé le prime foglie secche. Daniele cominciò a chiedersi perché aveva tutta quella fretta di dire, capire e confrontarsi. Perché proprio con Viola. Perché in quel momento. La situazione gli era scappata di mano e cominciava a piacergli troppo, l’invasione dei sensi, i nuovi stimoli della libido. Poteva diventare pericoloso. Non gli restava che parlarne apertamente, dire per capire, con le mani in alto. Quando varcò il portone di casa l’ascensore era già lì, ad attenderlo al piano terra. Decise di salire a piedi. Sei piani.

Salutò Viola con apprensione, un’occhiata fugace e subito bassa, a respirare. La tavola era apparecchiata, ma nessuno dei due aveva intenzione di mangiare. Viola era una corda di violino pronta a saltare da un momento all’altro. L’attesa l’aveva logorata, ormai non torna più, non lo rivedo più, ansia, panico. Sbottò appena possibile.

– Allora, come si chiama?

Non riuscì a finire la domanda da seduta che era già balzata in piedi, all’attacco del suo uomo. Le mani lontano dai capelli, per una volta.

– Come si chiama chi?

– La donna per cui vuoi lasciarmi. Avrà pure un nome.

Viola si avvicinò a Daniele, minacciosa, spingendolo nel corner di una cucina infelice.

– Ma io non voglio lasciarti, Viola. No.

– E allora si può sapere che c’è?

– C’è che mi sono visto con un’altra persona, ecco.

Viola fece qualche passo indietro. Meglio prendere la rincorsa per azzannare il colpevole. Cercò tuttavia di stare calma, facendosi forza da sola, disperatamente lucida.

– Allora lo vedi che c’è un’altra.

– Non è un’altra.

Pausa breve, brevissima

– È Rocco.

Viola deglutì, incredula e spettrale. Forse non ho capito bene, pensava, ridimmelo un’altra volta, trafiggimi fino in fondo. Uccidimi.

– Rocco?

– Rocco. Il ragazzo del treno.

Bum.

Dopo la bomba, la quiete. Viola morì per qualche istante e non riuscì più a dire una parola. Gli orologi di tutto il mondo osservarono un minuto di silenzio. Quando il tempo finì, scoppiò in un pianto di rabbia. Tradita e beffata. Daniele cercò di abbracciarla, dimmi che ci sei ancora, ma venne respinto. Viola appoggiò la schiena contro il muro, parlando a voce talmente bassa da incutere terrore.

– Non mi toccare. Guai a te se mi tocchi. Non ti avvicinare, no. Fermo lì. Prima fammi capire meglio cos’è questa storia.

– Non è ancora una storia, Viola.

– Non è ancora una storia. Quindi potrebbe esserlo.

Viola si spostò dalla cucina al salotto, i tacchi assenti, senza perdere mai di vista Daniele. Lo teneva lì, appeso a un filo, come un leone che ha in scacco il domatore ferito.

– Ma io ti amo. Mi devi credere. Non riesco a capirci niente neanch’io.

Lo sguardo di Daniele divenne lucido e smarrito. Solo e monocorde. Provò a cercare gli occhi di Viola, ma non li vide più. Stavano guardando fuori della finestra. La sua voce si era fatta più calma, quasi rassegnata.

– Quello che hai detto è così grave che non ha bisogno di spiegazioni. Mi stai lasciando e basta.

– Io non ti sto lasciando, a meno che non lo voglia tu. E poi non abbiamo fatto niente. Quasi niente.

– Stai lì, ti prego. Non ti avvicinare, non ti avvicinare. Ti prego.

Daniele indietreggiò impaurito e sottomesso. Il leone tornava a fargli paura. Non l’aveva mai vista in quello stato, non l’aveva neppure immaginata, così.

– Spiegami meglio cosa intendi per “quasi niente”.

La verità. Daniele vide davanti a sé solo la verità. E la vide a testa bassa.

– Ci siamo dati un bacio.

Viola decise che era il caso di farlo sapere ai vicini, e piantò uno degli urli più acuti del suo repertorio. Daniele non reagì. In quel momento era più pentito di Tommaso Buscetta. Desistette da qualsiasi tentativo. Viola entrò di corsa in camera da letto e cominciò a gettare per terra qualunque cosa potesse fare rumore: collane, libri. Oggetti innocenti, ricordi che cessarono di esistere per dare sfogo alla rabbia e provare a uccidere la memoria. A ogni lancio, una variante d’urlo più acuta. Odiava Rocco con tutta se stessa. L’aveva fregata, questo pensava. Sedotta con la subdola intenzione di arrivare al suo ragazzo. Quella sera, i baci, la lingua nell’orecchio, i croissant, Romeo. Le sembrò tutto triste e premeditato, senza più salvezza né possibilità di sopravvivenza.

Daniele la conosceva troppo bene per non leggerle in faccia quel pensiero.

– Guarda che Rocco non c’entra. Ho fatto tutto io.

– E quando? Quando hai fatto tutto tu?

– A quella festa.

Fu la battuta più difficile da dire.

– A quella festa. E poi basta?

– E poi basta.

– Non ci credo. Ormai non credo più a niente. Io ero qui a studiare come una pazza, mentre voi facevate i porci in giro. Mi fai schifo.MI FAI SCHIFO.

I vicini avevano sentito di nuovo.

– E hai avuto anche il coraggio di prepararmi la colazione, quella mattina. Con la nutella e le cose che piacciono a me. Mi hai detto che avrei dovuto esserci anch’io con voi. Che mi sarei divertita. Quanto sei squallido, eh? Te ne rendi conto?

Tra il loro discorso, il letto matrimoniale. Un letto che a Daniele adesso sembrava troppo grande, i comodini troppo distanti. Non disse più niente. Sapeva. Piangeva incazzato nero con se stesso. Aveva confessato per liberarsi, per tornare poi subito prigioniero del dispiacere, anche se non del rimorso. Era giunto il tempo di incassare. Poteva soltanto aspettare che la sua donna tornasse in sé. Un avvenimento da escludere per almeno ventiquattr’ore, forse molte di più. Viola cominciò ad aprire le ante dell’armadio. Le apriva e le chiudeva. Le chiudeva e le apriva. Alla fine si fermò. Sfrattò il suo giubbotto di jeans dalla stampella di Moschino – un giubbotto comprato d’impulso, senza guardare il prezzo, come le capitava spesso – e se lo mise con rabbia.

– Dove vai?

– Via.

– Torni?

– Non lo so.

– Viola, fammi spiegare ancora un attimo.

Viola abbassò di nuovo pericolosamente la voce.

– Non mi devi neanche sfiorare, hai capito? Non mi devi neanche sfiorare perché mi fai pena. Mi hai tradito con chi credevo fosse un tuo amico. E soprattutto un mio amico.

Chiuse la porta di casa come se i bambini stessero dormendo. Scese al ralenti le scale che aveva fatto mille volte di corsa. La faccia rossa e umida. Sembrava una bambina smarrita al supermercato. Non sapeva dove andare. Sentiva solo di dover andare. Neri i muri e le scale, nero il portone, nero il cielo. Non riusciva più a vedere i colori, i colori che lei amava tanto.

Anche Daniele era fuori di sé. Beveva il suo whisky senza ghiaccio e senza musica. Guardava fisso il muro.