Capitolo 1
Dove diavolo era finito Syd?
La canzone sfumò fino a svanire e il dj tornò alla carica. «Non era fantastica? Tra un minuto, avremo con noi J.C. Williams, che ci parlerà del suo ultimo libro, L’agente Munroe e il gatto dell’avvelenatore, ma prima c’è Stacy, con il notiziario e il meteo delle undici. Stacy?».
Logan aprì il tappo del termos, posò quest’ultimo sul cruscotto e chiuse le mani intorno alla tazza di plastica. Il calore gli raggiunse le dita, arrivando quasi alle ossa congelate. Nastri di fumo misti al vapore prodotto dal suo respiro andarono a oscurare il parabrezza.
«Grazie, Bill. Continuano oggi le ricerche dell’imprenditore di Fraserburgh scomparso, Martin Milne…».
Lui si agitò sul sedile, infossandosi ancora di più nel giubbotto antiproiettile, come una tartaruga. Le ginocchia unite, a sfregarsi leggermente l’una contro l’altra per ottenere il massimo del ruvido dai pantaloni dell’uniforme della polizia scozzese. Prese un sorso dal tappo del termos.
Tè: caldo e con latte. Una manna dal cielo. Be’, dalla mensa della stazione di polizia, ma comunque ci andava vicina.
«…preoccupati per la sua incolumità, dopo che la sua auto è stata ritrovata abbandonata in una piazzola di sosta fuori da Portsoy…».
Logan strofinò una mano sul finestrino dal lato del passeggero, creando un oblò nella condensa.
Alberi scheletrici si allungavano da entrambi i lati della strada sterrata. Pozzanghere color canna di fucile nelle buche irregolari sulla via. Gli steli nudi di vecchie ortiche sporgevano dall’erba ingiallita come le lance di un esercito ormai morto da tempo. E tutto sbiadiva nell’abbraccio triste e grigio della pioggia sottile di febbraio.
Qualcosa di luminoso si mosse in lontananza, dove querce e faggi lasciavano il posto a tipiche file di pini. Una macchia giallo fluorescente proveniente da un giubbotto catarifrangente. Poi il bosco la inghiottì di nuovo.
«…che avessero delle informazioni sono pregati di chiamare l’uno-zero-uno. Un adolescente alla guida che si è schiantato contro la vetrina del Poundland di Peterhead è risultato avere un tasso di alcolemia sei volte superiore al limite imposto dalla legge…».
Accanto al termos, il cellulare emise un pigolio, muovendosi di qualche centimetro a destra per la vibrazione. Lo prese prima che finisse giù dal cruscotto. Premette il pollice sull’icona dei messaggi.
Laz, richiamami subito!
Niente scherzi, è urgente!
Dove diavolo sei?!?
Il fottuto ispettore capo Steel. Ed era la terza volta, oggi.
«E lasciami in pace, una buona volta. Sto lavorando, okay? Non ti sta bene?».
Cancellò il messaggio, lanciando un’occhiataccia allo schermo vuoto.
«…otto pinte di sidro alla festa di diciotto anni di un amico…».
Un paio di fari lampeggiarono nello specchietto retrovisore: era arrivata la cavalleria. E, con un po’ di fortuna, forse avevano pure portato i biscotti.
«…in custodia. Il corpo della giovane donna trovato dieci giorni fa nei boschi intorno a Inverurie è stato formalmente identificato…».
Logan prese un altro sorso di tè, poi aprì lo sportello, uscendo dalla macchina mentre un’ammaccata auto verde avanzava di qualche metro ancora, prima di fermarsi, con i tergicristalli che cigolavano sul parabrezza.
Tutto sapeva di fango e muffa e vegetazione.
«…Emily Benton, studentessa diciannovenne di filosofia dell’Aberdeenshire…».
Lo sportello della Renault si aprì e un uomo ne uscì, vestito con un paio di consumati cargo neri e un maglione trapuntato dello stesso colore. Un gran sorriso stampato in faccia. Corti capelli grigi circondavano un’ampia chierica di cuoio capelluto rosa. Il respiro gli si condensava a sbuffi nell’aria umida del mattino. «Una bella giornata per questa roba». Prese un berretto da baseball dalla tasca posteriore dei pantaloni: era nero, con la scritta polizia ricamata sopra una striscia a scacchi bianchi e neri. Lo indossò, proteggendo la chierica dalla pioggia.
Logan gli rivolse un brindisi con la tazza del termos. «Syd. Hai portato i tuoi amici pelosi?».
«Emily era stata vista l’ultima volta mentre usciva dal Formantine House Hotel sabato sera…».
Syd si infilò di nuovo in macchina e recuperò uno spesso guinzaglio di cuoio, che si mise sulle spalle, facendoselo passare sotto le braccia e agganciandolo dietro la nuca, come delle bretelle improvvisate. «Pensavo che tu e i tuoi sottoposti aveste già controllato quest’area».
«…stanno cercando di rintracciare il guidatore di una Ford Fiesta rossa vista nelle vicinanze».
«Non abbiamo trovato nulla». Logan si strinse nelle spalle. «Grazie per essere venuto».
«Non ci pensare». Syd sventolò una mano. «Il signore degli anelli non si può rivedere più di un certo numero di volte». Si avvicinò al retro della macchina e aprì il bagagliaio. Un Golden Retriever saltò giù sul sentiero, scodinzolando e girando intorno al padrone, il muso sollevato verso di lui e la bocca aperta. «Sei pronto, Lusso? Sì? Sì che sei pronto. Certo che sì». Grattò le orecchie al cane. «Ti fa bene muoverti un po’ e lavorare, tanto per cambiare, grassone».
«…appello ai testimoni. E ora, siete pronti per San Valentino? Ebbene, un intraprendente adolescente sta mettendo all’asta la sua prenotazione per una cena per due al ristorante Silver Darling di…».
Logan spense la radio e buttò giù quel che restava del tè. Si infilò un giubbotto catarifrangente sopra la protezione e cercò qualcosa nella borsa degli attrezzi sistemata sotto al sedile posteriore. Ne tirò fuori una busta di carta marrone, di quelle per le prove. «Ecco, tieni».
«Cosa sono, calzini?»
«Meglio». Logan aprì la busta e tirò fuori una t-shirt rossa. Il nome della compagnia era macchiato di vernice: “geirrød – gestione e logistica container”.
«Be’, non si sa mai. Da quando siamo andati in pensione, Lusso non ha più annusato niente di più complicato che il sedere di altri cani». Syd srotolò un piccolo tubo giallo fluorescente di quelli da mettere intorno alla vita e lo fece passare sopra la testa del Golden Retriever, allacciandoglielo dietro le zampe anteriori. Poi prese la t-shirt e la appallottolò. Si chinò e la mise sotto il tartufo scuro e umido di Lusso. «Annusa».
Logan prese un paio di guanti di pelle imbottiti e li infilò. «Siamo pronti?»
«Spero di sì». Syd si rialzò, poi mosse il braccio in un ampio arco, indicando gli alberi da una parte del sentiero. «Avanti, Lusso: trova».
Il cane girò intorno a loro un paio di volte, poi abbassò il muso e iniziò ad annusare.
Lo seguirono attraversando il sottobosco umido di foglie, entrando nell’oscurità del bosco, abbassandosi vicino ai rami e schiacciando sotto i piedi le foglie arricciate e marroni delle felci morte.
Logan accennò a Lusso. «Che ne pensi?»
«È difficile che trovi qualcosa, onestamente». Syd si infilò le mani nelle tasche. «Se stai cercando cadaveri, soldi o esplosivi, Lusso è il cane che fa per te. Ma questa storia delle tracce…». Si succhiò i denti. «Be’, non si sa mai».
L’odore umido e ricco della terra si sollevava dal basso come una coperta, diventando più amaro e fresco quando passarono dagli alberi decidui ai sempreverdi; lì sotto, al livello del suolo, era tutto nero, grigio e frastagliato.
Oltrepassarono una radura, sparsa di ciuffi di erica e sfrangiata di rovi.
Scesero giù lungo un piccolo pendio.
Superarono un tronco caduto, con le radici in aria come uno scudo peloso.
Risalirono una ripida collina, a corto di fiato quando ne raggiunsero la sommità.
Ma non c’era chissà che vista, da lì sopra, solo altri tronchi scuri, che si allontanavano sempre di più, a perdita d’occhio. Diventando una cosa sola nella nebbia e oltre il velo sottile della pioggia.
Syd tirò su con il naso. «Ovviamente, il problema è che è passato parecchio tempo da quando Lusso ha lavorato l’ultima volta. Potrebbe pensare che siamo andati solo a fare una passeggiata».
Ovviamente.
«Be’, almeno stiamo…». Il cellulare di Logan fece sentire la sua anonima suoneria. Lui chiuse gli occhi, afflosciandosi per un istante. Poi si raddrizzò. Tentò un sorriso. «Scusa. Ti raggiungo».
Pescò il telefono dalla tasca mentre Syd scendeva dalla collina, seguendo la coda scodinzolante del cane.
«McRae».
Gli rispose una voce femminile. «Logan? Sono Louise del Sunny Glen».
E Logan si afflosciò di nuovo.
Il crepitio dei passi di Syd, che si faceva strada in mezzo a cespugli secchi di oleandro ed epilobio, svanì nel nulla. Da qualche parte, in lontananza, un piccione tubò.
«Logan? Pronto?».
Un respiro profondo. «Sì, Louise».
Sentì arrivare un sospiro dall’altra parte della linea. «Lo so che non è facile, Logan, so che è una cosa orribile, ma non c’è altro che possiamo fare per lei. Se ci fosse, lo farei. Lo sai, questo».
Certo, che lo sapeva. Ma non rendeva le cose più semplici.
«Già…». Abbassò lo sguardo sugli stivali. Sui ciuffi di erba grigiastra che spuntavano in mezzo agli aghi di pino infangati. «Quando?»
«La decisione sta a te. Samantha è… Tu sei stato per lei il migliore amico in cui potesse sperare, ma è tempo di decidere. È il momento di farlo, per lei». Un altro sospiro. «Mi dispiace, Logan. Davvero».
«Sì. D’accordo. Lo capisco».
«Abbiamo una psicologa specializzata in questo campo con cui puoi parlare. Può aiutarti».
Un’altra macchia di giallo fluorescente comparve alla sua destra, in lontananza, prima di sparire di nuovo in mezzo al sottobosco.
Quattro suoni acuti si fecero sentire da sotto il giubbotto catarifrangente, seguiti da una voce soffocata. «Pattuglia Sette, potete parlare?».
Logan aprì il giubbotto e vi infilò una mano dentro, per afferrare la ricetrasmittente. La lasciò agganciata, premendo il pulsante di comunicazione. «Dacci un minuto, Ciuffo».
Tornò al telefono.
Louise stava ancora parlando: «…d’accordo? Logan? Pronto?»
«Scusami. Sono un po’ impegnato, al momento».
«Ascolta, non devi decidere subito. Non vogliamo metterti fretta. Prenditi il tuo tempo».
«Sì, lo capisco». Il giubbotto antiproiettile lo stringeva nel suo abbraccio di velcro, tenendo tutto schiacciato dentro. «Venerdì. Lo faremo venerdì».
«Ne sei sicuro? Come ho detto, non devi per forza…».
«No. Venerdì tredici. A Samantha sarebbe piaciuto».
«Mi dispiace tanto, Logan».
«Sì. Anche a me». Chiuse la telefonata e ripose il cellulare in una tasca interna. Alzò lo sguardo al cielo pesante e grigio.
Venerdì.
Quando espirò, fu come se qualcuno gli avesse attaccato dei pesi ai polmoni e allo stomaco, trascinandoli verso il basso.
Un altro respiro.
E poi un altro.
E un altro.
Avanti.
Sbatté le palpebre. Si passò una mano sul viso, asciugando il sottile e freddo velo d’acqua che vi si era formato sopra. Si raddrizzò.
Poi premette il pulsante sulla ricetrasmittente. «Ciuffo: posso parlare».
«Sergente, abbiamo rifatto ancora una volta il giro. Non c’è traccia di Milne. Vuole che proviamo ad andare fino al ruscello?»
«Penso sia meglio, sì».
Il gocciolio della pioggia causava un picchiettio lento sul terreno del bosco.
«Sergente?»
«Cosa?»
«Possiamo tornare a casa, tra un po’? Calamity è blu in faccia. E l’ultima volta che ho visto qualcuno che aveva quel colore in viso, era sul tavolo dell’obitorio. Si gela, qui fuori».
«Dille che tentiamo ancora per un’ora, e poi ce ne torniamo tutti a casa per tè e biscotti».
«Sì, sergente».
Logan scese con attenzione giù per il pendio, muovendosi tra gli alberi e seguendo il percorso di Syd.
Il silenzio avvolgeva il bosco, con gli aghi delle conifere sotto ai piedi e i rami sopra la testa che soffocavano qualsiasi rumore a parte quelli che lui stesso provocava. Non era neanche mezzogiorno, e già stava facendo buio. Le nuvole si erano abbassate e scurite ancora di più. Pronte a rovesciare un vero e proprio acquazzone. Forse un’ora intera di ricerche era sfidare la sorte? Forse era meglio andarsene e riprovarci il giorno dopo.
Dopodiché, sarebbe diventato il problema di qualcun altro.
Un nuovo pigolio e un ronzio contro le costole gli dissero che aveva ricevuto un altro messaggio sul cellulare. Era inutile controllare: doveva essere la Steel. Era sempre la Steel.
Gnè, gnè, gnè, perché non mi hai richiamato? Quello che voglio è molto più importante di quello che stai facendo. Gnè, gnè, gnè…
Lasciò il cellulare in tasca. Continuò ad avanzare. Non era troppo difficile seguire Syd. I suoi piedi avevano lasciato un sentiero evidente tra gli aghi, con lo strato al di sotto più scuro di quello in superficie. Zigzagava tra gli alberi, scendendo verso sinistra. Ma dove…?
Un momento. Era stato un grido, quello?
Sì. Da qualche parte in lontananza, ma di sicuro c’era stato.
Logan si fermò e portò le mani intorno alla bocca a fargli da altoparlante. «syd?».
Un altro urlo.
No, non aveva ancora idea di quello che stava dicendo.
I piedi di Logan scivolarono sopra gli aghi mentre si affrettava a scendere lungo il fianco della collina, risalendo dall’altra parte. «syd?».
Si bloccò sul crinale della collina, circondato da massi e pini silvestri. Il terreno gli si sgretolò davanti: una ripida scarpata punteggiata di rocce e piante di ginestra, in mezzo a centinaia di moncherini circolari dove gli alberi erano stati abbattuti. Un sentiero correva lungo la base della collina, con un’altra macchia di ginestre dal lato opposto.
Syd era lì di fronte, e agitava le braccia come se stesse cercando di far atterrare un aereo. Lusso era accucciato ai suoi piedi, la pelosa coda gialla che si agitava nel fango.
Logan ci riprovò: «che succede?».
La risposta di Syd fu inghiottita ancora una volta dal vento e dalla pioggia.
«Maledizione». Non aveva scelta. Scese lungo il pendio, tenendo i piedi perpendicolari al declivio e passando vicino agli sterpi appuntiti delle ginestre. Agitando le braccia quando un grosso pezzo di fango smottò sotto di lui, minacciando di farlo finire a terra.
Continua a muoverti…
Raggiunse infine il sentiero e si fermò con una scivolata, appena in tempo per evitare di finire in un canale di scolo pieno d’acqua rugginosa.
Syd tirò su con il naso. «Ce ne hai messo, di tempo».
«Cosa?».
Lui sollevò l’indice e lo puntò verso una macchia di ginestre. «Lì in mezzo».
Logan si lisciò il davanti del giubbotto catarifrangente, prima di superare il fossato con l’acqua e fermarsi dall’altra parte. «Non riesco a vedere n…».
«Vai avanti».
Altri due passi su per l’argine del canale e… okay.
C’era una fossa nel terreno: semicircolare, con un masso coperto di licheni da un lato. Steli di piante avvizzite si sollevavano in mezzo all’erba gialla. E, proprio in mezzo, disteso sulla schiena, c’era il corpo di un uomo. Nudo. Le mani bloccate dietro. Una gamba piegata all’altezza del ginocchio, il piede appoggiato allo stinco.
Aveva il busto pieno di lividi violacei, bluastri e giallastri bordati di verde, sparsi sulla pelle grigiastra e bagnata di pioggia.
La voce di Syd arrivò dall’altra parte del cespuglio. «È lui?».
Logan prese un respiro profondo. «Difficile dirlo…».
La testa era coperta dalla plastica nera di quella che sembrava una busta dell’immondizia, legata intorno al collo con spessi giri di nastro adesivo argentato. C’era anche un odore strano. Forse candeggina?
I peli pubici della vittima erano di un pallido biondo platinato, in effetti, quindi poteva trattarsi di candeggina.
Probabilmente, sì.
Qualcuno che voleva coprire le proprie tracce, che cercava di assicurarsi di non lasciarsi dietro residui di dna o altre prove che potessero essere identificate. Sì, bel tentativo. Qualcosa si trovava sempre.
C’era un altro odore, al di sotto di quello della candeggina, qualcosa di dolciastro e soffocante. Come un mucchio di carne macinata dimenticato in fondo al frigorifero, dopo un paio di giorni dalla scadenza.
Era decisamente morto.
Logan aprì il giubbotto e tirò fuori la ricetrasmittente. Digitò il numero dell’ispettore di turno. «Bravo India, qui Pattuglia Sette, potete parlare?».
La voce dell’ispettore McGregor si fece sentire gracchiante dal ricevitore, un po’ impastata, come se stesse mangiando qualcosa. «Parla pure, Logan».
«Capo? Credo che abbiamo trovato Martin Milne…».