Capitolo 44

Il sovrintendente Harper inarcò un sopracciglio. «Cosa le è successo?».

La Steel si lasciò cadere su una sedia all’estremità del tavolo da conferenze, la testa tra le mani. Non si mosse.

Logan si strinse nelle spalle. «Un brutto raffreddore».

Un brusio di voci proveniva dallo spogliatoio sotto di loro, qualcuno cantava sotto la doccia, di fronte alla sala, qualcun altro sembrava in procinto di tossirsi via un polmone sul pianerottolo all’esterno. I rumori della stazione di Banff si facevano sentire in un nuovo giorno di infestazione del Team Investigativo Primario.

«Uhm…». La Harper lo fissò. «E lei? Ha dovuto fermare un’altra rissa fuori da un pub?».

Lui indicò i cerotti che aveva in faccia. «Devo comprarmi un rasoio nuovo, il mio è arrivato alla fine dei suoi giorni».

Becky entrò nella stanza, portando con sé un vassoio pieno di tazze. Mostrò i denti. «Ecco qui». Il sorriso che offrì ai presenti non sarebbe riuscito a ingannare neanche un mattone, mentre posava il vassoio sul tavolo. «Posso portarvi dell’altro, o posso andare a fare il mio lavoro da poliziotta, adesso?»

«Grazie, sergente McKenzie». La Harper prese una tazza di caffè. «Già che è qui, ha qualche aggiornamento su Martin Milne?»

«Si arrampica sugli specchi. È preoccupato per la moglie e il figlio. Si lamenta dicendo che qualcuno dovrebbe organizzare il funerale di Peter Shepherd». Fissò con astio il vassoio di tazze, mentre Logan prendeva una tazza di caffè e una compressa di aspirina per la Steel, e infine un tè per se stesso. «Se non lo controllassimo giorno e notte, scapperebbe».

«Immagino che sia bene che lo andiamo a trovare». La Harper sorseggiò il caffè, facendo una lieve smorfia. «È ottimo, grazie. Se dovesse incontrare l’ispettore Singh, mentre scende, gli dica che lo sto cercando».

«Sì, sovrintendente». Becky si girò e uscì, i capelli ricci e scuri che le ondeggiavano dietro le spalle come un pompon arrabbiato.

Logan picchiettò la Steel su una spalla. «Beva, coraggio».

«Urgh».

La Harper inspirò. «Mi dica, ispettore capo, il suo improvviso malessere ha qualcosa a che vedere con il funerale e la veglia funebre di ieri?».

La Steel riuscì a riemergere dal suo stato catatonico quel tanto che bastava per mostrare gli occhi contornati di nero e le borse al di sotto. «Siamo stati sotto la neve per un sacco di tempo. Ci siamo congelati. Io non mi sento ancora le dita dei piedi». Finse perfino qualche colpo di tosse, per buona misura.

«Capisco». La Harper si voltò a guardare la lavagna magnetica, dove qualcuno aveva disegnato il porto di Gardenstown insieme alle strade circostanti e alle uniche due che uscivano dal centro abitato. Un assortimento di magneti da frigo era stato attaccato alla lavagna. «Ricordatemelo ancora una volta, chi è la Torre Eiffel?».

Logan controllò la lista. «Il team dell’ispettore Singh. Lei è il pinguino con il sombrero, Rennie la chiatta, il sergente Weatherford è il trenino Thomas…».

«Non ho mai visto una stazione di polizia costretta a fare affidamento su magneti da frigo rubati».

«Io sono l’albero di Natale e l’ispettore capo Steel è il vecchio scarpone».

«Uhm…». La Harper si avvicinò. «Non ha davvero il raffreddore, non è così?»

«Non ha fatto che ingoiare aspirine e pasticche per la gola per tutto il tragitto fino a qui». Il che era una menzogna bella e buona.

La Harper fissò la lavagna magnetica. «Deve assolutamente funzionare. Quelli dei piani alti si stanno già lamentando del budget richiesto da questa indagine, e se si rivelasse un altro disastro…». Lei mostrò i denti. «Ho bisogno di un risultato, Logan. Ne ho bisogno stanotte».

«Abbiamo trovato il cadavere di Peter Shepherd appena una settimana fa. Deve dare tempo al tempo».

«Una settimana è un periodo dannatamente lungo, in politica e nella Polizia di Scozia». Lei incrociò le braccia e strinse gli occhi, fissando la mappa disegnata a mano e i magneti. «Ci stiamo dimenticando qualcosa?»

«Che mi dite del sergente McKenzie e del sergente Robertson?». Logan cercò nel contenitore Tupperware. «Abbiamo una fetta di formaggio oppure una pecora che suona la cornamusa».

«Direi che per la McKenzie va bene la cornamusa, si lamenta abbastanza».

Logan piantò il magnete sulla mappa più piccola disegnata in un angolo, ovvero l’hotel dove alloggiava Milne. Il pezzo di formaggio finì sull’altra mappa più piccola, il quartiere residenziale ancora in costruzione dove viveva la famiglia di Milne. «Un vero peccato che non possiamo metterli insieme. Sarebbe molto più semplice controllare un solo sito, invece che due».

«Vero. Libererebbe, tra l’altro, degli agenti per l’azione di stanotte». La Harper prese un pennarello e se lo rigirò tra le dita e le nocche, come un bastoncino da majorette. Avanti e indietro, avanti e indietro. «Fate sapere alla McKenzie che vogliamo che Milne torni a casa sua, che la moglie lo voglia o no. Dubito che succederà qualcosa, almeno nell’immediato. Malk lo Squartatore vorrà far passare qualche giorno, prima di vendicarsi. Robertson controllerà la famiglia».

Logan si appoggiò sul bordo del tavolo, accanto a lei. «Sempre che davvero ci sia Malcolm McLennan, dietro a tutto questo».

Lei si girò a guardarlo, accigliata. «Perché fai sempre così?»

«Sto solo dicendo che dovremmo considerare tutte le possibilità».

«No, non parlo di quello. Non lo chiami mai Malk lo Squartatore, è sempre Malcolm McLennan, per te».

«Un vecchio amico una volta mi ha detto che non si dovrebbero mai usare degli stupidi soprannomi, per i propri nemici: non è rispettoso nei loro confronti. E quando non si tratta con rispetto un nemico, lo si sottovaluta. E quando lo si sottovaluta, gli si dà un vantaggio».

Lei lo guardò dall’alto in basso. «Forse non sei stupido come sembri, Logan Balmoral McRae».

«Grazie, signore».

La donna tornò a fissare la mappa. «Comunque, non che al momento abbiamo qualcosa che possa accusare Jessica Campbell. Ricky e Laura Welsh continuano a non parlare». Si alzò. «Fai preparare una macchina. Non appena avrò parlato con Narveer, andremo ad assicurarci che Milne non stia cercando di scappare».

La Harper prese un fascicolo dal tavolo e uscì.

Non appena la porta le si chiuse dietro, Logan si afflosciò. Prese una confezione di paracetamolo dalla tasca e ne inghiottì tre compresse con un sorso di tè. Non fecero nulla per rendere più sopportabile il dolore che gli si irradiava nel petto.

La Steel non si era mossa.

«Beva la medicina».

«Urgh…».

«Non so perché è venuta al lavoro, oggi, in queste condizioni».

La Steel sollevò la testa dal tavolo. «Sto morendo».

«Cosa le avevo detto, stamattina? Resti a casa, si prenda una giornata di malattia. Ma no, ha voluto giocare al soldatino coraggioso».

«Sii gentile con me, sto morendo».

«E cosa è successo? Non ha fatto altro che russare, gorgogliare e scorreggiare per tutto il viaggio. È stato come condividere l’auto con un gabinetto chimico malfunzionante».

Lei avvolse le dita intorno alla tazza con il medicinale contro il raffreddore e ne prese un sorso. Poi lo guardò con gli occhi arrossati, accigliandosi. «Abbiamo fatto qualcosa, ieri notte?».

Logan le voltò le spalle e giocherellò con i magneti sulla lavagna. «Fatto qualcosa?»

«Sì, ho la strana sensazione che ci siamo messi a discutere, o qualcosa di simile. E quando mi sono svegliata, avevo la vestaglia umida».

«No. Non me lo ricordo».

«Non posso essermela fatta sotto, perché era bagnata solo sul davanti».

Logan risistemò il vecchio scarpone, piazzandolo più lontano dall’albero di Natale. Come faceva la Steel a non ricordare di aver ammesso di essere stata lei a incastrare Jack Wallace? «D’accordo, sarà meglio che vada a far preparare una macchina». Zoppicò fuori dalla sala, rischiando di scontrarsi con il sergente Robertson, in corridoio.

Lui arretrò di un paio di passi, con una busta gialla contro il petto, quasi potesse salvarlo dall’imminente lavata di capo, non appena la Steel gli avesse messo gli occhi addosso. Accennò alla sala investigativa principale. «Il Mostro della Laguna Lesbo è lì dentro?».

Logan fece una smorfia. «Io non entrerei, se fossi in te. Potrebbe esplodere da un momento all’altro come una carica di Semtex, stamattina».

«Oh, non di nuovo». L’uomo cambiò presa sulla busta e giocherellò con una delle sue ridicole basette. «Ho l’identità e gli interrogatori di alcune delle donne che si intrattenevano sessualmente con Milne e Shepherd».

«Solo alcune?»

«Non è colpa mia se ci sta volendo una vita, okay? Provaci tu a identificare una tizia sulla base di una sua foto mentre si sta facendo due uomini. Non si può mica andare in radio e chiedere: “Stiamo cercando una brunetta snodata e procace, con la cicatrice di un parto cesareo e un neo peloso su una chiappa, a cui piace fare cose a tre”, giusto? E inoltre, devo tenere sotto controllo la famiglia di Milne».

Logan lanciò uno sguardo nel corridoio, poi si avvicinò all’altro sergente, abbassando la voce a un sussurro: «Questo deve restare tra me e te, okay? Ma…». Controllò di nuovo il corridoio. «Hai mai pensato di andare a chiederlo a Martin Milne?»

«Ma la Steel…».

«Non deve per forza sapere come lavori, vuole solo dei risultati».

Ed era per questo che adesso si era messa nei guai con Jack Wallace, tra l’altro.

Controllò velocemente il corridoio fuori dallo spogliatoio. Non c’era nessuno in giro. Poi si infilò nella stanza. Era piena di alti e sottili armadietti in varie sfumature di grigio, verde, blu e beige. Coprivano le pareti, con un’isola che si allungava tra le due finestre. Dietro la porta c’era un lungo appendiabiti, pieno di giubbotti antiproiettile e catarifrangenti, ciascuno con il numero di matricola del proprietario.

Logan li controllò fino a trovare il giubbotto antiproiettile che un tempo apparteneva a Deano. Be’, adesso lui era in pensione e non gli serviva più. Un’ultima occhiata per assicurarsi che nessuno lo stesse osservando, poi Logan staccò il numero di matricola e lo sostituì con il proprio.

Nessuno l’avrebbe mai saputo. Be’, certo, tranne che se avessero fatto un controllo dell’inventario, e anche in quel caso, non ci sarebbero state prove ad accusarlo del furto.

Il suo giubbotto antiproiettile sarebbe sparito, portandosi dietro la sua parte frontale distrutta e le placche rinforzate ammaccate. Proprio come la mantella, i guanti, le buste di plastica e i bossoli. Niente avrebbe potuto collegarlo al fiasco della notte precedente.

Niente a parte due testimoni oculari, uno dei quali sarebbe già potuto essere morto, a quel punto. E l’altro, probabilmente, stava già pianificando una terribile e sanguinosa vendetta.

Logan si infilò il nuovo giubbotto, sistemando le strisce di velcro fino a chiuderselo addosso nel modo migliore. In tutti quegli anni di servizio, si era adattato al corpo di Deano, e gli ci sarebbe voluto un po’ perché si modellasse sul suo. Per qualche strano motivo, le tasche erano piene di carte di caramelle Starburst.

Le buttò nel cestino dell’immondizia e poi tornò al piano di sotto, nell’ufficio dei sergenti.

Beaky non c’era, perciò Logan si sistemò alla scrivania e si collegò al computer. Controllò le notifiche delle ultime dodici ore. Non c’era stata nessuna segnalazione di persone ricoverate in ospedale per ferite da arma da fuoco nell’Aberdeenshire o nella città di Aberdeen.

Be’, del resto era ovvio. Reuben aveva il suo servizio sanitario personale, che si prendeva cura di lui e dei suoi uomini. Andare in ospedale con un foro d’entrata di una nove millimetri significava costringere i medici a informare la polizia, per legge. Meglio agire in privato.

E John Urquhart? Era vivo o morto?

Logan fissò per un po’ lo schermo, poi si scollegò. Prese le chiavi della Macchina Grande dalla scatola e riuscì quasi a uscire.

«Sergente McRae?».

Si girò, e vide il sergente Weatherford, ancora sudata e sconvolta. Le borse che aveva sotto agli occhi si erano scurite, e facevano il paio con gli aloni sotto le ascelle. Si spostò da un piede all’altro. «Il sergente Robertson mi ha detto che il capo è un po’… sensibile, stamattina?».

L’eufemismo dell’anno. «Bel modo di edulcorare la faccenda».

La Weatherford si guardò alle spalle. «Non è colpa mia. Ho tentato di tutto. Non vogliono dare la priorità alle analisi del dna, a meno che non siamo noi a metterle sulla corsia veloce. Ma non abbiamo il budget per farlo. E come faccio io a prendere le persone che vi hanno aggredito? Come?».

Logan le batté una pacca sulla spalla. «Prenda un respiro profondo. Poi vada di sopra e dica alla Steel che deve metterci dei soldi in più, oppure smettere di tormentarla. Apprezzerà la sincerità».

«Sul serio?». Le sopracciglia della Weatherford si sollevarono di un paio di centimetri. Poi si leccò le labbra e annuì. «Okay. Sincerità. Smettere di tormentarmi. Posso farcela».

«E, se le urla contro, provi a pensare a qualcosa di bello finché non la smette».

Con un po’ di fortuna, considerando il doposbronza della Steel, se si fosse messa a urlare, le avrebbe fatto più male che alla Weatherford. Se non altro, avrebbe ridotto al minimo la lavata di capo.

«Oh, Dio…». Il sergente si voltò e puntò cautamente verso il corridoio.

Logan scosse la testa e uscì.

L’aria era fredda e tersa, e gli morse le orecchie mentre toglieva l’antifurto alla macchina e si sistemava al volante. Prese il cellulare e provò a chiamare Urquhart.

Lo lasciò squillare.

«Sì?»

«John? Sono Logan».

«Signor McRae? Sta bene? Reuben aveva detto…».

«Pensavo che fosse morto».

«Nah, era solo un graffio. Non mi sono spostato abbastanza in fretta dal fucile del Reubenator. Colpa mia, tutto qui. Un paio di punti e me la sono cavata». Sospirò. «Ma non posso dire lo stesso del mio vestito di Armani. Un completo del tutto rovinato. E anche il cappotto».

«E Reuben?»

«Ah… Sì. Reuben». Urquhart emise un sibilo. «È un po’ fuori dai gangheri. Sa, con lei che gli ha sparato e tutto».

«Ci ho provato. Davvero».

«Non l’avevo mai visto così infuriato. Insomma, stiamo parlando di una Chernobyl in tuta da lavoro verde, ecco».

Era ovvio.

Be’, non poteva certo stupirsi, giusto? Se sparavi due volte a qualcuno, era difficile che quel qualcuno decidesse di diventare il tuo migliore amico, poi.

«Potrebbe essere una buona idea se andasse via dalla Scozia per un po’, signor McRae. Da qualche parte molto lontano, dove Reuben non possa arrivare a lei. Perché se dovesse farlo, sarebbe una cosa lenta, lunga e orribile. Mi creda, l’ho visto succedere».

La porta laterale della stazione si aprì e la Harper ne uscì con Narveer alle calcagna. Il turbante di quella mattina era di un giallo vivace a scacchi neri, come i pantaloni di Rupert Bear.

«E sarà meglio che tenga a portata di mano quella pistola, finché non sarà andato via. Sa cosa intendo, vero? Reuben sta chiamando gente che gli deve dei favori».

Per quello, c’era poco che potesse fare. La Harper e Narveer non gli avrebbero di sicuro permesso di tornare a casa per cinque minuti. Perché? Oh, niente di che: devo dare da mangiare al gatto e prendere un’arma, in caso un gangster voglia spararmi. Di nuovo.

Sì, certo.

Narveer aprì la porta sul retro. «Buongiorno, Logan».

Logan gli rivolse un cenno, mantenendo la voce neutra, per dare l’impressione di una semplice e innocente telefonata. «Comunque, devo andare. Ma se sente qualcosa, me lo faccia sapere, okay?»

«Si riguardi, signor McRae. E si allontani più che può».

Logan attaccò e si lasciò scivolare il cellulare nella tasca del giubbotto antiproiettile rubato, prima di salire a bordo, sul sedile del passeggero. «Pronti?».

Lei annuì. «Andiamo a fare visita al signor Milne».

La McKenzie era seduta sul bordo del letto e mangiava un pacchetto di biscotti della stanza d’albergo, riempiendosi di briciole la camicia. Si era sciolta i capelli, facendo sparire il pompon arrabbiato, e lasciandoli arricciare intorno al viso corrucciato.

Logan accennò alla parete che li separava dalla stanza successiva. «Come l’ha presa Milne?»

«Come se gli avessimo chiesto di nuotare nell’Atlantico. A quanto pare, la signora Milne non è il tipo che perdona certe cose con facilità».

«Vediamo il lato positivo: in questo modo, potrà partecipare all’operazione di stasera».

«Quanto si lamenta. Nessuno lo ha costretto a prendere soldi in prestito dai criminali, giusto? Si merita tutto quello che gli sta capitando».

Logan lanciò uno sguardo al parcheggio sotto alla finestra della stanza. Un vecchio stava spalando della sabbia sulla neve, striandola di marrone. «Lo metteranno nel programma di protezione testimoni?»

«Sa cosa? Non me ne frega davvero niente». La McKenzie accartocciò la confezione vuota dei biscotti e la lanciò verso il cestino. Non arrivò neanche a metà strada. «La Steel non mi farà occupare dell’organizzazione degli straordinari se non mi occuperò anche dei turni. Dice che mi farà bene per quando sarò promossa». Arricciò il labbro superiore. «Pigra, inutile, rugosa disgrazia».

«Potrebbe sempre chiedere il trasferimento in un’altra divisione».

«E lasciarla vincere?». Becky aprì un altro pacchetto di biscotti. «Si è mai chiesto perché continuiamo a farci tanti problemi, McRae?».

Ogni. Maledetto. Giorno.

La lasciò al suo malumore ed entrò nella stanza accanto.

C’era una valigia al centro del letto, e un mucchio di calzini, mutande e magliette intorno, tutti ordinatamente ripiegati e pronti a essere messi via. Milne era lì, in piedi, le spalle al televisore, le braccia conserte sul petto, la mascella serrata e il labbro inferiore che sporgeva, mentre la Harper si sedeva sull’unica sedia della stanza.

«Avanti, Martin, ne abbiamo già parlato».

Narveer si era messo accanto alla porta del bagno, appoggiato alla parete. «La sua famiglia sarà più al sicuro, se sarete tutti nello stesso luogo».

Delle foto esplicite erano abbandonate sulla scrivania, quelle che provenivano dagli incontri sessuali di Shepherd e Milne. Alcune avevano dei nomi scritti nell’angolo dell’immagine, a penna, su altre invece c’erano soltanto dei punti interrogativi. Sembrava che Robertson non avesse perso tempo a chiedergli informazioni. Finalmente. Forse gli avrebbe evitato che la Steel gli urlasse contro di nuovo, quando la sbornia le fosse passata, ma Logan ne dubitava.

Tutte quelle donne diverse: bionde, brune, rosse, magre, di corporatura media, formose, dalla pelle chiara, scura, olivastra, giovani, di mezza età o più avanti con gli anni. Non sembrava che Milne e Shepherd avessero una tipologia di donna preferita. A parte quelle che accettavano di fare sesso in tre.

Alcune di loro avevano un’aria familiare, ma, del resto, la Divisione B non era la zona di Manchester. In una piccola area rurale, si finiva per incontrare tutti i residenti, prima o dopo. Di certo aveva fermato quella tipa che sembrava un’insegnante, con lo chignon scuro e i pantaloni in vinile, perché aveva le gomme troppo lisce sulla sua Fiat Panda. E quella tipa grassoccia con le calze alte al ginocchio? Era a lei che avevano scassinato il capanno, oppure era quella che si litigava il cassonetto con i vicini di casa?

Milne scosse la testa. «Non mi sarei mai dovuto far coinvolgere». Aveva la voce di un’ottava più alta del normale, come se gli fosse difficile tenerla sotto controllo. «Avrei dovuto tenere la bocca chiusa. E se ora succede qualcosa?»

«Non succederà nulla, Martin». Narveer gli rivolse un occhiolino. «Si fidi di me: lo abbiamo già fatto tantissime volte. C’è un’autopattuglia davanti alla casa della sua famiglia, proprio adesso, e nessuno potrà avvicinarsi a Katie ed Ethan».

«Ma…».

«Sta facendo la cosa giusta, Martin», intervenne la Harper, indicando i vestiti sul letto. «È la cosa migliore».

A Logan sembrò di riconoscere altre due donne: una giovane bionda che si guardava alle spalle e sorrideva dritta in camera mentre Shepherd la sculacciava; e una piuttosto corpulenta, con una cicatrice a forma di Y sul labbro superiore e un’ossessione per il pizzo nero; e infine una signora con i capelli grigi con un tatuaggio degli Iron Maiden su tutta la schiena… Un momento, ma quella non era Aggie? La vicina di Shepherd? Oh, sì, era lei. Dunque, a quanto sembrava, faceva qualcosa di più che curarsi del gatto Cipolla di tanto in tanto.

Milne si strofinò un occhio con il palmo della mano. «Katie mi odia».

Oh, che sorpresa.

«Ha solo bisogno di un po’ di tempo per riprendersi, tutto qui. E adesso, forza, finisca di fare la valigia e la riporteremo a casa. Okay?».

Lui si fissò i piedi. «Sarei dovuto stare zitto».

Un sospiro, poi la Harper si piegò in avanti. «A volte non è facile fare la cosa giusta, Martin. A volte ci sono dei rischi da correre e un prezzo da pagare, ma questo non cambia nulla: è comunque la cosa giusta. E dobbiamo farla, perché altrimenti tutto crollerà, e tutti soffriranno». Gli sorrise. «Può capirmi?».

Milne annuì, senza staccare gli occhi dalle scarpe.

«Molto bene. Allora finisca di fare la valigia».