Capitolo 24
«Naturalmente, sai cosa sta succedendo, vero?».
Logan fissò la figura stazzonata nello specchio del bagno. «Sta’ zitto». Finì di lavarsi le mani e le passò sotto il flusso rabbioso dell’asciugatore ad aria.
Il Logan nello specchio scosse la testa. «Stai facendo tutto questo solo per non dovertene tornare a casa e ritrovarti lì da solo. Nel buio. A ubriacarti. E a preoccuparti di Reuben».
«Sì, ma questa faccenda è importante, non ti pare?»
«Hai ucciso Samantha, stamattina, ricordi?»
«E allora? Vorresti che me ne stessi chiuso in casa a piangere?»
«Sì!». Un cenno affermativo del capo. «A casa, proprio adesso, non qui a girare per la stazione di Bucksburn, per aiutare Napier a incastrare la Steel. Dovresti andare a spaccarti la testa con l’alcol come se non ci fosse un domani…».
Un brivido lo attraversò. “Spaccarsi la testa” non era un’espressione giusta da usare per quella giornata. Non dopo quello che era successo a Tony Evans.
Inspirò profondamente.
L’intero piano superiore della stazione era stranamente silenzioso. Nella maggior parte delle stazioni di polizia, non ci sarebbero stati altro che squilli insistenti di telefoni e voci e stampanti. Gente in giro per i corridoi a sparlare e a passarsi informazioni. Ma quella sembrava una corsia d’ospedale, con le stanze piene di quelli che sarebbero presto diventati cari estinti.
Logan si preparò un’altra tazza di tè e tornò nel suo ufficio temporaneo. Il luogo era pieno di foto: una donna felice in ogni immagine sempre più tonda, fino a ricevere tanti regali per il nascituro. Si afflosciò dietro alla scrivania. Prese un sorso di tè troppo caldo e guardò il fascicolo aperto, aggrottando la fronte.
Jack Wallace: ventinove anni, biondo, con un naso importante e il mento volitivo. Nella foto inserita nel fascicolo, gli occhi erano parzialmente nascosti da un paio di occhiali. Oh, e aveva sollevato il colletto della polo, probabilmente per sembrare meglio un testa di cazzo.
E bravo Jack, ci era riuscito alla perfezione.
Logan tamburellò con le dita sul mucchio di moduli e dichiarazioni.
Jack, Jack, Jack.
Niente, nel fascicolo, suggeriva che fosse davvero un pedofilo. No, Jack sembrava proprio un donnaiolo, invece, che alle donne questo piacesse o meno. E non si trattava soltanto delle due accuse, poi ritirate, di stupro, ma c’erano anche diverse denunce per molestie sessuali e aggressioni. E c’era di tutto, dal tastare i seni a una collega nell’ascensore al lavoro, alla camicia di una sconosciuta che era stata strappata nel bagno di un locale, per poi romperle il naso.
Non si poteva negare: Jack Wallace aveva dei problemi con le donne.
Ma da qui a diventare un pedofilo?
Tutte quelle foto, nascoste nel portatile. Nascoste bene e protette da una password.
Uhmm…
Logan tirò fuori il cellulare e cercò tra le sue foto. C’era Samantha in un party sulla spiaggia a Lossiemouth, che sorrideva da un orecchio all’altro. E un’altra, con lei che si toglieva la protezione di pellicola trasparente da un nuovo tatuaggio. E un’altra ancora in cui se ne stava distesa sul letto, con il corsetto di pelle, e gli sorrideva.
«E, prima che tu me lo dica, lo so, va bene?». Posò il telefono sulla scrivania. «Se fossi qui, saresti d’accordo con l’idiota nello specchio. Sì, avete entrambi ragione. Ma non me ne frega niente».
Non ci fu risposta.
«E non guardarmi così. Cosa avrei dovuto fare?». Si agitò sulla sedia. «Ci ho provato, okay? Ci ho provato, a mandarlo al creatore, e la pistola non ha funzionato».
La foto di Samantha se ne restò lì. Senza muoversi. Senza dire nulla.
«Sì, va bene: è stata una mossa da vigliacco, lo ammetto. Soddisfatta? Ho cercato di convincere Urquhart a fare il lavoro sporco al mio posto, perché non ho le palle di farlo io».
Logan si passò le mani sul viso. «Non voglio uccidere nessuno».
Il Logan dello specchio aveva ragione, non sarebbe dovuto essere lì, ma a casa, a spaccarsi la testa con l’alcol.
Uhmm…
Aggrottò la fronte.
Il computer si risvegliò con un pigolio quando Logan mosse il mouse. Tipico: la sua legittima proprietaria era in maternità da due mesi, e nessuno aveva pensato di spegnerlo. Non ci si poteva stupire, poi, se la Polizia di Scozia avesse problemi con gli sprechi di denaro.
Si collegò al sistema e fece una ricerca su Tony Evans.
A quanto sembrava, Urquhart aveva detto la verità. Evans era un piccolo spacciatore, che non era mai stato beccato con più di novecentonovanta sterline addosso, dieci meno di quelle che gliele avrebbero fatte confiscare come proventi del crimine. La sua fedina penale era prevedibilmente ripetitiva: possesso di stupefacenti, possesso di stupefacenti, possesso al fine di spaccio di stupefacenti, lesioni aggravate, possesso di stupefacenti, furto da un veicolo, possesso al fine di spaccio di stupefacenti, furto con scasso, possesso di stupefacenti…
E, al momento, con tutta probabilità, stava facendo il suo ultimo viaggio, ridotto a pezzetti, nel sistema digestivo di un paio di dozzine di maiali. Niente corpo. Niente testimoni.
Be’, sì, okay, i testimoni in realtà c’erano, ma il tizio sorridente, Denti Marci e Capitan abba non avrebbero mai tradito Reuben, giusto? Certo che no. E neanche Urquhart.
Il che lasciava in ballo soltanto Logan.
Lanciò uno sguardo al cellulare. La foto di Samantha era sparita, sostituita dallo schermo nero e vuoto.
«Cosa dovrei fare, andare da Napier e dirgli che ho visto Reuben spaccare la testa a martellate a Tony Evans? Oh, e, tra l’altro, non ho fatto nulla per fermarlo. Me ne sono stato lì come un fesso».
Nessuna risposta.
Offrì un’imitazione accettabile dei toni viscidi e secchi di Napier: «E, mi dica, sergente McRae, come mai ci ha messo tanto a informare qualcuno dell’efferato crimine di Reuben?»
«Ecco, sua Altezza Rossa, questa è una domanda molto pertinente. Mi fa sembrare un po’ sospetto, vero?»
«Sì, infatti».
«Come se mi fossi inventato tutto?»
«E lo ha fatto, sergente?»
«Fantastico…». Logan si appoggiò allo schienale della sedia presa in prestito. «Magari potrei dirgli che soffro di disturbo da stress post-traumatico? Insomma, in fondo ho dovuto uccidere la mia ragazza, stamattina, e poi ho assistito a un omicidio».
Sì, certo, quello avrebbe senz’altro funzionato.
Pungolò il telefono. «Dove sei? Sembro un pazzo, a parlare da solo in questo modo. Almeno, quando tu…».
Sentì bussare alla porta e Karl fece capolino nella stanza. «Mi scusi, pensavo ci fosse qualcuno con lei. Vengo in pace e le porto dei doni!». Entrò, trascinando sul pavimento delle pantofole a scacchi, e poi prese dalla tasca del cardigan una chiavetta usb. «Ta-daaaaaa…».
Di sicuro, agli Affari Interni c’era l’obbligo di assumere una certa percentuale di matti.
Karl si piegò sulla scrivania e inserì la chiavetta in una fessura sul davanti del computer. «Prego, non c’è di che».
«Di che si tratta?»
«Ah, ottima domanda. Per dieci punti, e la possibilità di tornare la settimana prossima, indovini chi è riuscito a trovare una copia dell’ultimo interrogatorio che l’ispettore capo Steel ha fatto a Jack Wallace?».
Logan si sforzò di sorridere. «Lei, per caso?»
«Bing! Risposta esatta, può passare al prossimo round. Grazie di aver giocato con noi». Si piantò le mani nel cardigan, deformandolo. «Non riesco a trovare il precedente, e, a dire il vero, temo che non avrei potuto procurarle neanche questo. Comunque, non faccia domande, facciamo finta di niente, eccetera eccetera».
Un paio di click del mouse, e il video partì a tutto schermo. Era una delle sale per gli interrogatori del quartier generale divisionale di Aberdeen; la numero tre, a giudicare dalla grossa macchia beige a forma di Australia che faceva bella mostra di sé sulla parete vicino alla finestra. Erano visibili tre persone, due delle quali sedute dando le spalle alla telecamera: una con un taglio di capelli biondo e spinato, e l’altra che sembrava un tasso investito da una mietitrebbia.
Il sergente Rennie e l’ispettore capo Steel. Il che significava che l’uomo di fronte a loro, con il volto rivolto alla telecamera, doveva essere Jack Wallace.
I suoi vestiti dovevano essere stati sequestrati dalla Scientifica per i vari test, perché indossava una tuta bianca della Scientifica stessa, con il cappuccio sulle spalle. Non era un grand’uomo, da tutti i punti di vista. Esile, con una barbetta sottile e gli occhi stretti, i capelli pettinati in avanti nel tentativo fallito di nascondere la calvizie incipiente. Lunghe dita smilze che giocherellavano con gli elastici dei polsini della tuta in tyvek. Aprì la bocca, ma non ne uscì un suono.
«Cosa è successo al sonoro?».
Karl premette un pulsante sulla tastiera, e i minuscoli altoparlanti del computer si risvegliarono crepitando.
«…comment». Wallace richiuse la bocca.
«Era silenziato, amico mio. Silenziato». Karl si raddrizzò e si massaggiò le reni. «Mi riporti la chiavetta quando ha finito. Questi piccoli oggetti sono come pepite d’oro, da queste parti».
La Steel aprì il fascicolo che aveva davanti. «E vive al numero ventisette di Cattofield Crescent, a Kittybrewster, Aberdeen?»
«No comment». La voce era piatta e priva di espressione, come se non gliene importasse nulla.
«Buona fortuna, concorrente». Un cenno di saluto, poi Karl si girò e uscì dalla stanza, lasciando Logan da solo con il computer.
«È andato nel nightclub Auchterturra Lights, su Justice Mill Lane, ad Aberdeen, lo scorso venerdì sera?»
«No comment».
«Ha incontrato qualcuno che conosceva, lì?»
«No comment».
«Si è avvicinato a questa donna e le ha offerto da bere?». La Steel tirò fuori una foto e la fece scivolare sul tavolo. Era difficile distinguerla, da lì, ma sembrava lo scatto in primo piano di una donna dai lunghi capelli biondi. «Claudia Boroditsky».
«No comment».
Sì, stava andando proprio alla grande, quell’interrogatorio.
«Ha provato più volte a ballare con lei?»
«No comment».
«Lei le ha detto che non era interessata, perché è impegnata?»
«No comment».
«Alle undici e quarantacinque, quando ha lasciato il locale, lei ha seguito Claudia Boroditsky?»
«No comment».
«Ha fatto dei commenti a sfondo sessuale e minaccioso su di lei, a Westfield Road?»
«No comment».
«L’ha assalita su Argyll Place e l’ha trascinata dentro Victoria Park?».
Wallace quasi non si mosse, per tutto il tempo. Restò dov’era, continuando a giocherellare con i polsini della tuta bianca. «No comment».
«L’ha colpita con un pugno in faccia, fratturandole uno zigomo?»
«No comment».
«L’ha colpita più volte a calci nel petto e nello stomaco?»
«No comment».
«Ha tirato fuori un coltello, puntandoglielo alla gola?»
«No comment».
«Le ha detto che se avesse urlato, l’avrebbe “sbudellata e scuoiata come un coniglio, per poi mandare i pezzi ai suoi genitori”?»
«No comment».
La Steel serrò le mani sul fascicolo, facendone piegare le estremità. «Le ha strappato la gonna e la camicia. Ha tagliato i suoi indumenti intimi con il coltello?»
«No comment».
«L’ha violentata?»
«No comment».
«Ha violentato Claudia Boroditsky?»
«No comment».
«La-ha-violentata?».
Wallace sembrò pensarci su, la testa di lato mentre fissava la fotografia sul tavolo davanti a lui. Poi si raddrizzò. Il volto impassibile quanto la voce. «No comment».
Il respiro di Logan uscì in una pallida nuvola di vapore. Si ficcò la mano libera nella tasca dei pantaloni e ingobbì le spalle. Mosse i piedi. Niente da fare. L’aria era così gelida che ogni respiro era come farsi pugnalare da ferri da maglia ghiacciati. «Perché volevo andarci, okay?».
L’ispettore capo Steel sbuffò, dall’altro capo del telefono. «Volevi andare al funerale di Wee Hamish Mowat? Ma che hai in testa, Laz? Hai perso i senni?».
La neve cadeva in lenti fiocchi pigri, coprendo il marciapiede e accumulandosi sulla pensilina della fermata dell’autobus. Scendendo in mezzo alle auto di passaggio.
«Semmai “il senno”. Al singolare».
«Ah, certo, nel tuo caso avere qualsiasi attributo al plurale non vale. E comunque, basterà che ti si allenti ancora un po’ una vite, nel cervello, e crollerà tutto. Non mi stupisce che il Ninja Rosso ti stia incollato alle chiappe».
«Sì, be’…». Guardò oltre la pensilina, verso la città. Auto, furgoni, camion e… santo cielo, era davvero l’autobus, quello? Il numero 35 sembrava finalmente essere in arrivo. E con giusto una ventina di minuti di ritardo.
Il che era notevole, considerando il traffico.
«Allora, dove sei?»
«Ad Aberdeen. Sto aspettando l’autobus».
«L’autobus? E perché non sei in macchina, brutto testardo… Okay, a dire il vero non me ne frega niente, purché tu stia tornando a casa. Ho un’idea per stasera: un’idea che sa di curry e birra. E magari anche un po’ di whisky».
Il 35 avanzò nella neve. Logan sperò che il riscaldamento a bordo funzionasse, o sarebbero stati guai.
Che assurdità, starsene lì fuori con addosso quel completo da funerale da due soldi e le scarpe lucide. Come un idiota.
«Siamo riusciti a farci dire tutto da Martin Milne, oggi, comunque. Grazie di avermelo chiesto».
«Scusi tanto, ma forse ho altre cose per la testa, oggi». Pescò i soldi per il biglietto. «Ci vediamo intorno alle sei».
«Abbiamo fatto una conferenza stampa con lui, questa mattina, e gli sciacalli si sono dispersi. Ma non credo che Malk lo Squartatore si farà vivo per far trasportare qualcosa a Milne molto presto».
«Mi farò una doccia, quando rientro, quindi calcoli un’ora, okay?»
«No, temo proprio che aspetterà che tutto si plachi. Farà la sua mossa quando penserà che noi non lo stiamo più controllando».
L’autobus si fermò con un sibilo, le porte si aprirono per lasciar scendere una donna dal viso rosso e un uomo grigiastro in volto.
Logan salì a bordo e diede i soldi al conducente. «Un biglietto per Banff».
«Però mi sembra una cosa piuttosto rischiosa, da parte sua, non ti pare?».
Prese il biglietto e si allontanò verso il fondo della vettura, raggiungendo un paio di sedili vuoti. Si sistemò accanto al finestrino coperto di condensa. La stazione di polizia di Bucksburn torreggiava nella nebbia.
«Insomma, uccidere Peter Shepherd e lasciare il suo corpo in vista in quel modo. Era ovvio che avremmo investigato».
«Ci ho parlato, oggi».
«Con chi, con Peter Shepherd? E come diavolo hai fatto, con una tavoletta ouija?»
«Non sto parlando di Peter Shepherd, razza di idiota, ma di Malcolm McLennan. Ha detto che stanno cercando di incastrarlo».
«Sì, certo, e gli unicorni cacano dolcetti».
Il motore dell’autobus vibrò, e si mossero lenti nel traffico, unendosi all’esodo al rallentatore che usciva dalla città.
«Potrebbe essere come dice lui, però. O forse l’ha fatto perché ci concentrassimo tutti su Milne e le sue navi, mentre lui si occupa di altri suoi affari».
«Grazie, Laz, molto d’aiuto. Altre stronzate che hai da raccontarmi, già che ci sei? No? Bene, in tal caso penso che…».
L’autobus si avvicinò lentamente alla rotonda.
Qualcuno seduto più avanti muoveva la testa al ritmo del tsssss-tsss-tsssss-tsss-tssss che usciva dalle sue cuffie.
«Pronto?».
Una vecchietta cominciò a tossire come un cavallo bolso.
Logan controllò il telefono. La Steel gli aveva attaccato in faccia.
Deliziosa.
L’icona della batteria era all’ultima tacca. Probabilmente gli sarebbe bastata per arrivare a casa. Forse. Ficcò il cellulare in tasca e guardò fuori dal finestrino coperto di condensa. Neve. Neve. E altra neve.
Avrebbe dovuto chiederle di Jack Wallace. Le avrebbe dovuto domandare perché l’accusa era crollata prima di arrivare in tribunale. Secondo il fascicolo, Claudia Boroditsky aveva ritirato la denuncia, dichiarando di essere confusa quando era stata aggredita. Che non riusciva a ricordare bene chi fosse stato ad assalirla e stuprarla. Che aveva fatto sesso in modo consensuale con Wallace nella stessa serata.
Perché tutto questo sembrava ben poco convincente? Perché sembrava più probabile che Wallace avesse rintracciato Claudia e l’avesse “persuasa” a cambiare idea?
Non lo stupiva che la Steel non fosse contenta del risultato.
Ma al punto di incastrarlo con una falsa accusa di pedofilia?
Logan disegnò un teschio con le tibie incrociate sul finestrino dell’autobus, mandando lacrime di condensa a scivolare sul vetro.
E chi poteva dire che Jack Wallace non se lo fosse meritato?