Capitolo 50

Narveer si succhiò i denti per un po’. Poi scosse la testa. «Un vero casino».

Davvero? Cosa glielo faceva pensare?

Due ambulanze bloccavano la strada con le loro masse squadrate e bianche, le luci blu e bianche che lampeggiavano e facevano brillare i fiocchi di neve.

Logan si abbassò sotto il cordone di nastro giallo e nero che recitava: “scena del crimine vietato l’accesso”. Indicò l’ambulanza più lontana. «Vorrei accompagnarla a casa, se non è un problema».

L’ispettore gonfiò le guance. «Gli Affari Interni stanno arrivando. E sarà la madre, il padre e il figlio di tutte le indagini interne che abbiamo mai visto».

«Sì, d’accordo». Logan lanciò uno sguardo sulla strada, dove un tizio in tuta bianca della Scientifica stava fotografando il cadavere della McKenzie. «È stata una serata allucinante».

I fasci di luce delle torce si muovevano sotto di loro, lungo il pendio, insieme ad altri uomini in tuta bianca, fantasmi nell’oscurità a caccia di prove.

Un’autopattuglia era all’interno del cordone, dietro alla Macchina Grande. La donna sul sedile posteriore li guardò con astio, il cappello di lana che le copriva le orecchie. Non era stata abbastanza sveglia da darsela a gambe quando erano arrivati i rinforzi. Reuben se li sapeva scegliere proprio bene.

Mostrò i denti a Logan, da dietro al vetro.

Lui le rivolse un cenno. «Spero che le manette siano così strette da farti cascare tutte le dita».

Narveer scosse la testa. «Non può sentirla».

«È il pensiero, quello che conta».

«Già… E lei ha proprio bisogno di un periodo di vacanza, non è così?». Gli posò una mano sulla spalla e lo condusse verso le ambulanze. «Forza. Porti a casa il capo prima che le venga voglia di prendersi sulle spalle anche questa indagine».

Logan si passò una mano sul viso. «Immagino che saremo entrambi sospesi dal servizio attivo, finché questa storia non sarà spiegata».

«Probabilmente sì».

E a quel punto, lui si sarebbe trovato con tutta probabilità chiuso in carcere per sedici anni.

Logan zoppicò lungo la strada, superò la Range Rover con il lunotto posteriore in frantumi e andò verso le ambulanze.

La più vicina aveva gli sportelli posteriori chiusi, e lui le mostrò il dito medio, prima di raggiungere la seconda.

La Harper era seduta sul bordo, con una bottiglia d’acqua in mano e una coperta termica intorno alle spalle, come se avesse appena corso una maratona. Sbatté le palpebre, guardandolo, per poi spingere via il paramedico. «Se ne vada».

L’ometto in uniforme verde lasciò cadere un pezzo di ovatta umido in una bacinella di metallo, poi ne prese un altro, continuando a ripulire il sangue dalla guancia e dalla fronte della Harper. «Probabilmente ha un trauma cranico. E ha idea di quanto sia grave? Perché se non lo sa, la risposta è molto».

L’altra ambulanza ringhiò e si allontanò. Accelerando mentre li superava, le sirene che strillavano nella notte innevata.

Logan si fermò con un gemito. «Toccata e fuga, ma faranno del loro meglio».

La Harper tirò su con il naso. «Non riesco a credere che tu gli abbia sparato in testa».

«Cosa avrei dovuto fare, lasciare che ci uccidesse entrambi?»

«Adesso mi ci vorranno settimane per togliermelo dai capelli».

«Guardi la luce della torcia, per favore». Il paramedico si inginocchiò di fronte a lei, puntandole una piccola torcia negli occhi. «Per caso sente dei…».

«Sul serio, se non se ne va subito, giuro che la arresto».

«Molto bene. Se è quello che vuole». L’uomo mise via la torcia. «Il funerale, in caso, è il suo».

Lei scese dall’ambulanza. Le ruote avevano lasciato quattro linee scure di asfalto in mezzo alla neve, ma tutto il resto stava lentamente sparendo sotto un velo bianco.

Il rumore dei rotori di un elicottero sbatté sopra di loro, un faro che scendeva dal velivolo a incorniciare pezzi di bosco.

Logan la condusse verso una delle autopattuglie parcheggiate lungo la strada. «Come va la testa?»

«Mi fa male. E la tua?».

Lui si sfiorò la garza che gli avevano sistemato sull’uovo che stava spuntando fuori dal suo cranio. «Sì». Aprì lo sportello e aiutò la sorella a sistemarsi sul sedile del passeggero, poi zoppicò dal lato del guidatore. Si afflosciò per un attimo, poi accese il motore e le luci.

Lei si voltò sul sedile, guardando verso i cordoni e i veicoli e i fantasmi. «Che intendevi dire?».

Logan fece staccare l’auto dal ciglio della strada, con una delle ruote posteriori che slittava sull’erba bagnata, finché non fece presa. «Puoi stare nella stanza degli ospiti, per stanotte. I paramedici hanno detto che non devi passare la notte da sola, in caso dovessi morire». Almeno, adesso poteva tornare a casa senza paura, e lui e Cthulhu non avrebbero dovuto dormire in una serie di anonimi bed & breakfast.

«Gli hai detto che non ero stata io quella che l’aveva fregato e fatto sembrare un coglione».

«Il paramedico?»

«Quel brutto gigante grasso pieno di cicatrici». Si tirò una ciocca di capelli incrostati di sangue. «Il signor Shampoo per Mesi».

«No, non è vero».

Un furgone grigio molto pulito comparve sulla cima della collina, con la scritta “beaton e macbeth” in lettere discrete sulla fiancata. Andy e George lo salutarono mentre passavano. Con un cadavere in fondo alla collina e uno sul ciglio della strada, sarebbe stata una notte di lavoro, per i becchini della polizia.

La Harper guardò davanti a sé. «Invece sì, ti ho sentito».

«No, gli ho detto che gli avevo fatto fare la figura del coglione».

«E…?».

Mentre superavano la collina, il cellulare di Logan iniziò a tintinnare e vibrare: messaggi che arrivavano tutti insieme dopo il lungo periodo trascorso dove non c’era campo.

«E stavo cercando di fargli perdere il controllo. Di farlo infuriare e distrarlo».

«Sì, ma di che si trattava?»

«Ha funzionato, no?»

«Sai che ci sarà un’indagine».

E lui era fottuto, che Reuben si risvegliasse o meno. Gavin Jones probabilmente avrebbe resistito un quarto d’ora al massimo, prima di raccontare tutto, e il sergente Logan Balmoral McRae sarebbe finito in un mare di guai. «Bene».

Fece andare un po’ più veloci i tergicristalli, ripulendo il parabrezza mentre la neve cominciava a cadere più fitta.

Il mondo era una massa vorticante di bianco e grigio, la visibilità ridotta a pochi metri. Logan abbassò i fari. Aiutò un po’.

Lei si schiarì la gola. «Grazie. Per non avermi fatto esplodere la testa».

Logan si strinse nelle spalle. «A che servono i fratelli maggiori, altrimenti?».

I tergicristalli continuarono a cigolare e lamentarsi.

Un mondo bianco e grigio scivolava loro accanto.

«Logan? Quando…». La ricetrasmittente della Harper emise quattro segnali acustici.

«Sergente Robertson a sovrintendente Harper, può parlare?».

Lei sospirò, poi prese l’apparecchiatura e premette il pulsante. «Prego, Robertson».

«Sì, ecco, ascolti, capo: ha ancora bisogno che controlliamo casa di Milne? È che i miei uomini dovevano staccare mezz’ora fa. C’è qualcuno che viene a sostituirci?».

La Harper si girò e sgranò gli occhi verso Logan, mostrandogli i denti in un lampo di sorriso. «Restate dove siete, Robertson: garantisco io per lo straordinario. Io e il sergente McRae stiamo arrivando».

«Sì, capo».

Logan sospirò. «Siamo rimasti coinvolti in una sparatoria fatale. Non vogliono di certo che continuiamo a stare in servizio. Dovremmo…».

«Qualcuno ha detto ufficialmente che non possiamo prendere parte a un’indagine?»

«No, ufficialmente no». Lui mantenne gli occhi sulla strada. «Sicura di non voler tornare a casa?»

«Sicurissima. Ho avuto una giornata pessima, e Martin Fottuto Milne sta per scoprire cosa significa».

Logan parcheggiò fuori dal numero sei di Greystone View.

Le luci di Whitehills erano bloccate dalla tempesta di neve, densi strati bianchi che ululavano nel vento, colpendo alberi e giardini. Una raffica fece ondeggiare l’autopattuglia sulle sospensioni. Lui spense il motore.

La neve gemette e sibilò contro il tettuccio.

Un’altra autopattuglia era parcheggiata davanti a loro, e lo sportello dal lato del passeggero si aprì, facendo uscire una creatura scheletrica in giubbotto catarifrangente. Il sergente Robertson si affrettò a raggiungerli, quasi piegato in due nella tormenta. Bussò contro il finestrino e Logan girò le chiavi nel quadro quel tanto che bastava a farlo abbassare.

Il vento continuò a ululare.

«Pensavamo che vi foste dimenticati di noi». Fiocchi bianchi gli si incollavano alle ridicole basette, facendole penzolare umide.

«Movimenti?»

«No, niente del tutto. Le luci sono rimaste accese per tutta la sera, ma le tende non si sono mai mosse. Ma nessuno è entrato e nessuno è uscito».

La Harper aprì lo sportello e uscì. Allungò una mano. «Sergente Robertson, posso avere le sue manette?».

Lui si strinse nelle spalle. «Non vedo perché no». Le passò alla donna, mentre Logan alzava il finestrino e usciva dalla macchina. Era come se tutte le giunture gli si fossero arrugginite nel viaggio di venti minuti che li aveva portati fin lì. I muscoli di braccia e gambe dolevano, la schiena si lamentò con forza mentre lui si infilava a fatica il giubbotto catarifrangente. Sbuffò e attese che il peggio passasse.

«Sta bene?». Robertson lo guardò, perplesso. «Ha un aspetto orribile».

«Sì. Aspettate altri dieci minuti, okay? Giusto per sicurezza». Portò le spalle al vento e avanzò a fatica sul vialetto, il freddo gli entrava negli stivali umidi e nei calzini bagnati.

La Harper lo affiancò, usandolo come un paravento.

Logan suonò il campanello. Volse le spalle alla tormenta. La neve gli piombò sulle spalle, minacciando di portargli via il berretto dell’uniforme. «Samantha aveva ragione, sarei dovuto andare in Spagna».

«Cosa c’è in Spagna?»

«Complicazioni».

La porta restò chiusa.

Logan riprovò a suonare, tenendo il pollice premuto sul campanello.

La Harper si avvicinò, in modo da stare al riparo dalla neve. «Al diavolo. Non resteremo qui fuori come due idioti mentre Milne se ne sta lì dentro a prendersi gioco di noi». Accennò alla porta. «Sergente, ho motivo di credere che la famiglia di Martin Milne sia in pericolo. Ritengo che sia necessario entrare. D’accordo?».

Logan provò ad abbassare la maniglia.

Chiusa a chiave.

Suonò di nuovo il campanello. «Non credo che riuscirò a buttarla giù, nelle mie condizioni attuali».

«Aspetta». La Harper gli mise una mano sul braccio, mentre un’ombra passava sul vetro accanto alla porta.

Ci fu un click, poi l’ombra svanì di nuovo.

Questa volta, quando Logan provò ad abbassare la maniglia, la porta si aprì, facendo entrare un refolo di neve nell’ingresso.

Entrarono di corsa, chiudendosi la porta alle spalle, e notando la figura di Katie Milne sparire in cucina, con quella che sembrava una bottiglia di champagne in mano.

Logan la seguì, fermandosi a controllare il salotto e il bagno al pianterreno. Nessun segno di Milne.

Katie voltava loro le spalle, quando entrarono in cucina, e stava mettendo due tazze davanti al bollitore che borbottava. «Va bene del tè, per voi? Non ho caffè». Aveva la voce strascicata, lenta e soffocata, come se la bocca non le funzionasse a dovere. Sollevò la bottiglia di champagne e ne prese un sorso. «Oppure c’è del vino, se preferite».

Logan si abbassò la chiusura lampo del giubbotto. «Signora Milne, dov’è suo marito?».

Lei si voltò. Aveva il mento coperto di sangue secco, il labbro inferiore gonfio e spaccato. Il che spiegava la sua voce. Un singolo dente bianco era appoggiato su un piattino vicino al lavello. «In garage». Indicò la parete più lontana e prese un altro sorso dalla bottiglia. Sbatté le palpebre, al rallentatore. «Vi vanno dei biscotti?».

La Harper annuì. «Sergente, chiami pure il signor Milne qui in cucina».

Logan uscì in corridoio, seguendo le vaghe indicazioni del dito puntato della donna fino a una porta in fondo al passaggio. Si aprì su un garage di cemento, con una Aston Martin blu scuro parcheggiata dentro.

Milne era sul pavimento.

Disteso a faccia avanti sul cemento, nudo, con entrambe le mani dietro la schiena. Il torso e le gambe erano coperti di lividi. Delle bottiglie di vino erano intorno a lui, un paio rotte, e il sentore inebriante del vino si mischiava a quello aspro di sangue e feci. Una busta di plastica nera gli copriva la testa, bloccata intorno al collo con il nastro adesivo.