13. Dove la flotta veneziana sparge il panico nell’Egeo, a Venezia si scopre che le cose vanno molto peggio di quel che si pensava, e Gian Andrea Doria si unisce agli alleati senza averne voglia

Lo stesso giorno in cui l’esercito di Lala Mustafà usciva dall’accampamento diretto a Nicosia, la flotta veneziana salpava da Corfù in direzione di Creta, costeggiando il porto di Prevesa e l’isola di Santa Maura, possedimenti turchi, prima di far tappa a Cefalonia. Il generale aveva valutato l’ipotesi di attaccare l’una o l’altra fortezza, ma gli ufficiali inviati a riconoscerle giudicarono che l’impresa fosse impraticabile. Perciò la flotta proseguì, fermandosi a Zante e poi a Modone, sulla costa del Peloponneso, e il 4 agosto arrivò finalmente a Creta, gettando l’ancora nella baia di Suda, il principale porto naturale dell’isola. L’epidemia a bordo assumeva risvolti sempre più terrificanti, tanto che lo Zane decise di sbarcare a Zante tutti gli ammalati: non solo per evitare il contagio, ma perché il tifo li faceva impazzire, cosicché «fanno diversi mali amazzando chi li dorme appresso, et gettandosi in aqua lor stessi». Prima di partire da Corfù, però, il generale aveva ordinato ai rettori delle isole di reclutare il maggior numero possibile di galeotti per sostituire i morti e i moribondi, e il 1° agosto fece rapporto da Zante in termini un po’ più ottimistici: aveva già imbarcato, disse, 2200 uomini, compreso un centinaio di sudditi turchi catturati a Santa Maura, e sebbene le perdite da colmare fossero molto maggiori, era informato che a Creta era già stato reclutato un gran numero di soldati e rematori1.

Quando arrivò a Creta, però, lo Zane scoprì che i preparativi non erano così avanzati come aveva creduto. Il provveditore di Candia, da Mula, era ammalato da due mesi e senza la sua energia il reclutamento andava male. Qualche tempo prima, il da Mula aveva avuto ordine di aggiornare i registri dei coscritti, visitando tutta l’isola e «facendo notar li huomini sopra un libro a ciò deputato per nome, cognome, segno, pello, et casal», ma non aveva avuto il tempo di completare l’operazione, per cui i nuovi rotoli erano inutilizzabili. Nell’ansia di far uomini a qualunque costo, il generale concesse la grazia a tutti quei banditi che erano disposti ad imbarcarsi o a fornire rematori per le galere, e organizzò vere e proprie battute di caccia per stanare i disertori fuggiti in montagna, inseguendoli «come lepri». I risultati furono assai deludenti: la sua corrispondenza da Creta è piena di lagnanze sulla disobbedienza degli abitanti e la scarsa collaborazione prestata dalle autorità e dai gentiluomini locali. Questi rapporti fecero una pessima impressione a Venezia e contribuirono a seppellire la reputazione dello Zane, accusato d’aver gestito la faccenda con inefficienza e improvvisazione. Come annotò lapidariamente un cronista, «il general Zane [...] a principio di agosto capitò in Candia, ed attese a far nova gente da remo, e provvisione di biscotti ed altri viveri. Tutto fu fatto con spesa eccessiva e fuori di tempo»2.

Benché gli ordini ricevuti gli imponessero di proseguire verso Levante e affrontare il nemico nelle acque di Cipro anche senza aspettare le flotte alleate, il generale veneziano aveva deciso da un pezzo che non era possibile obbedire prima d’aver interzato le sue ciurme; e tanto meglio se mentre provvedeva il Doria e il Colonna fossero apparsi all’orizzonte. Secondo Sforza Pallavicino, la situazione durante la sosta a Creta era così drammatica che nemmeno metà delle galere disponibili erano in grado di uscire dal porto per far esercitare le ciurme. Tuttavia, la decisione di dare la precedenza al reclutamento ebbe gravi conseguenze, sul piano strategico come su quello dell’immagine. Mentre la cavalleria di Lala Mustafà scorrazzava per Cipro, e i contadini approfittavano dell’occasione per abbandonare i padroni veneziani, la flotta turca si ritrovò padrona delle acque cipriote, continuando indisturbata a traghettare uomini, cavalli e rifornimenti per l’esercito del serdar. Contemporaneamente, a Creta e in tutto l’Egeo la notizia che la flotta veneziana, con a bordo la peste, aveva fame di uomini e li prendeva dovunque li trovasse spargeva il panico fra quelle popolazioni cristiane, facendo precipitare al minimo storico il già vacillante credito di Venezia.

La sensazione più penosa fu provocata dal raid di Marco Quirini, mandato con 20 galere a far gente nell’Arcipelago. Approdato nell’isola di Andros, possedimento ottomano abitato da greci cristiani, il Quirini mise a terra squadre di soldati che commisero le peggiori atrocità, catturando gli uomini, violentando le donne e mettendo a sacco i casali e le chiese. «Ritrovandosi i soldati in paesi de’ nemici, benché di gente cristiana, non si puoté frenare la insolenza militare», osserva compunto il Paruta. Il Quirini ritornò a Creta con trecento schiavi ebrei e cristiani da incatenare al remo, ma lo stesso Sforza Pallavicino riferì a Venezia che i soldati avevano «commesso molte altre brute cose et condotte via molte giovani», e non c’è dubbio che il danno d’immagine fra le popolazioni greche dell’Egeo fu maggiore del guadagno: come osserva tristemente un cronista padovano, il sacco di Andros «spiacque a tutti i buoni, offese gl’anemi de Candiotti et alienò i Greci dell’Arcipelago dall’armata christiana, per la cui venuta, salute e vittoria porgevano prima caldissimi voti a Iddio»3.

La flotta fece comunque pagare un caro prezzo ai possedimenti turchi dell’Egeo. Sebastiano Venier, nominato provveditore di Cipro, non aveva potuto raggiungere l’isola prima dello sbarco turco ed era stato consigliato di fermarsi a Creta. Lo Zane gli diede tre galere con cui poté entrare a sua volta nell’Arcipelago, per far danni dove poteva e confortare il morale dei fedeli isolani di Tinos. Giunto a Nasso, possedimento dell’odiatissimo Migues, il Venier entrò in rada e la popolazione si affrettò a issare la bandiera di San Marco e a consegnargli le chiavi della città. Il vecchio gentiluomo convocò i cittadini nella cattedrale latina, tenne loro un discorso sulla recuperata libertà e fece eleggere governatore il fratello dell’antico duca Giacomo IV Crispo, spossessato dal sultano pochi anni prima; dopodiché ripartì, portandosi via come schiavi tutti gli ebrei abitanti sull’isola, 17 maschi e 11 donne, che la popolazione gli aveva consegnato in mancanza di turchi.

A Venezia la notizia di questo successo fu accolta piuttosto freddamente: il nunzio annota che la presa di Nasso «importa poco, che ’l luogo è aperto et bisogna ch’obedisca a chi è superiore in mare». Ma la notizia fece sensazione a Costantinopoli, dove anche il bailo Barbaro ne fu informato: pareva che le scorrerie veneziane stessero smantellando i possedimenti turchi dell’Egeo, e fra il popolo corse addirittura voce che la flotta era stata sbaragliata dai veneziani, i quali avevano «affondate 90 galere turchesche». Oltre al Venier e al Quirini, anche il secondo provveditore da mar, Antonio da Canal, era uscito in mare a catturare schiavi, e in quelle settimane d’agosto le isole vennero attaccate una dopo l’altra: Paros fu presa senza opposizione, e i veneziani vi insediarono un governatore; anche Milos cadde senza resistenza; a Mykonos, invece, la popolazione greca cercò di difendersi e le galere portarono via circa 150 persone; a Scarpanto i casali furono bruciati, gli animali ammazzati, le ragazze violentate. L’Europa assisteva perplessa a queste scorrerie, di cui giungeva ampia notizia, grazie anche ai religiosi imbarcati sulle galere, che non esitarono a denunciare atrocità e stupri compiuti ai danni di cristiani: «non è per dar rimedio, che non so chi farà simil cosa», commentava amaramente uno di loro, «ma si narra la verità». Lo stesso Pio V, scandalizzato, denunciò come un delitto la riduzione in schiavitù e l’incatenamento al remo di cristiani razziati in territorio turco4.

La ferocia dello scontro combattuto nel mare delle Cicladi è testimoniata dalla sorte di Francesco Coronello, che governava Nasso per conto di João Migues. Fuggito dall’isola all’arrivo del Venier, Coronello capitò a Syros dopo molte peripezie, ma lì venne arrestato dalla gente del posto, e consegnato a tre fuste cristiane che si erano fermate nottetempo nell’isola, il cui capitano era un ser Zanin della Canea. Nel loro viaggio verso Creta le fuste fecero scalo a Tinos, e gli abitanti del luogo, appreso che portavano il Coronello prigioniero, offrirono al capitano 500 zecchini «che ne lo concedesse per darli morte crudelissima», ma il Coronello pagò di più, e ottenne di essere portato a Creta. Incarcerato alla Canea, avvertì i suoi amici a Costantinopoli di negoziare il suo riscatto. Ma quando si seppe che rischiava d’essere liberato, la comunità di Tinos scrisse al Consiglio dei Dieci denunciando le malefatte di quest’uomo, «locotenente de Zuan Micas ebreo in tutto lo Arcipelago», attribuendo ai suoi consigli l’attacco che Pialì pascià aveva compiuto contro l’isola, e supplicando che un uomo così pericoloso non fosse rimesso in libertà. I Dieci, dopo matura deliberazione, ordinarono alle autorità di Candia di verificare se le accuse contro il Coronello erano fondate; e se così fosse, «lo farete secretamente morir, facendo poi dar voce che sia morto di sua malattia»5.

A Venezia il governo era diviso fra il desiderio che le flotte alleate si congiungessero con lo Zane, e quello egualmente forte che il generale si spingesse al più presto nelle acque di Cipro per affrontare il nemico; secondo le ultime lettere del bailo Barbaro la flotta turca stava anch’essa per «venir a ritrovar la nostra», sicché lo scontro appariva inevitabile. Ma in realtà, l’enorme distanza fra Creta e la madrepatria rendeva impossibile per chi era rimasto a Venezia seguire con chiarezza gli avvenimenti. Ancora ai primi di settembre, il Senato non aveva altre informazioni dopo quelle che lo Zane aveva spedito da Zante il 1° agosto; non sapeva dunque nulla della situazione catastrofica che il generale aveva trovato a Candia, e s’illudeva che avesse reclutato senza fatica tutti i rematori e gli scapoli di cui aveva bisogno. A Venezia si era molto meglio informati sui movimenti del Doria, che il 20 agosto era arrivato a Gallipoli, e del Colonna, che era ad Otranto. Perciò il Senato garantì al generale il prossimo arrivo delle flotte alleate, ma nello stesso tempo si congratulò con lui per aver preso la «valorosa risolutione d’andar a ritrovar et combattere l’armata inimica»: si supponeva infatti che dopo essere arrivato a Candia avrebbe immediatamente proseguito verso Cipro. L’ottimismo delle autorità era così tangibile che fra il popolo circolarono notizie inventate di sana pianta, ma stranamente simili a quelle che correvano a Costantinopoli: secondo quelle voci, lo Zane aveva già dato battaglia ai turchi e li aveva sconfitti, catturando 40 galere e mettendo in rotta il resto6.

In realtà l’ammiraglio veneziano stava ancora cercando di capire dove fosse la flotta turca. Le due galere partite da Corfù insieme a quelle del Venier, e che dovevano spingersi fino a Scarpanto in cerca di informazioni, erano ritornate senza aver scoperto nulla; perciò il 7 agosto l’infaticabile Marco Quirini venne spedito in ricognizione verso Rodi. Nel frattempo, ricorrendo a tutti i mezzi, un po’ di rematori si erano trovati, e l’umore dei comandanti migliorava, ma è comunque chiaro che essi non intendevano più prendere nessuna iniziativa fino all’arrivo degli alleati. Il Pallavicino spedì a Venezia rapporti incoraggianti, affermando che «la difficultà in trovar huomini» era in via di superamento; ormai si aspettava soltanto l’arrivo del Colonna e del Doria per attaccare, «et dice che andrebbono a una vittoria certa». Lo Zane confermò «che aspetterebbe, prima che partire, le galere di Nostro Signore et del Re Catholico», e solo allora salperebbe verso Cipro, «per levar l’assedio di quell’isola». Il generale volle essere chiaro sul fatto che l’epidemia aveva aperto troppi vuoti fra la sua gente, per cui era impossibile muoversi senza gli alleati; è vero che secondo gli ordini avrebbe dovuto farlo, «ma non si può andar contra il voler di Dio».

Queste lettere, arrivate solo alla fine di settembre, provocarono una sensazione penosa a Venezia, dove le difficoltà sperimentate dallo Zane erano sempre state sottovalutate. Dopo aver creduto che la flotta fosse già da tempo salpata per Cipro, la Signoria apprese da quei rapporti che l’ammiraglio era ancora a Creta, che l’epidemia continuava a fare strage a bordo, e che degli oltre 12.000 soldati e venturieri imbarcati a suo tempo sulle galere ne rimanevano in grado di combattere a mala pena 4000. Le autorità veneziane non sapevano se essere più preoccupate per quelle cattive notizie, o per la brutta impressione che esse potevano fare sugli alleati. «Queste nuove traffigono assai gli animi di questi signori», riferiva il Facchinetti, «sì perché le cose si trovano in altro stato di quello ch’era corsa la voce et ch’essi s’imaginavano, come anco perché par loro che questa disgrazia dell’infettatione dell’armata sia un flagello di Dio». A Venezia si temeva che «il sig. Marco Antonio et il sig. Giovanni Andrea», trovando la situazione così compromessa, ci avrebbero pensato due volte prima «di passare in Cipro et porsi a rischio di combattere»7.

Nonostante i ritardi incontrati nell’armare le sue galere, Marcantonio Colonna era di ottimo umore quando arrivò a Otranto il 6 agosto. Prima della partenza da Ancona, aveva ricevuto dal papa la notizia che il re accettava di affidargli le galere che aveva in Italia, e che Gian Andrea Doria doveva mettersi ai suoi ordini, raggiungendolo «senza por tempo in mezzo». Perciò, anziché far vela direttamente per il Levante il Colonna decise di fare scalo nel porto pugliese, e lì attendere la squadra del Doria. Il viaggio ebbe i suoi inconvenienti: i marinai erano inesperti, le ciurme nuove, e qualche galera si ritrovò al largo avendo finito le scorte d’acqua, tanto da dover cuocere la zuppa coll’acqua di mare. I gesuiti a bordo scrissero a casa che s’era arrivati a Otranto più per l’aiuto di Dio che per l’abilità dei piloti, ma bene o male ci si arrivò. Il Colonna trovò ad aspettarlo una lettera di Filippo II, che si congratulava per la sua nomina a generale della squadra pontificia, e gli confermava che Gian Andrea si sarebbe messo ai suoi ordini. Il giorno seguente scrisse a Venezia che contava di ripartire al più presto per Corfù: evidentemente era convinto che la flotta veneziana si trovasse ancora laggiù, e che quella del Doria lo avrebbe raggiunto a Otranto da un giorno all’altro. La lettera s’incrociò con un’altra del doge, in cui il Mocenigo lo pregava di «accelerare con ogni diligentia la sua andata in Levante per ritrovare ed unirsi con la detta armata nostra», cosa che avrebbe consolato Sua Santità, accresciuto riputazione alla «Republica Cristiana» e anche giovato al «comodo nostro»8.

Due settimane dopo, il Colonna era ancora ad Otranto ad attendere il comodo di Gian Andrea Doria, e il suo umore era sensibilmente peggiorato. «Il signor Giannandrea partì alli 12 da Messina senza saper che io l’aspettassi», scriveva il 20 Marcantonio al cardinal Rusticucci; a Capo Colonna una fregata l’aveva avvertito che la squadra pontificia lo attendeva, ma il Doria, anziché affrettarsi, aveva rallentato, «e non è ancora comparso». L’ammiraglio genovese arrivò quella sera, ma la lentezza con cui s’era mosso bruciava al suo collega romano ancora qualche mese dopo, quando ormai tutto era andato a finire molto male. In un memoriale inviato al re, Marcantonio riassunse così quel che era accaduto dopo il suo arrivo a Otranto: «Vi giunsi a’ 6 d’Agosto, e fino a’ 20 aspettai Giovann’Andrea, il quale, al dir di molti, e come per sé manifesto appare, troppo lento fu nel viaggio al soffio di prosperi venti [...]. Sia detto ciò», precisa puntiglioso il Colonna, «a dimostrare siccome fin dal primo dì covasse mala voglia di procedere innanzi, o di far altro di meglio; e come avesse a poco conto l’ordine che Vostra Maestà gli dette su la mia persona». Un contemporaneo conferma che a giudizio comune, con i venti favorevoli che soffiavano in quel momento, sarebbero bastati due giorni al Doria per arrivare a Otranto. Come si spiega che ne abbia impiegati invece otto?9

Sappiamo già che il genovese, rientrato a Messina con gran parte delle sue galere verso la fine di luglio, non era precisamente entusiasta della prospettiva di salpare per il Levante. Che gli toccasse farlo, era voce che correva ormai in tutte le corti italiane, e per salvare le apparenze l’ammiraglio mostrò di darsi un gran da fare: il viceré di Sicilia, marchese di Pescara, assicurò al re il 27 luglio che Gian Andrea «si fa fretta a mettersi in ordine e spalmare ed entro cinque o sei giorni sarà pronto senza dubbio». Ma il Doria non aveva nessuna intenzione di muoversi prima di ricevere l’ordine scritto di Filippo, quello famoso spedito il 15 luglio da Madrid, e d’essere raggiunto dal marchese di Santa Cruz con le galere della squadra di Napoli, che stavano caricando galeotti e rifornimenti in quel porto. Il 2 agosto scrisse al viceré, suo amico fraterno e diremmo anche complice, confidandogli la sua convinzione che da tutti quei preparativi non sarebbe uscito proprio niente10.

Qualche giorno dopo gli ordini di Filippo erano arrivati, ma il Doria si accorse subito che la loro formulazione era abbastanza ambigua da metterlo nei guai, e si sfogò col suocero, principe di Melfi, in una lettera memorabile per il malumore che lascia trasparire. «Io so di ogni cosa sì poco», scriveva Gian Andrea, da esser tentato di cedere il comando a qualcun altro. Gli ordini del re erano sul suo tavolo, ma non era affatto chiaro che cosa Filippo volesse davvero: «quanto più ho letto la lettera che mi scrive manco l’intendo, quanto più la premo manco suggo ne caccio». Una cosa, a dire il vero, era chiara, e cioè che la squadra doveva salpare per il Levante, e perciò Gian Andrea ammetteva a denti stretti di «non poter far altro che andare». Ma che cosa dovesse fare una volta laggiù, il Doria pretendeva di non averlo capito affatto, e poiché nelle ultime lettere al re aveva espresso chiaramente i suoi dubbi, «in modo che non può mancar di rispondermisi», la sua intenzione era bensì di salpare, ma «sì adagio et tardi che mi arrivi qualch’altro corriere, il quale mi dia più luce». Così stando le cose, era una gran fortuna che il marchese di Santa Cruz non fosse ancora arrivato con le galere di Napoli, «et di qua non uscirò prima delli XII di questo per presto che arrivino»11.

Le galere del marchese, in realtà, fecero il viaggio da Napoli a Messina in appena due giorni, con sicura irritazione di Gian Andrea che se le vide arrivare in porto poche ore dopo aver scritto quelle frasi12. Non c’era più modo di rimandare decentemente la partenza se non di tre o quattro giorni, che il Doria impiegò scrivendo altre lettere quanto mai significative. Al re scrisse che avrebbe certamente obbedito a Marcantonio Colonna, di cui conosceva le buone intenzioni: ma chiedeva comunque di essere autorizzato a disobbedire se si fosse accorto che l’ammiraglio pontificio conduceva la flotta alla catastrofe. Inoltre pregava Filippo che gli ordinasse formalmente di rientrare in porto entro settembre, sottolineando che al di là di quella data i pericoli dell’inverno e il logoramento delle ciurme inesperte avrebbero messo a repentaglio la sicurezza delle galere.

All’armatore genovese Stefano de Mari, che aveva due galere nella squadra, il Doria garantì che «le sue galee saranno trattate da me [...] al par delle mie», dopodiché espresse confidenzialmente la propria sfiducia nell’inesperienza dell’ammiraglio pontificio («il signor Marcantonio provarà che sono li carichi, et, pur che non prove a danno nostro, tutto starà bene»). Continuò affermando che avrebbe preferito obbedire a chiunque altro piuttosto che al Colonna, anche se non si permetteva di criticare pubblicamente il re suo padrone: «di più non osa il nostro amor cantando, mi ricordo haver letto nel Petrarca quando ero inamorato». Finalmente si fece beffe dell’entusiasmo da crociata che aleggiava intorno a lui: «Vostra Signoria attendi a darsi spasso et pigliarsi piacere, ché noi altri atenderemo a viver per la fede»13.

Il 12 agosto, sul punto di salpare da Messina, Gian Andrea scrisse ancora una lunghissima e confidenziale lettera al viceré di Sicilia. Benché la partenza fosse stata tutt’altro che affrettata, il tono era quello di un uomo da cui si sta pretendendo l’impossibile: «io ho tanto poco tempo et tanto da fare che non so dove dar della testa», esordiva. Dell’impresa cui stava per prender parte non poteva importargli meno («vi vado come quelli che vanno alla forca»); la sua unica preoccupazione consisteva nel trovare il modo di tornare indietro il prima possibile senza provocare uno scandalo. A forza di meditare sugli ordini ricevuti, Gian Andrea si era persuaso che il re voleva soltanto dare soddisfazione al papa e ai veneziani «nell’apparenza», ma purtroppo Filippo aveva dimenticato di ordinargli in modo formale di rientrare per la fine di settembre, «parendomi che partendo di qui alli XII di agosto malamente possa tornar prima». Il Doria aveva subito scritto a corte per ottenere quell’ordine, ma era impossibile che il corriere ritornasse in tempo, e Gian Andrea chiedeva consiglio al viceré sul modo migliore «per tornar di qua presto»: a costo, magari, di confessare tutto al Colonna e spiegargli che se voleva conservarsi il favore del re quell’ordine doveva darglielo lui14.

Nel seguito della lettera si scopre che se il Doria ci teneva tanto a tornare presto, è perché non aveva perduto la speranza di attaccare all’improvviso Tunisi e impadronirsene prima dell’inverno, con grandissimo vantaggio del re. La logistica di questa impresa venne discussa in dettaglio col viceré di Sicilia. Il problema principale era di trovar pronta, al suo ritorno, fanteria a sufficienza, «perché quella ch’è su queste galee... Vostra Eccellenza creda che prima che torni sarà mezza disfatta». L’ideale era che il viceré di Napoli mettesse a disposizione la sua fanteria tedesca, ma a costui il Doria non osava confidare i suoi disegni, perché era in cattivi rapporti con lui15 («il duca di Alcalá è più strano huomo di quel che Vostra Eccellenza può imaginarsi et con me sta malissimo»), sicché si rimetteva al giudizio del marchese di Pescara e alla sua capacità di ottenere dal re gli ordini necessari: quanto a lui, teneva così tanto all’impresa di Tunisi che era capace di prendervi parte «con una picca in collo», da fantaccino semplice16.

«Io parto fra due hore» aggiunse il Doria in un poscritto malinconico. Più ci pensava, più gli sembrava improbabile che il Colonna, compiaciuto com’era della sua nomina al comando della flotta e «havendo voglia di vedersi durar questo carico», accettasse di lasciarlo tornare indietro, e anche sperare che il viceré di Napoli si assumesse la responsabilità di richiamarlo, «a mio parere, è tempo perso». Ma Gian Andrea non voleva nemmeno perdere completamente la faccia, e non poteva nascondersi che sarebbe stato molto difficile trovare un pretesto per tornare indietro senza ordini. «S’io fossi stato là un mese o più, non mi mancaria forma di incaminarla con dir che le galee non hanno da magnare et che sono mal in essere per le malatie et travaglio et molt’altre cose, ma di primo introito andar allegando queste cose non intrano né quadrano». «Vostra Eccellenza et io siamo in un gran laberinto», concludeva mestamente.

Una volta partito, invece di andare direttamente a Otranto Gian Andrea deviò verso Taranto e vi fece tappa «per pigliar soldati»; da lì scrisse al Colonna per giustificare il suo ritardo, allegando fra l’altro i venti contrari e garantendogli, con faccia tosta, che a dispetto di tutto «non si perde tempo»17. Quando finalmente ebbe luogo, il 21 agosto, l’incontro fra i due ammiragli non fu esattamente fraterno. Secondo la versione di Marcantonio, il Doria si dimostrò estremamente maleducato: «né la notte del suo arrivo, né il dimane fu a visitarmi nella galea ancorata in porto», e fu il Colonna a sacrificare il punto d’onore per il bene della causa, andando a trovarlo nella sua galera. Per ammorbidire il Doria Marcantonio gli fece tributare onori da generale: a rigore non gli spettavano, giacché non comandava tutta la flotta del re di Spagna ma soltanto una squadra distaccata, ma tutti sapevano che l’ambizione divorante del Doria era d’essere «un Capitano Generale di mare, ch’era il fine mio in questa vita», come confessò egli stesso in vecchiaia. Il Colonna lo invitò a consiglio, e non tardò a scoprire con irritazione che il collega era pochissimo incline all’azione, e considerava quanto mai improbabile che la flotta potesse spingersi così a Levante da conseguire qualche successo («il signor Giannandrea Doria fa molta difficoltà, non solo di passar Candia, ma di arrivarci»). Marcantonio, inquieto, cercò di scoprire se il genovese aveva «qualche ordine particolare di Sua Maestà», ma l’altro tenne la bocca chiusa; alla fine, comunque, il Colonna lo persuase ad acconsentire «alla gita in Candia»18.

In una lettera scritta da Otranto al viceré di Sicilia il 22 agosto, subito dopo il consiglio di guerra, Gian Andrea raccontò la stessa storia dal punto di vista opposto. Il Colonna s’era dimostrato impermeabile al buon senso, aveva in capo soltanto l’urgenza di correre in soccorso dei veneziani e non c’era speranza di renderlo ragionevole: «ho trovato Marcantonio tanto risoluto di volare che poco servirà tutto quello li potrò dire». Indovinando gli umori del suo interlocutore, l’ammiraglio pontificio non aveva parlato apertamente di spingersi fino alle acque di Cipro e attaccare la flotta nemica, ma il Doria era sicuro che l’intenzione era quella: «sta risoluto, a mio parere, di andar in Cipri, se ben hora non tratta salvo de Candia per dove partiremo hora». Il genovese si rendeva conto che salpando verso Levante si allontanava sempre più dal corriere che doveva portargli il famoso ordine di rientro, ma ormai era deciso a farne anche a meno. La sola cosa che gli importava era «di trovar via per potermene tornar», unico modo a suo giudizio «di conservar questa armata» anziché metterla follemente a repentaglio come stava per fare il Colonna: e per questo Gian Andrea era disposto a sacrificare anche il proprio onore, lasciando che il mondo lo sospettasse di aver avuto paura di affrontare la battaglia19.

Negli ambienti vaticani, che ci aspetteremmo di trovare meno ingenui, ci si facevano strane illusioni sulla buona volontà del Doria, segno forse che il candore e l’entusiasmo di Pio V contagiavano chi gli stava vicino. «È infine giunto l’ordine del re di Spagna al signor Gian Andrea Doria di andare a unirsi alle galere del papa e dei veneziani, e l’opinione comune è che partirà in tutta diligenza», scriveva il 14 agosto il cardinal di Rambouillet; salvo poi aggiungere, a margine: «ma c’è anche chi pensa che non avrà tanta fretta di andare, per la competizione che potrebbe esserci fra il signor Marcantonio Colonna e lui». Il nunzio Facchinetti non era fra questi scettici, anzi credeva addirittura che il Doria sarebbe stato ben contento di trovarsi subordinato al Colonna, e «obedirà esso più volentieri che altro; onde da così buona intelligenza non si può aspettar se non gran frutto al servitio publico».

Alla fine di agosto, l’ottimismo romano venne bruscamente raffreddato dalla «notizia che abbiamo avuto oggi, e che è purtroppo vera, che venti galeotte dell’Usciolì saccheggiano tutta la spiaggia romana, e ieri sono venute a correre fino a Nettuno e a Polidoro, che non è se non a 12 o 15 miglia da qui, dove hanno preso tutte le anime che hanno voluto». Ora che le galere del Re Cattolico erano lontane, l’Italia era indifesa davanti alle scorrerie di Uluç Alì, «che gli sarà facile continuare, perché essendo partito il signor Gian Andrea Doria non c’è niente che glielo impedisca», notava il Rambouillet. Anche nell’Adriatico, del resto, dopo che la flotta veneziana si era spinta a Levante i corsari si erano fatti improvvisamente più minacciosi: «di Romagna vengono avisi che le fuste vanno attorno a quelle marine con molto danno de’ poveri naviganti», annotava il cardinal Rusticucci. Ma i vantaggi che a Roma ci si augurava dall’impresa valevano bene questi inconvenienti20.

Salpate da Otranto il 22 agosto, le 49 galere del re e le 12 del papa fecero scalo a Cefalonia, dove vennero rifornite di rematori e provviste. Il 30 agosto si sparse a Candia la notizia che da occidente sopraggiungeva una flotta; lo Zane mandò il Quirini a investigare, e seppe che le galere del re e del papa erano in arrivo. Tempo dopo, il Doria si vantò col Colonna che il merito di quel viaggio prospero e veloce era tutto suo, giacché l’itinerario da lui suggerito aveva permesso di evitare che i turchi li intercettassero. Come se non bastasse, Gian Andrea affermò che in quell’occasione «non hebbi nessun rispetto circa il travagliar le mie ciurme più del dovere», tanto era lo zelo con cui desiderava eseguire gli ordini del re, e in verità parecchie delle galere papali, armate con gente poco allenata, si erano trovate con i rematori così esausti che i genovesi avevano dovuto prenderle a rimorchio. Il Colonna, nel suo rapporto al re, non negò i fatti, ma ne diede una valutazione ben diversa: il Doria, scrisse Marcantonio, si comportava come se il comandante fosse lui, ed era ossessionato dal timore che i turchi li scoprissero, sicché volle fare un giro così largo che rischiò di mancare l’approdo a Creta; ma Marcantonio, sempre pensando alla causa più che al punto d’onore, ebbe l’umiltà di non accorgersi di nulla, «e tutto fecesi a talento di Giovann’Andrea»21.

Il 31 agosto, comunque, le 61 galere entrarono nella baia di Suda, e il generale veneziano venne loro incontro in gran pompa, accompagnandole in porto fra le rituali salve d’artiglieria. Quella sera si rischiò il primo incidente diplomatico, perché lo Zane non voleva andare a salutare il Doria, argomentando, anche lui, che l’altro non era generale; ci volle tutta l’abilità diplomatica del Colonna per convincerlo che andandoci non avrebbe reso omaggio a Gian Andrea, ma alla bandiera del re. Dopo questo inizio poco promettente, il 1° settembre i comandanti cristiani tennero il primo consiglio di guerra. Il generale veneziano riferì quel che sapeva, che non era incoraggiante: pochi giorni prima Marco Quirini era tornato dalla sua ricognizione e aveva assicurato che la flotta nemica era a Cipro, e la galera di Francesco Tron, partita un mese e mezzo prima da Famagosta, aveva portato la notizia che l’esercito di Lala Mustafà era sbarcato indisturbato alle Saline.

A Roma si pensava che data la stagione ormai così avanzata, il piano dello Zane fosse di attendere la flotta del sultano nell’Arcipelago per sbarrarle la via del ritorno, e costringerla o ad accettare battaglia, o almeno a svernare fuori da Costantinopoli. Lo Zúñiga ammetteva che in quel modo la flotta nemica sarebbe risultata indebolita al momento di «uscire nell’anno che viene», ma per mantenere il blocco, anche le flotte cristiane avrebbero dovuto svernare nel Levante, e almeno per la squadra spagnola quella prospettiva era decisamente troppo pericolosa. Ma in realtà lo Zane aveva ancora tutte le intenzioni di spingersi nelle acque di Cipro per dare battaglia, sapendo – come scrisse poi il Contarini – che se avesse battuto la flotta nemica la guerra era vinta «con morte certa di tutti quelli che s’attrovassero all’assedio di Nicosia». Proprio questo fu il piano che il generale veneziano propose agli alleati: gli ultimi ordini che aveva ricevuto da Venezia, spediti alla fine di luglio, gli imponevano di attaccare e distruggere la flotta nemica, perciò adesso che tutti erano arrivati non restava altro da fare se non salpare verso Levante22.

Secondo quanto lui stesso racconta, anche il Doria negli incontri di quei giorni insisté perché si salpasse subito per Cipro, sottolineando che col tempo favorevole il viaggio si poteva fare in sei o otto giorni. Ma in realtà l’ammiraglio del Re Cattolico aveva già trovato il pretesto che gli avrebbe consentito di rallentare la partenza e di ritornare indietro alla prima occasione senza perdere la faccia; e cioè il cattivo stato in cui si trovavano le galere dello Zane, dopo che il tifo aveva fatto strage fra i loro equipaggi. Già ad Otranto Gian Andrea ne aveva parlato al Colonna, fingendo di dolersi delle perdite veneziane «come di comune disgratia»; arrivato a Creta, non trovò niente che gli facesse cambiare idea, e già nel primo consiglio di guerra si disse preoccupato «dil mancamento delle genti che era nella venetiana, che era notabilissimo». Il Doria era così ansioso di far leva su questo argomento che non esitò a scoprire le sue carte, rivelando che gli ordini del re si concludevano col famoso poscritto «di sua mano propria», in cui Filippo gli raccomandava di valutare bene le condizioni della flotta veneziana23.

Gian Andrea stava giocando una partita straordinariamente difficile. Nemmeno i suoi subordinati spagnoli, il marchese di Santa Cruz e don Juan de Cardona, sapevano che la sua intenzione era di sabotare a tutti i costi la spedizione, e guai se qualcuno lo avesse indovinato. Per di più gli spagnoli, e in fondo lo stesso Doria, trovandosi in un porto veneziano e con gli occhi di tutto il mondo cristiano puntati addosso, erano ben decisi a mantenere alta la propria reputazione. Il clima di competizione che s’era subito creato all’incontro fra tutti quegli uomini di mare è reso vividamente da una lettera del Santa Cruz, spedita da Suda il 5 settembre. I veneziani, scrive il marchese, «erano persuasi che non ci fossero galere più leggere e più leste delle loro», per cui all’arrivo delle squadre ponentine avevano mandato loro incontro Marco Quirini con alcune galere «scelte e armate apposta fra tutte le loro, e quella notte proposero di fare una regata». La galera del Quirini si affiancò a quella del Santa Cruz «per gareggiare con me», e all’inizio parve che riuscisse a distaccare la galera spagnola; ma alla distanza, riferisce il marchese con enorme soddisfazione, «l’abbiamo sorpassata e lasciata indietro di cinque o sei lunghezze; e poi li abbiamo aspettati e sono arrivati spompati». Si può immaginare la scarsa soddisfazione delle ciurme costrette a questi sforzi, anche se i comandanti avranno ricompensato i loro galeotti con una distribuzione straordinaria di vino; ma nei rapporti fra alleati la propaganda e l’immagine erano faccende importanti, allora come in epoche più vicine a noi.

Gli incontri fra i comandanti erano improntati a cerimoniosa cortesia, com’era inevitabile fra gentiluomini del Cinquecento, anche se poi gli uni e gli altri si studiavano con diffidenza. «Il generale ha un vestito di taffettà cremisi con cappuccio della stessa stoffa, e calze rosse in tinta unita, e ha settantaquattro anni, e il capitano del Golfo e quello delle galere e il provveditore portano tutti lo stesso abito», scrive il Santa Cruz, poco impressionato dalla divisa scarlatta dei comandanti veneziani. «Il generale sembra un gran brav’uomo e tutti usano con noi grande cortesia e profferte, e assomigliano in pieno ai Pantaloni della commedia», conclude malignamente il nobiluomo castigliano. In mezzo a tutte queste cerimonie, don Álvaro era pieno di zelo per l’impresa, e orgoglioso di riferire che l’ultimo consiglio di guerra aveva deciso di partire appena possibile per sfidare il nemico, sicché in patria si poteva attendere «la notizia del risultato della battaglia, se la flotta del Turco ci aspetta, e piacendo a Dio ho fiducia che sarà molto buono».

La decisione di salpare significava che lo Zane era riuscito a controbattere l’unica carta giocata dal Doria, e cioè l’insufficienza dei suoi equipaggi. Di questo problema anche il Santa Cruz era consapevole: quanto a salute, scriveva, la flotta veneziana ne ha avuta poca, «e dicono che gli è morta molta gente». Don Álvaro era favorevolmente impressionato dalla loro determinazione, «perché con tutto questo sono molto di buon animo e risoluti che si vada a cercare la flotta del Turco a Cipro», però non poteva fare a meno di nutrire qualche dubbio: «non so se i veneziani potranno portare il numero di gente di guerra che è necessaria per la giornata che ci attende». Ma quando nei consigli venne posta questa obiezione, lo Zane rispose garantendo che con la gente reclutata a Candia avrebbe avuto cento uomini di spada per galera, senza contare i marinai. A questo punto, gli spagnoli non potevano insistere oltre senza rischiare un incidente diplomatico; perciò fu deciso che le flotte sarebbero salpate da Suda appena possibile, e intanto si spedirono due galere verso Cipro «per haver spia», al comando dell’inevitabile Marco Quirini24.

In cuor suo, Gian Andrea era sempre più furibondo. Costretto a ostentare pubblicamente il massimo zelo per la causa, non era riuscito a orientare la discussione nel senso che avrebbe sperato, anche perché lo Zane portava con sé ai consigli di guerra Sforza Pallavicino e i provveditori Celsi e Canal, col pretesto che i suoi ordini lo vincolavano ad ascoltare il loro parere; il risultato, però, è che i veneziani intorno al tavolo erano i più numerosi e parlavano soprattutto loro. Ritornando dal primo consiglio, il Doria e il Colonna, membri di due fra le più grandi famiglie principesche italiane, debbono aver scherzato sulla seriosità con cui i patrizi veneziani si davano l’un l’altro del “magnifico”; l’indomani, però, Gian Andrea osò comunicare i suoi dubbi a Marcantonio, cui pure di solito teneva ben nascosti i suoi veri sentimenti: «mi par che li magnifici vogliono haver un gran vantaggio a tener in Consiglio più persone che gli altri».

In verità noi sappiamo che anche il Pallavicino e il Celsi avevano i loro dubbi sull’opportunità di andare a Cipro con le galere così a corto di rematori e soldati: ma di fronte agli alleati, evidentemente, i veneziani nascondevano le loro divergenze. Quando il consiglio si riunì di nuovo, il Doria giocò un’altra carta di quelle che s’era preparato da tempo, rivelando che sulle sue galere c’era biscotto al massimo fino al 10 o 12 ottobre; ma lo Zane replicò cortesemente che i veneziani avevano biscotto in abbondanza, e sarebbero stati felicissimi di dividerlo con lui. Vedendo che non c’era altro da fare, il Doria volle dimostrare agli alleati che era più bravo di loro, e riuscì a far spalmare le sue galere in soli due giorni, come dovette ammettere a denti stretti lo stesso Colonna; sicché il 5 settembre il Santa Cruz poteva scrivere con soddisfazione: «non sarà colpa nostra se non si parte, perché sono tre giorni che abbiamo spalmato e li stiamo aspettando». I turchi, però, erano già sbarcati a Cipro da due mesi25.