30. Dove l’archibugeria cristiana arresta l’impeto dei nemici, la fanteria va all’arrembaggio, la flotta del sultano è sbaragliata e il kapudan pascià ucciso, mentre Uluç Alì se la cava ancora una volta
Mezzo accecate dal fumo dei cannoni, le galere cozzarono le une contro le altre. La tattica di combattimento prevedeva che ogni vascello scegliesse il suo avversario e lo investisse, usando lo sperone non per colarlo a picco – giacché non era subacqueo ma alto sopra la prua – ma per far saltare i suoi remi e assorbire l’urto; dopodiché la fanteria imbarcata dava l’assalto alla galera nemica, cercando di conquistarla come se fosse stata una posizione terrestre. La potenza di fuoco degli archibugieri, l’efficacia nel corpo a corpo degli “uomini di spada”, l’esempio di sprezzo del pericolo dato dagli ufficiali, e naturalmente il peso brutale dei numeri, decidevano della conquista d’una galera; quando tutti i difensori erano stati fatti a pezzi o spinti in mare, le insegne erano ammainate dagli alberi, gli schiavi alla catena liberati, la galera saccheggiata da cima a fondo, e poi assicurata con una gomena al vascello vittorioso, per essere rimorchiata come preda di guerra.
Mentre le due flotte si avvicinavano, il sole splendeva, come scrive un veneziano, su «gli elmi lucidi e i corsaletti dei nostri, gli scudi d’acciaio come specchi, e l’altre arme lucenti»; le spade vennero tratte dal fodero e brandite in faccia al nemico in segno di sfida. Ma assai più importante di quei gesti ancestrali era la preparazione dei tiratori scaglionati fra i banchi di voga, sulle piattaforme di legno che conservavano nel nome, “balestriere”, il ricordo di un’epoca in cui i fanti imbarcati erano armati di balestra. Se oggi potessimo vedere le galere dei due schieramenti che arrancavano le une verso le altre, ci accorgeremmo che sulle galere cristiane tutti i soldati così appostati erano armati di archibugi, mentre dall’altra parte c’era ancora un gran numero di arcieri. L’usanza turca era di organizzare i soldati imbarcati in squadre di tre uomini, chiamate manga, ciascuna delle quali comprendeva un archibugiere, un arciere e un soldato armato di lancia. Quest’ultimo a Lepanto apparentemente mancava, per la scarsità di uomini a bordo delle galere: Ferrante Caracciolo, che si trovava all’ala sinistra, ricorda che i turchi si schierarono «dalla poppa alla prua lungo la corsia con ordinanza a due archibugieri et arcieri per coppia». Erano bellissimi da vedere, aggiunge, «con quella diversità di turbanti, che portano in testa, e con l’habito, e con gli atti loro differenti da’ nostri». Ma non erano difesi dalle pavesate, che le loro galere non usavano montare, e perciò «erano dal capo a’ piedi berzaglio dell’archibugiate de Christiani»1.
Secondo il Caetani, i turchi «cominciarono con li loro gridi, archibugi e frezze a fare un gran impeto», ma dopo pochi istanti anche gli archibugieri cristiani aprirono il fuoco, con effetto devastante. «Li furono tutto in un tempo da tutti noi [...] sparato addosso da quarantamila archibugiate, che ne fece una mortalità grandissima». Per il comandante della fanteria imbarcata sulle galere pontificie, che si trovava al centro dello schieramento sulla Grifona, la battaglia venne vinta così: «essendosi di nuovo tornato a farli il medesimo saluto, e di continuo sparandoli addosso le nostre artiglierie, delle quali ne avevamo maggior numero, si cominciò a vedere, di poi l’essersi combattuto tre ore, la vittoria piegare alla volta nostra». Le relazioni spagnole confermano l’intensità del fuoco di sbarramento che arrestò l’impeto delle galere turche e ne decimò gli equipaggi: «ci fu qualche archibugiere che scaricò quaranta volte l’archibugio». L’immagine più efficace della superiorità di fuoco dei cristiani ce l’ha lasciata ancora il Caracciolo: «in questo si conosceva, quanto le nostre armi fussero più atte ad offendere di quelle de nimici, percioche l’archibugeria de Christiani in un tratto abbatteva quanto incontrava, né si vedeva altro de Turchi che la corsia netta, et alcune teste per sotto i banchi, dove erano ascosi, e di là tiravano alcune botte»2.
Alla tempesta di archibugiate e alla grandine di frecce si aggiunse il diluvio del fuoco greco, di cui le galere erano abbondantemente provviste3. Molti resoconti descrivono i fuochi volare nell’aria, «accesi con trombe, gettati con pignatte e altri diversi strumenti»; il Sereno li vide continuare a bruciare nell’acqua, senza che nulla potesse spegnerli, e sentì il tanfo del loro fumo acre e spesso. Nelle testimonianze dirette mancano quegli accenni all’efficacia terribile dei fuochi, agli uomini arsi vivi come candele, che si ritrovano continuamente nei resoconti degli assedi di Nicosia e Famagosta, e ci si può chiedere se, visto che le galere puntavano a incastrarsi le une nelle altre e la speranza di ciascuno era di catturare quella avversaria, l’uso delle armi incendiarie non sia stato consapevolmente limitato. Ma nella corrispondenza successiva alla battaglia sono frequenti gli accenni «a quelli che ne uscirono bruciati e maltrattati», fra cui don Juan de Cardona, che ebbe una gamba malamente ustionata, e Paolo Orsini, bruciato al collo e al fianco; i cappellani gesuiti riferiscono di aver usato il burro trovato a bordo delle galere nemiche «per ungere quelli che forno arsi dal fuoco che gittorno nelle nostre galere li Turchi»; per cui è chiaro che il fuoco greco venne usato senza risparmio4.
Le prime galere che giunsero al corpo a corpo furono quelle verso terra: il corno sinistro dei cristiani, composto in grande maggioranza di galere veneziane, e l’ala destra dello schieramento turco. Il provveditore Barbarigo, la cui galera serrava la fila a sinistra, non riuscì ad avvicinarsi abbastanza alle secche; sei o sette galere di Shuluq Mehmet e del corsaro Giaur Alì, che tiravano verso terra per sfuggire al fuoco delle galeazze, riuscirono a infilarsi fra la riva e i nemici, minacciando di prenderli alle spalle. «Ma noi fossimo così presti a serarli il passo» – riferisce il provveditore Antonio da Canal – che il tentativo fallì, anche se per un po’ i veneziani si trovarono messi alle strette. Diversi vascelli si voltarono per affrontare il nemico comparso dietro di loro; dalle galere turche partivano nugoli di frecce, tanto che il fanale di poppa del Barbarigo ne era tutto coperto, ma l’artiglieria e l’archibugeria delle galere cristiane ebbero lentamente il sopravvento. Dopo un’ora di combattimento, i vascelli dei due comandanti turchi vennero presi, e gli altri si sbandarono all’indietro, andando ad arenarsi per permettere agli equipaggi di mettersi in salvo a terra.
Qui si vide che combattere presso la costa amica rappresentava davvero uno svantaggio per i turchi, perché la tentazione di interrompere uno scontro impari spiaggiando i vascelli e salvandosi a terra era troppo forte. Il gruppo di galere penetrato alle spalle dello schieramento cristiano vi riuscì solo in parte, perché lo spazio era troppo limitato. Anziché raggiungere la spiaggia vennero sospinte contro lo scoglio di Villamarino, da dove era comunque possibile cercare di salvarsi a nuoto, perché i sedimenti del fiume avevano già in gran parte riempito il braccio di mare di lì alla costa, trasformandolo in una palude; le galere cristiane, però, incalzavano così da vicino che molti vennero uccisi prima di riuscire a buttarsi in acqua, o affogarono nella calca. Ma la tentazione di seguire quell’esempio si fece comunque sentire a bordo di molte galere dell’ala destra turca, quando gli equipaggi si resero conto della cattura dei primi legni impegnati e della schiacciante superiorità del fuoco nemico.
I veneziani e i napoletani del corno sinistro si trovarono così a dare l’assalto a galere allo sbando, dove non tutti erano convinti che valesse la pena di resistere, e si aprirono la strada a forza di spada; «urtavano, tagliavano e ammazzavano quanti se gli opponevano contra». Via via che gli attaccanti guadagnavano terreno, gli schiavi cristiani ai banchi di voga riuscivano a schiodare o spezzare le catene e si univano al combattimento; i cronisti notano che né loro né i veneziani facevano prigionieri, e solo chi si buttava in acqua aveva speranza di salvarsi. Oltre agli schiavi incatenati al remo, le galere erano cariche di donne catturate a Dulcigno, Budva e Antivari: il provveditore Canal riferisce di averne liberate moltissime. Alla fine tutte le galere superstiti dell’ala destra turca vennero ributtate verso terra. La galera grossa più vicina, al comando di Antonio Bragadin, fratello di Marcantonio, strinse verso la costa bombardando il nemico e sospingendolo verso le secche; i vascelli che formavano la destra del corno sinistro, al comando di Marco Quirini, piegarono anch’essi nella medesima direzione, chiudendo le galere nemiche in uno specchio d’acqua sempre più ristretto, in una mattanza cui gli equipaggi poterono sfuggire soltanto abbandonando i loro legni e cercando scampo a terra. Lì, però, non tutti si salvarono, perché gli abitanti greci allertati aggredivano i gruppi isolati e li massacravano.
Due giorni dopo la battaglia, un Caetani particolarmente entusiasta riassumeva così il combattimento in quel settore:
Li Signori Veneziani hanno combattuto miracolosamente, e li loro scapoli e remieri di buonavoglia hanno combattuto così bene come qualsivoglia soldato, e sopra tutto con l’artiglieria hanno fatto danno notabile. Il clarissimo Agostino Barbarico, con la squadra del corno sinistro che era di cinquantasei galere veneziane, avendo combattuto con cinquantasei galere nemiche ne ha preso cinquantaquattro: e di qua si può conoscere se Veneziani in mare combattono.
Ma nel pieno dell’azione il Barbarigo, che teneva la celata alzata per farsi sentire dai suoi uomini e si riparava dalle frecce con uno scudo, lo abbassò per gridare un ordine, e una freccia gli si conficcò in un occhio; venne trasportato sotto coperta ancora cosciente, ma aveva perso la parola, e morì due giorni dopo5.
Lo scontro dalla parte di terra era già in corso da un pezzo quando il centro dei due schieramenti arrivò a cozzare. La galera Real aveva alla sua destra quella del Colonna, alla sinistra quella del Venier: tutt’e tre erano bastarde con molti più soldati e più cannoni rispetto alle normali galere sottili, e vogavano lentamente, per mantenere l’allineamento delle altre galere e per non stancare i rematori, che erano già stati armati in vista del combattimento. La galera del kapudan pascià era al centro dello schieramento avversario: era anch’essa una bastarda carica di gente, con cinque rematori per banco, tutti schiavi di Alì dai muscoli ben sviluppati, e ben presto si vide che staccava le altre galere «quasi per ispazio d’un’archibusata», vogando all’arrancata. Prima parve che volesse speronare la galera del Venier, riconoscibile dall’immenso gonfalone rosso col leone di San Marco; all’ultimo, però, riconobbe la Real e andò a urtare contro di essa, mentre il Venier, che aveva fatto volgere lo sperone contro la capitana nemica, andava a conficcarlo nella sua poppa.
O almeno, questo è quello che raccontano i veneziani, perché il Caetani, che non era lontano, sostiene che il kapudan pascià si era diretto piuttosto contro la galera del Colonna, prima di virare all’ultimo momento e investire quella di don Juan, e che fu quindi la Capitana del papa a speronare sul fianco («al fogone», cioè dove si trovava la cucina) la bastarda di Alì, mentre l’altra poderosa bastarda con le insegne di Perteu pascià investiva sull’altro fianco («allo schifo», dove cioè stava la scialuppa) la galera di Marcantonio. Altri resoconti mettono d’accordo le due versioni sostenendo che la galera del capitano del mare giunse di traverso e fu investita da tutt’e tre le Capitane cristiane, il che, se fosse vero, dimostrerebbe una sorprendente goffaggine nella manovra del vascello ottomano.
In ogni caso, la galera di Alì si trovò subito in una situazione sfavorevole. I soldati della galera che l’aveva investita, «saliti tosto sul legno nimico, abbatterono prestamente coloro ch’erano dalla parte verso la poppa». A loro volta, i fanti spagnoli della Real, «tirando continuo con maravigliosa prestezza gli archibusi», abbatterono sul posto tutti i turchi che si erano buttati all’arrembaggio ed erano saltati nella galera di don Juan. Bloccati dal fuoco di sbarramento degli spagnoli e attaccati alle spalle, gli uomini del kapudan pascià non avevano scampo; tuttavia lo scontro durò a lungo, con la fanteria spagnola che più volte avanzò fino all’albero della galera nemica per poi essere respinta dal fuoco dei giannizzeri. Alla fine, un’altra galera spagnola venne a investire la Capitana di Alì a poppa, spazzandola con tutta la sua potenza di fuoco; allora don Lope de Figueroa, che comandava la fanteria imbarcata sulla Real, mandò di nuovo i suoi soldati all’abbordaggio, e stavolta la resistenza crollò. Alì cadde combattendo, e la sua testa tagliata fu issata su una picca, perché tutti potessero vederla; don Juan, che si trovava con la spada sguainata al suo posto di comando a poppa della Real, informato che la galera nemica era presa ordinò di gridare «Vittoria!», e il grido si propagò a tutte le galere vicine6.
Tutt’intorno alle galere dei comandanti in capo incastrate le une nelle altre lo scontro infuriò particolarmente violento. Erano concentrate lì la maggior parte delle Capitane cristiane, cariche di soldati e di gentiluomini, fra cui la Capitana di Genova con a bordo il principe di Parma, la Capitana di Savoia con il principe di Urbino, la Capitana dei Lomellini con Paolo Giordano Orsini, capo della famiglia Orsini e genero del granduca di Toscana, la Capitana del Requesens. A loro volta, i turchi oltre alle bastarde di Alì e di Perteu avevano al centro molte galere di fanò e galeotte di corsari famosi, col maggior contingente di giannizzeri e quindi di archibugi. Tutti i comandanti cristiani senza eccezione affermano nei rapporti che la loro galera fu investita da diverse galere nemiche e combatté in condizioni di inferiorità numerica, il che finisce per apparire alquanto improbabile. La galera del Colonna e quella del Venier, mentre erano impegnate contro la bastarda del kapudan pascià, ebbero a che fare ciascuna con diverse altre galere. La Capitana di Genova «fu assaltata prima dalla galera del scrivan de ratione seconda galera dell’armata», e poi «ne vennero altre tre adosso». La Capitana di Savoia urtò una galera, e fu investita da un’altra «al luoco del schiffo, a tal che per un pezzo ne bisognò combattere contra due, non senza danno, et perdita di molti uomini da bene». La Grifona del papa, con a bordo il Caetani e il Sereno, venne investita dalle galeotte di Kara Hogia e di un altro corsaro, Deli rais, una alla prua e l’altra al fogone; «e fu tanto il rumore delle cannonate nel principio, che non si potrà mai immaginare né scrivere», osserva il Caetani7.
La mischia rimase per un po’ indecisa, e nella tempesta di frecce e di archibugiate non mancarono i casi di vigliaccheria, che il Sereno non si fece poi scrupolo di raccontare, sia pure senza far nomi: da quel soldato che si dava arie di veterano, e che si trincerò a poppa dietro una barricata di materassi, a quel gentiluomo che «fingendo d’aver avuto una archibugiata in un occhio» si ritirò sotto coperta, e tornato a Roma continuò poi per tre mesi a fingere di curarsi, «quell’occhio sanissimo portando coperto alla brava». Altri cavalieri dimostrarono di saper affrontare il pericolo, come il giovanissimo nipote del papa, Michele Bonelli, che rimase impavido al suo posto tirando coll’archibugio, fino a quando una cannonata non spappolò la testa al maggiordomo del Colonna, che si trovava al suo fianco, imbrattandolo da capo a piedi di sangue e di materia cerebrale; dopodiché anche il ragazzino ne ebbe abbastanza8.
Ma quasi subito, alle spalle dei cristiani sopraggiunsero le galere del “soccorso” al comando del marchese di Santa Cruz, raddoppiando la pressione sul nemico. Due di quelle galere erano veneziane, e si diressero immediatamente in aiuto della Capitana del Venier; i loro sopracomiti, Giovanni Loredan e Cattarin Malipiero, vennero entrambi abbattuti dalle archibugiate dei giannizzeri, ma l’impeto delle loro galere fece traboccare la bilancia a favore dei cristiani. La Malipiera e la Capitana dei Lomellini catturarono la galera di Perteu pascià, il quale, prima che fosse troppo tardi, s’imbarcò su una fregata e scampò in terraferma. La Loredana venne in soccorso della Grifona, che aveva già catturato una delle due galeotte corsare, e col suo aiuto il Caetani prese anche quella di Kara Hogia. Il corsaro che aveva dato tanto filo da torcere ai cristiani venne ucciso nella mischia, ed ebbe diritto a un asciutto epitaffio in una lettera del Caetani: «Caracozza l’ammazzò Giambattista Contusio con una archibugiata, e nell’una e nell’altra non restarono se non sei turchi vivi». Il Santa Cruz con la sua Capitana sbarrò la strada a una galera turca che stava per investire a poppa la Real, «e non se ne allontanò finché non ci entrò dentro e sgozzò tutti quelli che c’erano». Le Capitane di Savoia e di Genova, coll’aiuto di altre galere fresche del Santa Cruz, presero ciascuna la galera con cui s’erano scontrate, la Capitana di Venezia prese un fanale e una galeotta, «e così ogni galera si pigliò la sua». Mentre sulle galere di Alì e di Perteu i fanti spagnoli calavano esultanti gli stendardi, sferravano gli schiavi e saccheggiavano le cabine, il centro dello schieramento turco cedette e molte galere volsero le prue per cercare di fuggire9.
A quel punto, però, le galere veneziane del corno sinistro avevano già chiuso la partita coi loro avversari, preso a rimorchio le galere catturate, e riempiti i vuoti sui banchi dei galeotti incatenando seduta stante i turchi fatti prigionieri, per cui i comandanti più bellicosi stavano già volgendo le prue verso il centro. Le galere turche che cercavano di ripiegare vennero intercettate e in gran parte catturate o inseguite finché non finirono ad arenarsi sulla spiaggia «con molta stragie di quei cani», come riferisce con feroce esultanza Marco Quirini. Lo stesso Quirini, Gabriele da Canal detto il Canaletto e Niccolò Lippomano, che ne avevano già presa una a testa, ne catturarono un’altra ciascuno, «che era cosa bella a vedere tutti tre loro rimurchiarsi driedo doi galere per uno»10.
L’unico settore in cui le cose andarono molto diversamente fu l’ala sinistra dei turchi, dove Uluç Alì dimostrò di saperla più lunga di Gian Andrea. Il corno destro cristiano si era allargato verso il mare aperto, e il sospetto che conducendo le sue galere così al largo l’intenzione dell’ammiraglio genovese fosse soprattutto quella di risparmiarle evitando il combattimento circolò nella flotta già all’indomani della battaglia, per non dissiparsi più fino ad oggi. Poco più di due mesi dopo Lepanto, papa Pio V consigliò a Filippo II di comprare una buona volta le galere di Gian Andrea, se voleva potersene servire: il Doria – osservò acidamente Sua Santità – «per quanto s’intende si sarebbe potuto portar meglio nella giornata, et pare che habbia atteso più a conservarsi, che a offendere il nemico, et che voglia sempre nelle fattioni il corno destro, cioè la banda del mare per poter esser più libero di fuggire». Con l’ambasciatore veneziano il papa diede di Gian Andrea un giudizio ancora più crudo: «bisogna che si lasci costui, perché è corsaro et non soldato»11.
In realtà, almeno qualche testimone attribuisce a Gian Andrea motivazioni più nobili. Prima della battaglia il Requesens percorse a bordo di una fregata tutta la metà destra dello schieramento, dalla Real fino alla Capitana del Doria che serrava la fila, per verificare l’ordine e parlare con i comandanti. Gian Andrea gli disse che si era allargato per lasciare più spazio a tutta la flotta, osservò che il tratto di mare fino alla costa gli pareva troppo poco per così tanti legni, e si lamentò che le galere del suo corno non si tenevano così vicine a lui come avrebbero dovuto. Don Luis è incline a credere che non sia stata colpa sua se all’interno dello schieramento finirono per aprirsi dei vuoti, e non è d’accordo con chi fa maliziosamente notare che la galera del Doria non aveva subito troppi danni durante la battaglia, «perché come disse al duca d’Alba, quando si perse Volpiano, un capitano italiano che aveva combattuto molto bene e ne uscì sano, non si può morire a dispetto di Dio»12.
Il Sereno, da parte sua, rileva che l’ala sinistra nemica aveva più vascelli del Doria, per cui il genovese non aveva sbagliato ad allargarsi, evitando d’essere aggirato sul fianco. Di fronte a lui, però, Uluç Alì manovrò altrettanto abilmente, e le galere del genovese per non essere sopraffatte finirono per spingersi troppo al largo, aprendo un varco sempre più ampio tra sé e la “battaglia” centrale. A questo punto, lo schieramento del corno destro cominciò a sfilacciarsi: molte galere rimasero indietro, faticando a seguire il fanale del Doria che continuava a tirare verso il mare aperto. Secondo il Sereno alcune lasciarono la formazione apposta, perché i comandanti disobbedirono ai segnali dell’ammiraglio e si diressero verso il centro di propria iniziativa «per aver parte nella vittoria, non come quelli che stavano a vedere, ma come quelli che menavan le mani». Ma davanti a loro c’era Uluç Alì. Vedendo che le altre galere di Gian Andrea erano ormai lontane, e indovinando «nel Doria poca voglia di andarlo a trovare», l’algerino serrò al centro e colpì fulmineamente quel gruppo di vascelli isolati.
Le galere cristiane vennero travolte dall’attacco, investite ciascuna da due, tre, e anche quattro vascelli nemici, mentre altri passavano in mezzo e le attaccavano da poppa. Gli equipaggi si difesero fino all’ultimo, vendendo cara la pelle – morì in questo scontro, fra gli altri, il corsaro Karagia Alì – ma alla fine vennero tagliati a pezzi, come stava accadendo, altrove, a quelli turchi. I resoconti veneziani non nascondono l’ammirazione per la manovra di Uluç Alì, che volteggiava intorno al nemico «sentendosi di poter far fare alla sua galea quello che sappia un cavaliero ad un cavallo da maneggio», mentre Gian Andrea Doria stava ancora faticosamente ruotando la sua squadra attorno all’ultima delle galeazze, la Pisana, col proposito ormai superato dagli eventi di portarsi alle spalle del nemico, e dovette assistere impotente al macello13.
Una di quelle galere era la Piemontesa, la quale, riferisce dolente il Provana al suo duca, fu investita da tre galere, una a prua e due di lato,
in modo tale che non ostante che habbino combattuto tutti, tanto li huomini da cavo quanto la ciurma, molto virilmente et diffesisi per più di un’hora, alfine non havendo soccorso alcuno li saltorono dentro, et hanno menato tutto a fil di spada, in modo che non sono rimasti vivi in detta galera tra di ciurma tra huomini da cavo, salvo dodeci persone.
Segue un lungo elenco di nobili piemontesi e di militari e marinai periti nel disastro, a partire dal comandante della Piemontesa, Ottaviano Moretto; «tal che possiamo dire, che questa vittoria sia stata ben sanguinosa ed infelice per noi»14. Anche due delle galere che il granduca di Toscana aveva regalato ai cavalieri di Santo Stefano vennero coinvolte nella rovina. Sulla S. Giovanni caddero tutti i soldati e i forzati, mentre il capitano sopravvisse ferito gravemente da due archibugiate. Sulla Fiorenza, attaccata da una galera e sei galeotte, morirono tutti tranne sedici uomini, troppo gravemente feriti per poter manovrare il vascello. La galera, trascinata alla deriva, sopravvisse alla burrasca di quella notte e il giorno dopo fu avvistata da una fregata cristiana che la condusse fino a porto Petalà, dove si constatò che il recupero era impossibile e si preferì bruciarla. La Fiorenza fu l’unica galera cristiana completamente distrutta a Lepanto, insieme con quella veneziana del sopracomito Benedetto Soranzo, che fu vista esplodere e affondare in fiamme; secondo le voci subito diffuse tra i cristiani, il Soranzo, rimasto unico superstite a bordo della galera ormai invasa dagli uomini di Uluç Alì avrebbe dato fuoco alle polveri, perendo nell’esplosione insieme ai nemici15.
Quando si resero conto di quello che stava succedendo, tanto le galere vittoriose del corno sinistro e del centro cristiano, quanto quelle di Gian Andrea Doria cominciarono a dirigersi verso il luogo dello scontro. Per fare più in fretta, molte tagliarono i cavi con cui rimorchiavano le galere già catturate, cosa che provocò più tardi non poche recriminazioni per la divisione del bottino. Anche così, però, le galere si muovevano a fatica: molti rematori erano stati uccisi o feriti, quelli sferrati si erano in gran parte dispersi, i remi erano stati spezzati o perduti durante il combattimento. Gli algerini, sopraffatte e prese a rimorchio le prime galere incontrate, si spinsero avanti per approfittare del varco finché era ancora aperto. La Capitana di Malta, che era l’ultima galera a destra dello squadrone centrale, fu investita in pieno e abbordata da forze preponderanti; secondo i resoconti circolati in Occidente l’equipaggio si fece uccidere eroicamente fino all’ultimo uomo. Il rais che saltò a bordo per primo trovò solo due feriti, fra cui il generale fra Pietro Giustinian, al quale promise salva la vita, perché in passato era stato suo schiavo a Malta; quando volle scendere sotto coperta, il generale «gli disse che c’erano soltanto dei morti». Un ordine del sultano a Hasan pascià racconta una storia parzialmente diversa:
Nel corso della battaglia che ha avuto luogo durante la recente spedizione navale, i soldati sono entrati nella bastarda del capitano di Malta che è stata presa da Alì, beylerbey di Algeri – che la sua prosperità sussista! Dopo la conquista, i cristiani, per paura della sciabola, si sono gettati in acqua. Sei schiavi e trenta o quaranta dei soldati cristiani sono stati imbarcati sulla tua nave e su quella di tuo figlio. Essendo stato informato che si trovano attualmente presso di voi, ordino di consegnarli allo Stato16.
Alcune galere del centro e della riserva al comando di don Juan de Cardona tentarono di tappare la falla che s’era aperta nello schieramento, ma anche stavolta Uluç Alì manovrò meglio dei comandanti cristiani e riuscì a sopraffarle una alla volta. In questo nuovo disastro venne ferito gravemente il Cardona, che ebbe una gamba bruciata dal fuoco greco, e sterminato l’equipaggio della sua Capitana. Il massacro di tanti equipaggi e di tante compagnie di fanteria, che si sarebbe potuto evitare, lasciò un’impressione profonda sulla memoria immediata di Lepanto, come si constata osservando le mappe della battaglia pubblicate nei mesi seguenti: vi si trovano indicate, fra il corno destro e la battaglia reale, la Capitana di Malta, la Capitana e la Patrona di Sicilia, e la galera di Pandolfo Polidoro, che era poi la Capitana di Niccolò Doria, con la didascalia «nel trapassar di Occhialì tagliò queste galere a pezzi». In totale, come riferisce il Caracciolo, nell’attacco e poi nella fuga di Uluç Alì «furono tagliate a pezzi undici galee de Venetiani, una di Savoia, due di Sicilia, una del papa, nella quale morirono molti cavalieri della nuova Religione di Santo Stefano [...] una di Niccolò d’Oria, e tutti i legni si recuperarono, eccetto due, de quali l’uno andò a fondo, e l’altro fu abbruciato»17. Il tardivo accorrere di Gian Andrea Doria, dello stesso don Juan e di altri comandanti cristiani non bastò a salvare gli equipaggi delle galere, ma permise almeno di recuperare gli scafi, che gli algerini, per non rischiare di farsi raggiungere, rinunciarono a rimorchiare con sé; tranne l’Aquila di messer Piero Bua, una delle tre galere veneziane armate a Corfù, che fu l’unico legno cristiano catturato nella battaglia. Attraversato il varco, Uluç Alì spiegò le vele e si dileguò in mare aperto, portando con sé gli schiavi musulmani liberati sulla Capitana di Malta e il grande stendardo dell’Ordine, una preda ambitissima che avrebbe giovato non poco alla sua futura carriera. I soldati spagnoli abbordarono la bastarda maltese alla deriva, dov’erano rimasti soltanto pochi feriti fra cui il Giustinian, e la saccheggiarono «come se fusse stata de nimici»; ma dopo il saccheggio operato dai turchi non doveva essere rimasto molto, se è vero, come si disse, che fra Pietro si era salvato la vita consegnando ai corsari denaro e argenteria18.
Nel complesso, comunque, anche quest’azione separata si concluse col successo dei cristiani, giacché solo le galere e le galeotte algerine, con le loro ciurme di schiavi allenati e i loro rais professionisti, riuscirono a sfuggire alla morsa che si stava chiudendo; la maggior parte delle altre galere dell’ala sinistra turca, vedendo il nemico vittorioso che convergeva su di loro da tutte le parti, tentarono di tornare indietro, ma vennero inseguite e tagliate a pezzi. «I nemici cominciarono a fuggire e le nostre galere a sterminarli, tanto a cannonate quanto con l’archibugeria», scrisse al re don Luis de Requesens, che si trovava a fianco di don Juan sulla Real. All’inseguimento presero parte Gian Andrea, il marchese di Santa Cruz e don Juan de Cardona, i quali più tardi protestarono che il loro ruolo era stato sottovalutato nella relazione mandata al re; don Luis riconosce che a un certo punto comparvero anche loro, ma attribuisce la maggior parte del merito a don Juan: «la Real continuò per tutta la sera a catturare o far spiaggiare galere dei nemici, e lasciando altre galere di Vostra Maestà perché finissero di prenderle, mentre lei andava sempre avanti». Secondo il Contarini, ogni resistenza a bordo delle galere nemiche era cessata da tempo, «in modo tale, che senza colpo di spada si prese tutto il resto dell’armata turchesca»; dopo la fuga di Uluç Alì, «tutto il resto si rendeva a chi prima gli andava contra». «Ne abbiamo fatte arenare così tante che c’è da vergognarsi a dirlo», concluse un gentiluomo spagnolo imbarcato su una delle galere napoletane19.
Più che combattere, ormai si saccheggiava, in un’orgia di violenza e di bottino in cui accadde di tutto. In più di un caso un capitano che trascinava al rimorchio un vascello nemico catturato lo lasciò andare per soccorrere altri cristiani in difficoltà, solo per scoprire più tardi che un’altra galera si era impadronita della preda e l’aveva saccheggiata. Il Caetani staccò dal rimorchio le galere di Kara Hogia e di Deli rais, e vide poi con rabbia come «alcune galere veneziane, che venivano addietro, montarono sopra quelle galere prese da me e vi fecero un grandissimo bottino, ché questi due corsari erano ricchissimi»; per fortuna il romano era abbastanza gran signore da fingere di non farci caso («Io non me ne sono curato, ché non sono venuto qua per rubare, ma per combattere e servire a nostro Signore»). Secondo il Venier, gli spagnoli presero a viva forza la galera di Perteu pascià, strappandola alla galera Sebenzana che l’aveva catturata in battaglia, «et fino una che havevo io per puppa, delle prese da me, è stata svalegiata da’ spagnuoli». Su una galera turca, i soldati spagnoli ammazzarono gli schiavi cristiani appena sferrati, per sottrarre loro il bottino, e neppure le galere cristiane erano al sicuro dalla smania del saccheggio:
Se i soldati d’una galea saliti su una galea nemica attendevano a svaligiarla, altri soldati di un’altra galea non sol nemica, ma (quello ch’è peggio) ancor amica, saliti su la galea rimasa vuota di difensori [...] la nettavano tutta d’un capo all’altro, e portavano via quanta robba v’era.
La galera del sopracomito Francesco Bon era stata presa dai turchi, e tutta la gente a bordo tagliata a pezzi; quando i fanti spagnoli la ripresero, rubarono tutto quello che c’era, compreso lo stendardo di San Marco, che un mercante veneziano ricomprò poi a Messina dal soldato che l’aveva messo in vendita20.
Era ormai il crepuscolo, ma le fiamme che consumavano i relitti delle galere turche illuminavano l’orizzonte. I cristiani continuavano a inseguire gli ultimi vascelli non ancora arresi o spiaggiati, in mezzo a un mare seminato, come scrive il Sereno, «di giubbe, di turbanti, di carcassi, di frecce, di archi, di tamburri, di gnacchere, di remi, di tavole, di casse, di valige, e sopra d’ogni altra cosa di corpi umani». Fra i cadaveri sballottati dalle onde, i superstiti, molti dei quali feriti, nuotavano arrossando l’acqua e cercando qualcosa a cui aggrapparsi. Qualche volta dalle galere cristiane si tendeva una mano per tirarli su, quando l’avidità di catturare schiavi prevaleva sull’intossicazione della violenza; ma per lo più i disgraziati non suscitavano, «con tutta la miseria loro, pur un poco di compassione nei cuori dei nostri soldati», che facevano il tiro al bersaglio con gli archibugi o li accoglievano coi ferri delle picche. Il calare del buio mise fine al macello, e le galere cristiane si trascinarono malconce e festanti fino ai porti di Petalà e di Santa Maura. Lo stato d’animo della gente a bordo è ben riassunto dalla lettera che un domestico del Caetani scrisse l’indomani al cardinale di Sermoneta: «ora con l’agiuto de Dio semo arrivati a questa santa giornata a gastigare questi cani, che ne avemo fatto un fragello tale, che non averanno mai più animo né così granne ardire, come avevano»21.