1. Dove il sultano allestisce una flotta, Marcantonio Barbaro cerca di scoprire il perché, l’Arsenale di Venezia rischia di andare a fuoco, e alla fine arrivano cattive notizie

Quando giunse a Costantinopoli nell’ottobre 1568 per assumere l’incarico di bailo della Serenissima, Marcantonio Barbaro sapeva di non avere di fronte un compito facile. Molto tempo prima il bailo era soltanto un console, incaricato di difendere gli interessi dei mercanti veneziani che operavano sulle piazze del Levante: e già quello era un compito gravoso, perché il volume dei traffici era considerevole, ed enormi i capitali investiti. Ma da tempo il bailo era diventato anche un ambasciatore, incaricato di rappresentare il governo veneziano presso i ministri del sultano, di guadagnarne la benevolenza e garantire il mantenimento della pace: giacché una guerra contro l’impero turco era giudicata a Venezia un’eventualità catastrofica. Perciò Marcantonio doveva preoccuparsi di raccogliere informazioni sui preparativi bellici del sultano, e tenerne informata la Signoria. La tempestività delle informazioni era vitale, tenuto conto della lentezza delle comunicazioni: il Barbaro aveva viaggiato oltre un mese e mezzo per raggiungere Costantinopoli, e sapeva che le sue lettere avrebbero impiegato almeno tre o quattro settimane per fare il percorso inverso – e anche di più nella cattiva stagione, per quanto fossero urgenti le notizie che contenevano1.

Ma il bailo era un uomo incline all’ottimismo; e la situazione che trovò nella capitale ottomana non gli sembrò affatto minacciosa. Il sultano Selim, salito al trono due anni prima, aveva rinnovato il trattato di pace stipulato con Venezia da suo padre Solimano il Magnifico2, e il gran visir, Mehmet pascià, si dichiarava buon amico della Serenissima. Tutti gli informatori garantivano al Barbaro che l’impero non era preparato per una guerra navale, l’unica che avrebbe potuto impensierire Venezia. Le flotte da guerra nel Mediterraneo erano costituite da galere a remi, che si potevano fabbricare abbastanza in fretta disponendo di infrastrutture adeguate, ma che erano poi molto costose da tenere in mare, giacché richiedevano ciurme sovrabbondanti, e andavano facilmente a male se tenute troppo a lungo in acqua. Perciò, tanto il governo turco quanto quello veneziano in tempo di pace armavano soltanto il minimo indispensabile di galere, quanto bastava per la guardia delle rotte commerciali contro i pirati; e conservavano gli altri scafi in secca, privi d’equipaggio e di tutta l’attrezzatura. Qualunque impresa bellica di ampio respiro comportava il riarmo d’un gran numero di galere e il reclutamento dei relativi equipaggi: tutti preparativi che richiedevano parecchi mesi e non potevano passare inosservati.

Perciò il Barbaro si teneva informato su quello che accadeva nell’Arsenale, il poderoso impianto sul Corno d’oro in cui il sultano conservava le sue galere. Più volte ingrandito nel corso degli anni, l’Arsenale consisteva a quell’epoca di centotrentatré capannoni di legno e pietra, allineati per un miglio lungo il mare; ognuno aveva spazio sufficiente per ospitare lo scafo di una galera tirata in secca, ed era chiuso verso terra da un magazzino col tetto di tegole, per conservare vele, remi e gomene. La manodopera fissa non era numerosa: una cinquantina di capimastri, fra cui non pochi emigrati o banditi dai domini veneziani, e un centinaio di aiutanti forniti dal corpo dei giannizzeri, cui si aggiungevano per i lavori di fatica gli schiavi del sultano, del kapudan pascià, comandante della flotta imperiale, e di altri ricchi privati, alloggiati nelle torri adiacenti all’Arsenale. Ma in caso di bisogno, reclutando falegnami e calafati greci da Costantinopoli e dall’Egeo e obbligando le comunità turche dell’Anatolia a fornire gratuitamente squadre di manovali, si poteva arrivare in fretta a più di duemila operai. Insieme all’Arsenale di Venezia, era il maggiore impianto industriale d’Europa, benché i veneziani ne parlassero con sufficienza: un predecessore del Barbaro assicurava che era chiuso verso terra «con assai debile et vergognose mure tutte di terra et tutte ruinose», che i capannoni erano mal concepiti e peggio costruiti, e che non c’era abbastanza spazio per tenere a secco tutte le galere, sicché i turchi, nella loro trascuratezza, le lasciavano marcire in acqua. Eppure l’attenzione spasmodica con cui gli ambasciatori veneziani tenevano d’occhio l’Arsenale testimonia un sano rispetto per il potenziale bellico dell’impianto, e della flotta da guerra che vi era custodita3.

Per fortuna la struttura dell’Arsenale, «il qual beve nel mare» anziché essere murato da tutti i lati come quello veneziano, permetteva al bailo di non perdersi nulla di ciò che vi accadeva. Come scrisse qualche anno dopo un successore del Barbaro, «lui medemo ogni giorno può andare in persona, o mandar il suo segretario, a veder galera per galera tutto quello che s’opera in esso Arsenale, essendo libero et aperto ad ogni persona dalla parte di mare»: proprio come se a Venezia si fossero tenute le galere tirate in terra lungo le fondamenta della Giudecca, «che senza alcun rispetto ognuno andando in barca per suo piacere le potria vedere e considerare». Si può scommettere che il Barbaro, o il suo segretario Alvise Buonrizzo, quella gita in barca la facevano spesso; e nei primi tempi del loro soggiorno quello che vedevano li rassicurò pienamente. Come riferì più tardi il Buonrizzo, l’Arsenale «era talmente disfornito di tutte le cose che se il Signor Turco havesse havuto bisogno di armar all’improviso solo cinquanta galee, non lo havrebbe potuto fare»: non c’erano remi, né vele, né sartie, né pece, «né altra cosa necessaria per armarle»4.

Per tutto il primo inverno, dunque, i lunghi rapporti che il bailo mandava al suo governo due o tre volte al mese ebbero un tono rassicurante: si poteva escludere che per l’estate il sultano fosse in grado di far uscire una flotta. Neppure quando, nell’aprile 1569, ebbe per la prima volta notizia di ordini per l’acquisto di gomene e sartiami, parve al Barbaro che fosse il caso d’inquietarsi, poiché non appariva nessun segno di attività fuori del comune: «né in Arsenal si vede diligentia alcuna di lavorar, ma colle sole genti ordinarie vanno così rivedendo et racconciando qualche galea, di quelle che sono mal condittionate». Gli acquisti, spiegò, indicavano soltanto che le autorità si erano accorte che i magazzini dell’Arsenale erano vuoti, e avevano deciso di reintegrare le scorte. Nelle settimane seguenti si moltiplicarono gli indizi di un inconsueto attivismo: il kapudan pascià aveva ordinato di fabbricare nel Mar di Marmara dieci navi per il trasporto di cavalli, e aveva mandato apposta maestranze dalla capitale; a fine maggio si seppe di nuove ordinazioni importanti, di palle d’artiglieria e polvere da sparo, di pece del Mar Nero, e di ben «40mila pezze di fustagni per velle da galea», ma il Barbaro continuava a non preoccuparsi: si trattava ancor sempre di rifornire i magazzini svuotati dalle ultime guerre, mentre nell’Arsenale non si notava nessun movimento5.

Bisogna aspettare l’11 giugno 1569 perché il bailo, di fronte ai rapporti che si accumulano sul suo tavolo, cominci ad assumere un tono meno rilassato. Ho già avvisato le Vostre Signorie, scrive, che i turchi stanno ordinando grandi quantità di polvere, palle, fustagni, sartiami e pece; «hora le dico di più, che dapoi hanno espeditti huomeni pratici à posta in diverse parti, per solecitar le cose presenti, et per provederne anco delle altre, come sarebbe remi, ferramenta, secci, et altre cose simili». Ma la notizia più grave era un’altra: «questa settimana passata hanno fatto far una assai diligente revisione di tutte le galee che sono in esso Arsenal, per riconoscer quelle che sono navicabili: nella qual revisione hanno incluse anco quelle che sono buone per far un solo viaggio; il numero di tutte è di 164, delle quali 56 sono vecchie». Delle vecchie, una buona metà erano inutilizzabili; ma dieci erano già in riparazione, «et finito che haveranno di racconciarle, si dice che cominceranno a racconciar le altre in X per volta»6. Più di cento galere in buono stato, oltre a qualche decina di vecchie in via di riparazione, costituivano una flotta di tutto rispetto. Nemmeno l’imperturbabile Barbaro poteva ignorare il significato di questa revisione: se ormai la stagione era già troppo avanzata perché il kapudan pascià uscisse in mare, per il 1570 si preparava certamente qualcosa di grosso.

Il rapporto del bailo provocò una certa sensazione a Venezia. L’impero marittimo della Serenissima, disperso fra l’Adriatico e l’Egeo, era uno degli obiettivi possibili di un’offensiva ottomana, e l’esperienza insegnava che non era facile difenderlo. Ogni volta che Venezia aveva fatto la guerra ai turchi ne aveva perduto qualche pezzo, dalle basi in Peloponneso alle isole come l’Eubea, chiamata allora Negroponte; dai porti della terraferma greca come Lepanto a quelli della costa albanese come Prevesa e Durazzo. Quel che restava del Dominio da Mar era ancora sufficiente a garantire una rete di basi alle galere veneziane in tutto il Mediterraneo orientale, e ricchi latifondi a molte famiglie patrizie: erano le isole della Grecia settentrionale, Corfù, Cefalonia, Zante, che sorvegliavano l’accesso all’Adriatico; qualche prezioso avamposto nell’Egeo come Cerigo, l’antica Citera, e Tinos nelle Cicladi; e le due grandi isole meridionali di Creta e di Cipro, ognuna delle quali aveva lo statuto d’un regno, anche se di fatto erano sfruttate come colonie. Ma tutte queste isole erano vulnerabili a un attacco per mare; e nessuna più di Cipro.

Possedimento veneziano da appena un’ottantina d’anni, Cipro era stata in precedenza un regno crociato, e prima ancora, anche se per breve tempo, un possedimento musulmano. Il dominio cristiano era dunque privo di legittimazione agli occhi dell’Islam, secondo cui una terra che ha conosciuto la vera fede non deve a nessun costo ricadere in mano agli infedeli. Venezia pagava al sultano un tributo annuo di 8000 ducati in cambio della conferma del suo possesso: ma era una cautela a doppio taglio, perché nella concezione ottomana il tributo sanciva la sovranità del sultano sull’isola, ch’egli acconsentiva a lasciare agli infedeli solo finché gli fosse convenuto. Dal punto di vista geografico, Cipro era la propaggine più remota del Dominio: distava da piazza San Marco più di duemila chilometri, e appena una settantina dalla costa turca. In caso di guerra, Venezia avrebbe dovuto sforzare le sue risorse all’estremo per tentare di difenderla, mentre una forza da sbarco salpata dall’Anatolia avrebbe goduto di tutti i possibili vantaggi logistici. Cipro rappresentava insomma l’obiettivo più naturale di una futura mossa ottomana; fin da quando il sultano Selim era ancora principe ereditario si mormorava che nutrisse l’ambizione di conquistarla, e le voci in proposito si erano sgradevolmente infittite dopo la sua salita al trono. I cavalieri di Malta erano così convinti che i giorni della dominazione veneziana a Cipro fossero contati, che nel 1567 avevano deciso segretamente di vendere tutti i loro possedimenti nell’isola7.

Nel luglio 1569, a Venezia si cominciò dunque a stare in allarme; e via via che i rapporti del Barbaro informavano di nuovi preparativi si provvide a metterne al corrente le autorità coloniali a Cipro. Il 19 luglio fu trasmessa la notizia che i turchi avevano spedito 50 casse d’armi, per la maggior parte archibugi, a Tripoli di Siria, porto che si affaccia direttamente sul mare di Cipro; perciò bisognava stare in guardia e immagazzinare rifornimenti nella fortezza di Famagosta, che era il porto principale dell’isola. Il quarantaseienne Marcantonio Bragadin, nominato capitano di Famagosta, s’imbarcò portando con sé 6000 ducati da spendere per consolidare le fortificazioni. Sebbene a Costantinopoli tutti ripetessero che i preparativi servivano soltanto per l’anno venturo, i diffidenti veneziani ragionarono che data la vicinanza di Cipro ai porti turchi un’aggressione sarebbe stata ancora possibile nell’autunno: anzi, «dovendosi far quell’impresa, il Turco, per gli eccessivi caldi che vi sono l’estate, non può fare la guerra in tempo più commodo che l’autunno, nella quale stagione, per essere tanto innanzi, questi signori non hanno commodità di mandare armata fuori», riferiva il nunzio pontificio a Venezia, Facchinetti. In Senato si discusse se trattenere due galere grosse che stavano per partire per Alessandria, cariche di mercanzie, poi le ragioni del guadagno prevalsero su quelle della prudenza, e i mercantili furono fatti partire; ma si stabilì di mandare a Creta 20 galere, e conservarle lì smontate «in un arsenale al quale hanno dato principio, perché siano più vicine ed opportune al soccorso che potesse bisognare a Cipro»8.

Per il momento non si fece altro, anche perché i rapporti del Barbaro erano contraddittori: per un verso segnalavano con viva preoccupazione l’intensificarsi delle voci su Cipro, ma per altro verso insistevano che forse i preparativi erano destinati semplicemente a rimediare le deficienze dell’Arsenale. Dalle stanze della sua residenza nel quartiere di Pera, il bailo sentiva continuamente sparare archibugi; indagando scoprì che se ne fabbricavano a poca distanza, e si sparava per testare quelli finiti. Passò di lì come per caso, valutò il numero degli operai che vi lavoravano, prese nota degli spari che sentiva e concluse «che un giorno per l’altro ne faciano almeno 50». La fabbricazione andava avanti a quel ritmo da molti mesi; ma bisogna pensare, aggiunse subito il Barbaro, che prima l’Arsenale era completamente sfornito di archibugi. In ogni caso, nel governo dell’impero c’erano molti che non avevano nessuna intenzione di fare la guerra, meno che mai contro Venezia: un giorno che si trovava «a visita domestica del magnifico agà de gianizzeri ad un suo loco dilettevole sopra l’acqua», il bailo portò abilmente il discorso su quell’argomento, e con suo grande sollievo il comandante dei giannizzeri si diffuse a deplorare lo spreco della guerra ed elogiare la pace, assicurando all’ospite cristiano che il sultano era «assai inclinato alla quiete»9.

Svanito coll’avanzare della stagione estiva il timore d’un attacco a sorpresa, Venezia continuò a sorvegliare da lontano, attraverso i regolari dispacci del bailo, quel che accadeva nei porti turchi, e il Facchinetti continuò a tenerne informata Roma: ovvero il cardinal nipote Michele Bonelli, detto l’Alessandrino, che a sua volta riferiva al formidabile zio, papa Pio V. A inquietare i governi italiani era soprattutto la notizia della costruzione di navi da trasporto, che inevitabilmente facevano pensare a uno sbarco: «tra’ vascelli, che il Turco mette in ordine, vi sono 18 palanderie, legni di portare monitioni et cavalli: 12 ne sono sul Mar Maggiore et 6 a Nicomedia», riferiva il nunzio. È interessante vedere che l’ecclesiastico, poco pratico di cose navali, confonde le palandarie, usate per il traghetto dei cavalli, e le maone, adatte a trasportare truppe e munizioni: in realtà il Barbaro sapeva di 12 maone ordinate a Nicomedia, l’attuale Izmit sul Mar di Marmara, e di alcune palandarie in costruzione nel Mar Maggiore, come allora gli occidentali chiamavano il Mar Nero10.

Sull’onda dei primi timori la Signoria aveva deciso di inviare a Creta un provveditore con poteri straordinari, in vista d’una guerra nell’Egeo che per un attimo si era creduta imminente; l’incarico appariva così grave che il Senato non aveva potuto mettersi d’accordo sul nome («ne sono balottati 4 o 6 et nessuno è potuto passare», riferiva il nunzio). Finalmente era stato nominato ser Lorenzo da Mula, ma intanto il senso d’urgenza era svanito, cosa che non sfuggì all’occhio attento di monsignor Facchinetti: «Il clarissimo Mula, destinato proveditore in Candia, si mette all’ordine per partire, ma non con quella celerità di prima; et credo sia per rispetto degli ultimi avisi di Costantinopoli che mostrano che si dee temer manco», scriveva il 24 agosto11. Ma nella notte dal 13 al 14 settembre tutta Venezia fu svegliata da uno spaventoso boato: e la folla che subito si riversò in strada, pensando chi a un terremoto e chi alla fine del mondo, apprese che c’era stata un’esplosione all’Arsenale.

L’Arsenale di Venezia era il diretto rivale di quello di Costantinopoli. Attraverso successivi ampliamenti, la sua superficie aveva raggiunto i 26 ettari: il doppio rispetto all’epoca in cui aveva stupito Dante con la sua febbrile attività. Interamente murato, consisteva d’una moltitudine di cantieri, capannoni e magazzini attorno a diversi bacini interni, con volte sufficienti per ospitare in secco più d’un centinaio di galere. Quando funzionava a pieno ritmo impiegava ogni giorno fino a 2500 artigiani, fra carpentieri o “marangoni”, calafati e remieri, con i loro apprendisti e garzoni; senza contare cordai, fabbri, fonditori di artiglierie, fabbricanti di polvere da sparo e panificatori di biscotto. Guardiamoci, tuttavia, dall’immaginare un’organizzazione del lavoro paragonabile a quella d’un moderno stabilimento industriale. Gli operai non erano assunti dallo Stato, ma pagati a giornata, e la contrattazione fra il governo e le corporazioni artigiane aveva prodotto un sistema di obblighi reciproci. Tutti i mastri dei tre principali mestieri interessati erano obbligati a lavorare nell’Arsenale quando le autorità lo richiedevano, per un compenso giornaliero fissato al di sotto dei prezzi di mercato, sicché la Repubblica aveva la garanzia di poter impiegare per le sue galere, in qualunque momento e senza temere concorrenza, l’intera forza lavoro disponibile in città. Ma a loro volta i carpentieri e i remieri avevano il diritto di presentarsi all’Arsenale, e di essere pagati, tutti i giorni lavorativi in cui non trovavano lavoro altrove; i calafati, corporazione meno potente, avevano la garanzia d’un giorno di lavoro ogni due.

Questo sistema assistenziale costava parecchio. Il governo tentò di ridurre i danni limitando il numero degli apprendisti delle tre corporazioni, i quali un giorno, diventando mastri a loro volta, avrebbero goduto degli stessi diritti; e più d’un inviato a Costantinopoli, dopo aver scoperto che laggiù gli operai dell’Arsenale erano pagati solo quando il sultano aveva bisogno di loro, affermò che quel sistema era migliore. «Il pagare di continuo in ogni tempo gran numero di questa gente, lavorando o non lavorando, è un asciugare il sangue dell’errario publico», osservò Nicolò Michiel nel 1558, e due anni dopo Marino di Cavalli rincarava: i turchi «finito il bisogno li cassano [...] e li nostri anche quando non bisognano lavorano tutti, e quando bisogna, non essendo le galere in essere, vogliono guadagnare un ducato al dì lavorando sopra di sé, e li lavori sono pessimi, e la spesa grandissima».

È vero che i mastri registrati nelle corporazioni non erano tenuti soltanto a lavorare nell’Arsenale, ma anche ad imbarcarsi sulle galere, ognuna delle quali quando usciva in mare aveva bisogno d’un carpentiere, un calafato e un remiere per le riparazioni d’urgenza; sicché la Signoria, in cambio d’una politica compiacente, si garantiva una disponibilità di competenze professionali che non aveva eguali in nessun’altra flotta dell’epoca. Con tutto ciò, l’Arsenale pesava così tanto sul bilancio statale che nel marzo 1569 il governo aveva tentato di non pagare più ai lavoranti il sabato pomeriggio, col buon argomento che quella mezza giornata se ne andava interamente per le operazioni di paga; ma la reazione degli operai era stata così ostile che le autorità si erano rimangiate il provvedimento.

Le relazioni fra la Signoria e gli arsenalotti erano comunque rimaste tese, perché proprio in quel periodo i governatori dell’Arsenale stavano tentando di modificare l’organizzazione del lavoro in vigore da tempo immemorabile. Prima di allora non esisteva nessuna forma di standardizzazione, e ogni artigiano lavorava nell’Arsenale più o meno come avrebbe fatto nella propria bottega, con una commissione specifica e su materia prima fornita dal cliente. Una volta registrati sul libro delle presenze, non c’era nessun controllo di produttività, tranne una ronda che provvedeva a depennare gli operai trovati addormentati; solo quando bisognava costruire una galera ex novo l’incarico veniva appaltato, al ribasso, a un capomastro che provvedeva poi a reclutare gli operai di cui aveva bisogno. Per mettere fine agli abusi e accrescere, come diremmo noi oggi, la produttività, nell’estate 1569 si decise di nominare quattordici capimastri, scelti fra quelli che avevano già fabbricato galere su proprio disegno, e di registrare sotto di loro tutti gli artigiani, in ordine alfabetico; ognuno dei quattordici mastri ebbe così la propria squadra e si vide assegnare un dock di costruzione e un incarico specifico stabilito dai provveditori dell’Arsenale, che rendeva possibile una verifica in corso d’opera dei tempi di realizzazione. I capimastri, contrariamente al passato, non sarebbero più stati nominati a vita, un privilegio che secondo il Senato li aveva resi «assai freddi nel servicio», ma rinnovati di cinque in cinque anni in base allo zelo dimostrato12.

Di fronte a tutte queste novità i malumori serpeggiavano dietro le mura dell’Arsenale. L’ultimo provvedimento era passato soltanto il 10 settembre, tre giorni prima dell’esplosione; e ovviamente nacque subito il sospetto che qualche artigiano insoddisfatto avesse dato fuoco, per vendetta, ai barili di polvere da sparo ammassati nei magazzini dell’artiglieria. «Si mormora che possa essere stato uno delli istessi che lavorano nell’arsenale per lo sdegno che hanno avuto che se gli sia levato non so che di mercede per il dì del sabbato che non lavorano intieramente», osservava sprezzante il nunzio pontificio, poco sensibile ai problemi sindacali. Il Consiglio dei Dieci promise una ricompensa per chiunque avesse segnalato i colpevoli; due operai vennero arrestati, ma non c’erano indizi e toccò rilasciarli quasi subito. Per mesi, e anzi per anni, continuarono a pervenire al Consiglio denunce anonime, nessuna delle quali ebbe seguito; e con esse memoriali di zelanti cittadini che denunciavano pericoli veri o immaginari, segnalando i possibili modi in cui i nemici avrebbero potuto introdurre nell’Arsenale «foco artificiato» (allora non si parlava di esplosivi), per colpire nei suoi interessi vitali lo Stato «più invidiato et odiato». La voce popolare, infatti, era concorde nell’attribuire l’esplosione dapprima a nemici non meglio identificati, e poi a traditori al servizio del sultano.

In realtà, il governo si convinse subito che l’incendio non era stato doloso, tant’è vero che la taglia per chi denunciasse i colpevoli fu fissata a una cifra «molto debole», con stupore del nunzio; e anche i danni si rivelarono limitati. Lo scoppio del magazzino della polvere aveva abbattuto un tratto delle mura e danneggiato parecchi edifici all’esterno, ma per fortuna quella notte non spirava vento e l’incendio era stato domato rapidamente, senza estendersi all’area in cui erano conservate in secco le galere. All’inizio si era temuto che il crollo di alcuni capannoni ne avesse distrutte dieci e danneggiate altre sei, ma una volta rimosse le macerie si constatò che le galere perdute erano soltanto quattro. Già il 17 settembre alcuni dei Signori, con non poco fastidio del nunzio, meditavano di approfittare dell’accaduto per allargare l’Arsenale a spese dell’attiguo monastero della Celestia, danneggiato dall’esplosione.

E tuttavia l’incidente preoccupò seriamente le autorità; ma per tutt’altro motivo. La notte del disastro, mentre «i senatori più vecchi» erano accorsi sul posto per spegnere le fiamme e sedare il panico, «si vidde grandissima tiepidezza del popolo nell’andare a soccorrere l’arsenale et, fuor che i nobili, vi capitò poc’altra gente». Su duemila operai, calcolava il Facchinetti, non più di duecento si erano degnati di dare una mano. A costoro il governo concesse un premio, «per correggere in parte l’errore commesso in scemar la mercede a questi huomini». I provveditori registrarono per iscritto tutti quelli che si erano presentati, il cui numero risultò in realtà superiore a trecento, e tutti quanti ebbero un aumento di stipendio vitalizio. Se davvero si avvicinava una guerra, l’ultima cosa che la Signoria desiderava era di scontentare i lavoratori dell’Arsenale; e già ai primi di ottobre se ne ebbe un’altra, clamorosa dimostrazione. Il Consiglio dei Dieci aveva nominato tre capitani coll’incarico di pattugliare nottetempo la città, sottraendo quest’incarico agli arsenalotti cui era tradizionalmente affidato; la reazione dell’opinione pubblica fu così ostile che il provvedimento venne cassato, i nuovi capitani furono scelti fra le maestranze dell’Arsenale, e tutti i senatori che avevano votato l’incauta delibera furono poi bocciati alle votazioni per il rinnovo del Consiglio13.

Intanto il Barbaro continuava a mandare rapporti contraddittori. All’Arsenale di Costantinopoli si fabbricava artiglieria leggera, ma quei pezzi da due libbre, trasportabili su muli, «servono più ad impresa di terra che di mare». Per il resto si lavorava alle galere, «ma senza diligenza». Monsignor Facchinetti cominciava ad essere perplesso. Poca o molta che fosse la diligenza, era ormai evidente che l’anno prossimo la flotta del sultano sarebbe uscita in forze; eppure «questi signori tengono per certo che non sia per venire a’ danni loro», e per essere così imperturbabili, ragionava il nunzio, «debbono haver qualche sicurezza della mente del Turco, che non è così nota». Finalmente, il 22 ottobre, in un momento in cui le lettere da Costantinopoli tardavano, il Facchinetti riuscì a penetrare il riserbo dei suoi interlocutori e a capire come mai i veneziani erano così tranquilli: «Questi signori per lo più credono che l’armata debba andare in soccorso de’ Mori in Spagna»14.

Infatti in Andalusia, sulle montagne dell’Alpujarra, i moriscos, discendenti dei musulmani che i Re Cattolici avevano costretto con la forza a convertirsi al Cristianesimo, erano insorti e in tutto il mondo mediterraneo ci si attendeva che il sultano andasse in loro soccorso. Il re di Spagna Filippo II, in quanto primo sovrano della Cristianità, si considerava in guerra perpetua con l’impero ottomano, con cui non aveva mai voluto intrattenere relazioni diplomatiche. Se davvero il kapudan pascià si preparava a uscire in mare con una grande flotta nella primavera del 1570, non era logico che andasse a portare aiuto ai correligionari oppressi, colpendo il peggiore dei nemici dell’Islam, anziché attaccare la pacifica Venezia che chiedeva soltanto di restare buona amica dell’impero? I rapporti del bailo andavano proprio in questa direzione, tanto più che il mufti di Costantinopoli, cioè la massima autorità religiosa e giuridica dell’impero, il vecchio e rispettatissimo Ebussuud, aveva pubblicato una fatva in cui affermava «che Sua Maestà è tenuta et obligata a soccorrer et difender li predetti Mori, essendo ancora loro mussulmani, et che quando la mancasse, li populi possono lapidarla». Il dragomanno Mahmud bey, interprete ufficiale della Porta e ottimo amico del bailo, gli confermò che il sultano pensava a qualche impresa contro gli spagnoli, e che la pace con Venezia «si mantenirebbe anco se ben le voci del volgo fussero in contrario, perché Sua Maestà non rompe la sua fede alli suoi buoni amici». Il Barbaro non desiderava di meglio che crederlo; e come lui, in quegli ultimi mesi del 1569, continuarono a crederlo gli altri patrizi veneziani15.

Questo, naturalmente, non significava che ci si cullasse nelle illusioni. Alla fine di ottobre si dovette deliberare, come ogni anno, di dare il cambio ai fanti di guarnigione a Cipro, e qualcuno propose di mandarne più del solito, anche se molti, rassicurati dagli ultimi avvisi del bailo, preferivano risparmiare quella spesa. Alla fine si decise di stare a vedere, e deliberare più tardi in base agli avvisi da Costantinopoli, «perché hanno assai tempo di mandar dette genti»16. L’inverno nel Mediterraneo è infido, e se in casi estremi una galera, o anche una piccola squadra, poteva restare in mare anche nei mesi invernali, sfidando le tempeste, nessuno riteneva possibile tenere in acqua un’intera flotta: le probabilità di perderne gran parte a causa del maltempo erano alte, la mortalità fra le ciurme rischiava d’essere rovinosa, le possibilità operative comunque limitate, a fronte di costi economici ingenti. Il kapudan pascià non sarebbe uscito in mare fino ad aprile o maggio dell’anno prossimo, e prima di allora, ragionavano i veneziani, ci sarebbe stato tutto il tempo di penetrare le intenzioni della Porta.

Fino alla fine dell’anno, dunque, a Venezia si rimase in attesa di capire a cos’era destinata la flotta che si stava lentamente allestendo a Costantinopoli e nei porti del Mar Nero. Il bailo teneva d’occhio tutti i segnali: dall’ordine di inventariare nei magazzini della Morea le riserve di biscotto, che era la principale scorta alimentare a lunga conservazione imbarcata sulle galere, all’arrivo da Mitilene d’un caramussale, una piccola imbarcazione da trasporto, con un carico di pece; dalla mancanza di stoppa nell’Arsenale, per cui era impossibile cominciare a calafatare le galere, ai frequenti viaggi del kapudan pascià nel Mar di Marmara, per sollecitare la fabbricazione dei trasporti. Ma intanto le voci che tutti quei preparativi fossero per l’impresa di Cipro s’erano raffreddate: l’opinione pubblica era molto più preoccupata dalle notizie che arrivavano sull’insurrezione dei moriscos, nonché da certi improvvisi e precipitosi invii di corrieri da e per i confini persiani17.

Quanto all’entità della flotta che si stava allestendo, i numeri riferiti al Barbaro si erano stabilizzati già da tempo, e indicavano che sarebbe stata colossale. L’ordine al cadì di Gallipoli di acquistare tela sufficiente per le vele di 200 galere, partito all’inizio dell’estate, era certo troppo ottimistico, perché alcuni degli scafi conservati nell’Arsenale erano risultati inutilizzabili; ma il kapudan pascià sperava comunque di mettere a punto 120 galere, e aggiungendovi quelle delle guardie, stanziate a Rodi, a Chio, a Negroponte e ad Alessandria per la protezione dei traffici commerciali, si sarebbe arrivati a schierarne 150. Il 12 novembre, poi, per la prima volta il bailo subodorò qualcosa di ancor più grosso: negli uffici del governo si stavano tirando fuori i registri dei coscritti per avviare le operazioni di reclutamento dei rematori, «ma però in publico non se ne parla fin qua»18.

A Venezia, dove queste informazioni arrivarono dieci giorni prima di Natale, il clima festivo non ne fu turbato. «Certa cosa è», scriveva il Facchinetti, «per molti riscontri che io ho, che questi signori stanno senza timore che l’armata sia per portarsi a’ danni loro». Quando la flotta turca fosse uscita in mare, continuava il nunzio, anche i veneziani avrebbero armato la loro, ma si trattava d’una misura puramente prudenziale e di routine, «per servare un perpetuo instituto della Repubblica, la quale ha havuto sempre per costume, armando il Turco, d’armare essa similmente». Quattro giorni prima di Natale, però, monsignor Facchinetti rilevò per la prima volta una nota d’incertezza negli umori dei suoi interlocutori. I veneziani erano ancor sempre convinti che l’«armata turchesca», uscendo in mare, avrebbe fatto vela verso la Spagna, ma non volevano nemmeno far venire voglia al sultano di approfittare di un’occasione troppo facile; perciò avevano deciso che se davvero il Turco armava, avrebbero spedito a Cipro altri mille fanti19.

Vennero poi le feste, e per qualche giorno non si pensò ad altro. Solo il 4 gennaio il nunzio si accorse di non aver più sentito menzionare le notizie di Costantinopoli, e informatosi apprese che da un pezzo non era più giunto nessun rapporto dal Barbaro. Era un segnale inquietante, ma poteva anche darsi che la fregata che lo portava si fosse persa in mare; sicché non c’era altro da fare che attendere. Poi arrivarono contemporaneamente una lettera del bailo e una dell’ambasciatore francese Monsieur de Grandchamps, spedite il 27 novembre, un mese e mezzo prima. Il francese era l’unico ambasciatore cristiano residente a Costantinopoli oltre a quello veneziano, perché il re di Francia, nemicissimo della Spagna, era ufficialmente alleato del sultano; ma tra cristiani ci si aiutava comunque, e la legazione francese era un’ottima fonte di informazioni per le altre potenze cattoliche. Grandchamps, dunque, avvisava «ch’erano all’ordine 180 galere con 30 legni tra palenderie et maone da portare monitioni et cavalli; ch’in Constantinopoli si ragionava di far l’impresa di Cipro». L’effetto di questa lettera fu però attenuato da quelle del bailo, che riportavano cifre più basse e interpretazioni tranquillizzanti: «Il bailo scrive di 20 palenderie, ma di 150 galere solamente, tra le quali anco se n’erano trovate 18 inutili a poter navigare; che fin d’allhora s’erano commandate solamente le ciurme di Constantinopoli per 60 galere, et credeva, se ben per ora non osava d’affermarlo, che non uscirebbe armata se non per guardia dei luoghi del Turco»20.

Ma negli ultimi dieci giorni di gennaio la situazione precipitò. Il 21 arrivò una nuova lettera del Barbaro, spedita il 12 dicembre: anche stavolta il maltempo invernale aveva costretto il corriere a un viaggio d’un mese e mezzo. Il bailo scriveva «che uscirebbono 130 galere et di già s’era dato principio a commandar le ciurme, ma queste 130, congiunte co’ legni de’ corsari, faranno armata formidabile». I corsari musulmani annidati nei porti del Levante, e quelli barbareschi di Algeri, erano tenuti a unirsi alla flotta del sultano in caso di imprese importanti, e i loro vascelli erano piccoli ma agguerritissimi. All’Arsenale, inoltre, si erano fatte venire maestranze da fuori in aggiunta a quelle ordinarie, per accelerare il più possibile i lavori. Come al solito, però, il Barbaro aggiungeva una chiusa rassicurante: Mehmet pascià aveva garantito al bailo che la flotta non era diretta contro l’impero veneziano, e la voce popolare a Costantinopoli insisteva che sarebbe andata ad aiutare i moriscos in Spagna. Il 25 gennaio approdò a Venezia un corriere straordinario, spedito dal bailo il 18 dicembre con notizie assai più allarmanti: il sultano aveva ordinato che le prime 50 galere uscissero in mare entro la metà di marzo; all’Arsenale facevano lavorare così tanti uomini che in poco tempo ne sarebbero state pronte altre 80; oltre a queste, «apparecchiavano da 30 palanderie oltre 20 che n’avevano assettate prima, i quali sono legni che non si possono trainare in lungo tratto di mare et servono a portare monitione et cavalleria».

È lampante la rilevanza di questo dettaglio tecnico, che il nunzio badava a spiegare per gente non del mestiere come il cardinal Bonelli e il papa: con imbarcazioni di quel genere, il kapudan pascià non si sarebbe certamente diretto verso le coste andaluse. Lo sbarco era previsto in qualche luogo molto più vicino. Quale, non era difficile indovinarlo, in base agli ordini di mobilitazione che la Porta aveva inviato alle autorità provinciali: «s’intende che hanno commandato i soldati che stantiano nell’Egitto et Soria, i quali sariano commodissimi all’impresa di Cipro». A questo punto perfino il Barbaro cominciava a non credere più troppo alle promesse del gran visir: molte persone venivano a confidargli che l’obiettivo era proprio Cipro; e il nunzio, a Venezia, constatava che «questi signori adesso stanno con un poco di sospensione». Vennero adottati i primi provvedimenti d’emergenza: si bloccò l’uscita di qualsiasi legno dal porto di Venezia, si affrettò il reclutamento dei mille fanti da mandare a Cipro, e si ordinò ai provveditori dell’Arsenale «che con ogni possibile prestezza preparino quel maggior numero che si potesse di galee sottili et grosse». Prima di procedere oltre, però, il doge si aggrappava alla speranza che arrivassero notizie migliori21.

Il corriere tanto atteso arrivò il 27 gennaio, portando lettere del bailo e del Grandchamps, spedite esattamente un mese prima. Il nunzio poté leggere quelle dell’ambasciatore di Francia, da cui apprese che i turchi facevano affluire munizioni e artiglieria «verso la Caramania, posta all’incontro di Cipro», e che le 50 galere che dovevano uscire a marzo avevano il compito di andare a caricare biscotto per la flotta. A Costantinopoli continuava la ridda delle voci, e molti parlavano ancora del soccorso ai Mori di Spagna, ma il nunzio aveva smesso di crederci: «questo procedere è tutto stratagemma, dando alcune provisioni inditio d’una impresa et alcune altre d’un’altra, per non lasciarsi intendere et tenere così gli animi di tutti i prencipi sospesi». Ma la cosa più grave era che stavolta i veneziani mantenevano un segreto impenetrabile sulle lettere del Barbaro: «questi signori sono ristretti in Consiglio de’ X et per mezzo loro questa sera non è possibil penetrare cosa alcuna». Passarono quattro giorni prima che il Consiglio dei Dieci comunicasse alla cittadinanza sbigottita quello che aveva appreso dal bailo e le proprie decisioni: «le 30 palenderie, che si mettono all’ordine, tutte sono verso quella parte della Caramania et Soria che risguarda Cipro, la cavalleria et guastatori et militia di quelle parti è tutta commandata»; perciò il Consiglio aveva deciso di comunicare ufficialmente alla popolazione cipriota il pericolo «che quel regno abbia ad esser invaso da Turchi», e di armare entro due mesi una flotta di 150 galere. Venezia si preparava alla guerra22.