23. Dove la squadra del Colonna perde tempo a Napoli e provoca incidenti prima di proseguire per Messina; la squadra del Venier arriva in Sicilia a corto di uomini, e incappa in altre disavventure; e tutti si lamentano per il ritardo di don Juan de Austria

La prima a presentarsi all’appuntamento a Messina fu la squadra toscana al soldo del papa. L’11 giugno il Colonna ricevette da Pio V lo stendardo e il bastone di comando, e pochi giorni dopo partì per Civitavecchia. Lo accompagnava il giovanissimo e scapestrato nipote del papa, Michele Bonelli, e Marcantonio non ne era affatto contento, perché era certo che il ragazzo affidato alla sua custodia avrebbe combinato qualche guaio, «ed ogni cosa che li succeda dubita non gliene sia data la colpa a lui». Anche Onorato Caetani era di malumore, perché era convinto che «il Signor Michele», oltre ad essere un perfetto imbecille, intrigava a suo danno e parlava male di lui allo zio, con la speranza di portargli via l’incarico di generale della fanteria.

Il 19 giugno la truppa giunta da Corneto, con le armi lucidate e gli abiti ancora nuovi, cominciò a imbarcarsi sulle dodici galere nel porto di Civitavecchia, sotto gli occhi della signora Felice, moglie del Colonna, e di altre dame romane accorse ad assistere allo spettacolo. A giudizio del Sereno, che però aveva contribuito a reclutarle e quindi non era del tutto imparziale, le compagnie erano eccellenti, «bene armate, e piene di buonissime genti». Nella mattinata del 20 il segretario del Caetani scrisse a Roma che l’imbarco era quasi completo; un accenno di maltempo aveva fatto temere che si dovesse rimandare la partenza, «ma ora, che ponno essere undici ore in circa, è chiarissimo, talché vi è dubbio di stanotte o domani, col nome di Dio». Partite l’indomani, la sera del 24 giugno le galere del papa entravano nel porto di Napoli, salutate dall’artiglieria dei castelli1.

Secondo gli accordi, la squadra pontificia doveva fare tappa a Messina per poi procedere fino a Otranto e da lì a Corfù, come era stato formalmente promesso ai veneziani. Pochi giorni dopo il suo arrivo a Napoli, però, Marcantonio seppe che la flotta turca era uscita in forze e stava attaccando Creta, e cominciò a dubitare della realizzabilità di quel piano. Si pensava che i veneziani avessero circa 60 galere a Corfù e 70 a Creta, ma la presenza della flotta nemica avrebbe certamente impedito di riunire le due squadre. Così stando le cose – scriveva il Caetani il 9 luglio – «questa nostra andata così soli non può essere di alcun giovamento», anzi significava corteggiare il disastro, perché la flotta nemica, se si fosse spinta fino a Cefalonia, poteva benissimo intercettarli durante il trasferimento da Messina a Corfù. Fu allora che il Colonna, dopo essersi consultato col Buonrizzo, scrisse al Venier consigliandogli di venire piuttosto lui a Messina; nel frattempo, però, il papa insisteva perché si rispettasse il piano, e si capisce che con quest’obbligo addosso Marcantonio non avesse nessuna fretta di lasciare Napoli. Ai primi di luglio il viceré aveva fatto cominciare i lavori di costruzione dell’arco trionfale destinato ad accogliere don Juan al suo arrivo, e il Colonna pensò che sarebbe stato molto meglio se avesse potuto aspettare le galere di Spagna prima di avventurarsi in Levante.

Per giustificare il protrarsi del suo soggiorno napoletano si trovò il pretesto della galera in costruzione nell’Arsenale, che il re aveva regalato ai cavalieri di Malta. Il priore Giustinian era arrivato a Napoli con tre galere maltesi, tra cui una vecchia e ormai inadatta al servizio; l’idea era di lasciarla lì e trasferire sulla nuova gli armeggi e la ciurma. Le galere erano sprovviste di uomini da spada, e il Colonna promise di aspettarle per fare insieme il viaggio fino a Messina, a scanso di cattivi incontri; poi il Giustinian sarebbe andato a Malta «a pigliare i cavalieri». La presenza delle galere maltesi mezzo vuote fece venire in mente a Marcantonio di arruolare a Napoli un’altra compagnia di duecento fanti, da imbarcare su quei legni e tenere di riserva per riempire i vuoti fra i suoi soldati, «ché sempre se ne ammalano»; ma il Granvelle, che prendeva molto sul serio il suo nuovo ruolo di viceré, non volle dargli il permesso, benché il nunzio apostolico glielo chiedesse formalmente a nome del papa.

Anche il commissario delle galere pontificie, che aveva lettere di cambio per una somma consistente e avrebbe voluto riscuotere il denaro a Napoli per portarlo con sé in Levante, si vide negare il permesso dal Granvelle, che gli ricordò il divieto di estrarre moneta dal regno; e l’indignazione di Pio V non bastò a rendere più collaborativo l’inflessibile viceré. Se la cavò meglio il Colonna, che con la consueta disinvoltura reclutò soldati in segreto, senza avvertire il cardinale, riempiendo così tutti i vuoti aperti dalle malattie; è vero che reclutò soprattutto sudditi dello Stato pontificio che si trovavano per caso nel Napoletano, e che comunque gli ammalati non erano molti, «e quasi niuno ne muore, anzi molti ne guariscono», notava sollevato il Caetani.

Durante il soggiorno a Napoli delle galere maltesi e pontificie si verificarono diversi incidenti che testimoniano l’estrema tensione dei rapporti fra quegli alleati riluttanti. Un bandito napoletano che scendeva da una galera di Malta venne arrestato sul molo dagli sbirri; l’uomo chiese aiuto gridando «Malta! Malta!», e dalle galere uscì gente che uccise uno sbirro e liberò il prigioniero. Il Granvelle ordinò al priore Giustinian di consegnare il fuoruscito e l’assassino, altrimenti avrebbe colato a picco le galere maltesi, e fece puntare contro di loro i cannoni dei castelli. La minaccia potrebbe sembrare spropositata, ma per i politici dell’epoca la difesa della giurisdizione era questione di vita o di morte, come lo era quella dell’onore personale, con cui del resto s’intrecciava. Il fuoruscito sembrava sparito nel nulla, senonché, la notte seguente tornò a bordo e uccise un compagno, lasciandogli sul petto un cartello col suo nome e con l’avviso che chiunque tentava di tradirlo avrebbe fatto la stessa fine. La latitanza durò una settimana; poi, finalmente, l’uomo venne catturato, con comprensibile sollievo dei cavalieri.

Pochi giorni dopo, in una rissa fra soldati italiani delle galere pontificie e soldati spagnoli del tercio di Napoli diversi spagnoli vennero ammazzati, e gli italiani inseguirono gli avversari fin dentro al palazzo del viceré. Il Granvelle, furibondo per quella nuova mancanza di rispetto, pretese una punizione esemplare, ma il Colonna, dimostrando ancora una volta la sua abilità di mediatore, seppe convincerlo a lasciar perdere, evitando un ammutinamento generale della soldatesca. Nonostante questo episodio, il Caetani ebbe il coraggio di scrivere che i suoi soldati vivevano «con tanta quiete che certo parono frati»: è vero, ammise, che una ventina «ci hanno truffata la paga», disertando dopo aver incassato l’anticipo, ma erano cose insignificanti rispetto a quello che capitava di solito. Quando sette dei disertori vennero arrestati a Capua perché giravano armati, il Caetani chiese come grazia al viceré di poter giudicare lui i colpevoli, e il cardinale, con un insolito gesto di buona volontà, glielo concesse. Con soddisfazione di tutti Onorato li condannò a remare sulle galere, dividendoli fra le pontificie e le napoletane.

Intanto, il fatto che la squadra del Colonna non ripartisse per Messina cominciava a sollevare mormorii. Il segretario del Caetani assicura, nella sua prosa barocca, che il suo padrone mordeva il freno, «come quegli che ha, come si deve, fisso già il pensiero a fine glorioso, inchinatovi dalla nobiltà sua veramente illustre, e tiratovi dalla virtù propria». In Vaticano anche Pio V fremeva, e spedì non meno di tre corrieri per sollecitare Marcantonio a sbrigarsi. Il Colonna con l’abituale faccia tosta rispondeva a tutti che stava per partire; così, il 10 luglio il nunzio comunicava a Roma: «il signor Marc’Antonio dice che partirà doman’a sera senza fallo». In realtà il soggiorno si prolungò fino al 15, quando finalmente la nuova galera maltese fu pronta, e i cavalieri la armarono imbarcando la ciurma e l’equipaggio della vecchia. Solo allora Marcantonio salpò da Napoli, dopo aver preso con sé sulla sua galera diversi militari famosi come il cavalier Romegas, Ascanio della Cornia appena nominato maestro di campo generale della Lega, e Gabrio Serbelloni capitano generale dell’artiglieria.

Insieme alle dodici galere del papa e alle tre dei cavalieri di Malta salparono le sei galere nuove della squadra di Napoli, anch’esse da poco completate nell’Arsenale: nessuno era sicuro che Uluç Alì se ne fosse davvero andato in Levante, e il Colonna non voleva correre rischi. Il Granvelle, in verità, non voleva dare le galere; «ma pare che Sua Santità abbia scritto assai risentito al cardinale», e alla fine il viceré cedette. Nonostante ciò, quando una barca di pescatori avvisò che in quelle acque erano stati avvistati dei legni turchi il Colonna decise prudentemente di fermarsi a Tropea, e vi restò ben due giorni. La fantastica notizia che centocinquanta vele nemiche erano comparse al largo della Puglia, e anzi avevano preso terra per fare acqua, provocò un momento di panico; poi si seppe che in realtà quella era la squadra del Venier, salpata da Corfù con settanta vele, e in arrivo a Messina. Poiché teneva molto ad arrivarci per primo, Marcantonio si decise a ripartire, e il 20 luglio approdò finalmente nel porto siciliano2.

Tre giorni dopo arrivava a Messina la squadra del Venier, e quella del Colonna uscì in mare per accoglierla: le galere toscane salutarono con una salva ben orchestrata dell’artiglieria di bordo, cui gli indisciplinati veneziani risposero sparando senza alcun ordine da tutte le galere, dopodiché da una parte e dall’altra si cominciò a tirare all’impazzata cogli archibugi, in segno di gran festa. Il viaggio da Corfù era durato dodici giorni, compresa una tappa a Otranto, fra il terrore di vedersi capitare addosso da un momento all’altro la flotta nemica e i rallentamenti provocati dalla necessità di rimorchiare le galeazze e le navi da carico. Non è facile capire quante galere avesse con sé il Venier, a parte le 6 galeazze e i tre trasporti su cui tutte le fonti concordano. I dispacci che il Senato inviava agli ambasciatori nelle capitali alleate parlavano ora di 60, ora di 65 galere sottili, ma la cifra è certamente gonfiata. Il Caetani, scrivendo da Messina il 25 luglio, comunicò che il Venier ne aveva 57, ma lo stesso giorno il Colonna scrisse al re che le galere veneziane erano 50 in tutto. Lo stesso Venier, nel suo rapporto successivo a Lepanto, fa un conteggio piuttosto confuso, da cui risulta comunque che sarebbe arrivato a Messina con 55 galere3.

Per quanto le fonti ci abbiano abituati a considerevoli divergenze quando si tratta di cifre o di date, in questo caso l’oscillazione è davvero bizzarra, dato che si ritrova anche nella corrispondenza di quei giorni, e non si può fare a meno di sospettare che i veneziani abbiano fatto tutto il possibile per avvolgere nel segreto la consistenza effettiva della loro flotta, sospettosi com’erano nei confronti degli alleati. Il fatto stesso che fossero venuti a mettersi nel porto di Messina, in bocca a quel re Filippo con cui avevano sempre avuto rapporti molto tesi, era così inaudito che venne accolto con incredulità: il Colonna li vide arrivare «con grandissima allegrezza, ma certo con maraviglia maggiore del mondo», perché fino all’ultimo gli era parso impossibile che si fidassero di venire lì.

Ai gesuiti spagnoli che a Messina si occupavano dell’edificazione spirituale e dell’assistenza materiale alla gente imbarcata, la flotta del Venier apparve bizzarra ed esotica. C’erano a bordo, scrissero perplessi, «genti di diverse nazioni, come bergamaschi, schiavoni, albanesi e greci». Molta di quella gente non si confessava da chissà quanti anni; si mormorava che a bordo la sodomia e la bestemmia fossero largamente diffuse, addirittura fra i sopracomiti e i giovani “nobili di poppa” che dividevano la cabina con loro, senza che le autorità veneziane si preoccupassero di punirle col rigore che si usava invece sulle galere “cattoliche”, com’erano chiamate quelle del re4.

Ma ancora più grave era il fatto che nonostante gli sforzi del Venier, memore della cattiva figura fatta col Doria l’anno prima, la flotta della Serenissima era a corto di uomini. Ben 5000 soldati, già imbarcati su galere grosse e navi da trasporto, erano stati trattenuti a Venezia alla notizia che l’armata nemica stava entrando nell’Adriatico, e non avevano potuto raggiungere la flotta. Ufficialmente il Venier sosteneva di avere 20 soldati e 60 scapoli su ogni galera, e aggiungeva che quando la flotta riunita fosse ripartita per il Levante avrebbe fatto scalo a Corfù per imbarcare la fanteria che era rimasta laggiù. Correva voce che Paolo Orsini avesse sull’isola sei o settemila fanti, e il Venier la lasciava correre, benché sapesse benissimo di averne lasciati appena un migliaio. La cifra dei soldati presenti sulle galere corrispondeva invece alla realtà, «non essendovi in tutto più di sei compagnie di fanterie, e quelle malissimo fornite, mal soddisfatte, e peggio in ordine, sotto il Colonnello Pompeo Giustini da Castello». Marcantonio non tardò ad accorgersene, e propose al Venier di aiutarlo ad arruolare altri soldati in Sicilia; ma il vecchio generale, fedele al suo carattere altezzoso, lo assicurò che non ce n’era bisogno, perché la squadra proveniente da Candia avrebbe portato così tanti uomini da pareggiare il conto, e il Colonna fece finta di crederci5.

Il Venier si accorse ben presto che nonostante l’accoglienza trionfale, il soggiorno in quel porto straniero avrebbe comportato parecchie difficoltà. A Messina tutti i prezzi erano raddoppiati, e i mercanti non volevano accettare la moneta veneziana. Il viceré di Sicilia, marchese di Pescara, era gravemente ammalato e morì il 30 luglio, lasciando un vuoto di autorità che aggravò ulteriormente la situazione. Venier dovette negoziare con il procuratore fiscale del re, a cui chiese di poter comprare cordami, granaglie e vino, pagando con l’oro di cui disponeva; l’altro gli rispose di spenderlo pure, se ci riusciva, ma lo avvertì che appena la flotta fosse partita ne avrebbe proibito la circolazione. Promise anche di mettergli a disposizione sedici fornai per far biscotto, e in un primo momento gli consentì di comperare cento botti di vino; poi si rimangiò la promessa, «dicendo, chel voleva tenerlo per la Corte, et, se volevo diece botte per me, che me l’haverie concesse». Alla fine, l’unica facilitazione che il Venier ottenne dall’alleato fu di non pagare il dazio sulle vettovaglie acquistate in città. Il console Spatafora, uno dei più ricchi mercanti di Messina, che curava gli interessi della Serenissima ed era persino stato creato nobile veneziano, rifiutò di fare da garante per prendere denaro in prestito; accettò solo di procurare del grano per il biscotto, ma pretese una caparra prima di esporsi, con grande disgusto del Venier6.

La difficoltà di trovare viveri in quella città poco amichevole e dove tutto era rincarato, insieme alla coscienza che nonostante le sue spacconate doveva per forza procurarsi dei soldati, persuase il Venier a fare una gita in Calabria. Salpato il 6 agosto con 35 galere, accostò a Tropea, dove gli avevano detto che avrebbe trovato vino e reclute; i marinai e i piloti del posto lo avvisarono che non c’era un vero porto, ma dopo tutto, pensò il generale, si era d’estate. A Tropea comprò un po’ di vino, e quanto a soldati «venne uno, che si faceva capitanio, et mi offerse dugento fanti», ma pretendeva tali privilegi che il Venier lo cacciò via. Subito dopo, il temporale sorprese la squadra ancorata presso la costa; le ciurme, che erano composte da rematori liberi e non da forzati alla catena, erano scese a terra, per cui le galere non poterono guadagnare in tempo il mare aperto, e la burrasca le gettò sugli scogli. Otto finirono arenate e fracassate; lavorando tutta la notte si riuscì a recuperarne due, e siccome c’era il sole si portarono in coperta le munizioni e gli armeggi per asciugarli, ma quando vennero sparati i cannoni di bordo per dare il segnale della partenza i barili di polvere su uno dei due legni si incendiarono e lo ridussero in cenere.

Anche il provveditore Barbarigo, che era andato a Patti con sei galere per caricare altro vino, venne sorpreso dal fortunale; la maggior parte dei legni riuscì a rifugiarsi nel porto di Milazzo, ma una galera, partita in ritardo perché aveva la ciurma a terra, si perse nella notte, scambiò una torre costiera per il faro del porto e finì anch’essa sugli scogli, fracassandosi. A Tropea il Venier riuscì a recuperare artiglierie, alberi, vele, ferri e sartiame delle galere spiaggiate, ma buona parte dei rematori ne approfittò per disertare e gli scafi dovettero essere abbandonati. Il generale tornò a Messina con sette galere in meno, e «con molti remi e speroni rotti»; i pontifici lo videro comprensibilmente afflittissimo, anche se si consolava pensando che della stessa disgrazia – come sottolineò con soddisfazione nel suo rapporto – «anco ne gustò il Clarissimo Barbarigo». Ma la catastrofe finì di distruggere la reputazione marinara dei veneziani agli occhi degli alleati: al Granvelle fu riferito che le galere erano andate perdute «per poca pratica de marinai che le governavano». Il Caetani osservò che i veneziani non solo non conoscevano i luoghi, «poiché mai a’ tempi nostri ci è memoria abbiano passato il Faro», ma non erano nemmeno capaci di procurarsi «piloti prattici». Anche il famoso Zuan Vrana, ufficiale di navigazione della flotta veneziana, schiavone di nascita e grande esperto dei mari di Levante, aveva fatto una figura pietosa, ed era colpa sua se le galere erano finite sugli scogli7.

I guai del Venier non finivano qui, come risulta dal suo lamentoso rapporto al Senato. «Per non haver mai riposo, hebbi due travagli grandi, uno de soldati che haveva, et l’altro de soldati che non haveva». I fanti a bordo delle galere protestavano fin dall’inizio del viaggio, sostenendo di non essere stati pagati secondo le promesse. Il Venier garantì che avrebbe dato almeno un anticipo, ma i soldati, eccitati da un capitano, rifiutarono di accettare il denaro, e tre delle sei compagnie si ammutinarono. Una cinquantina di uomini armati si presentarono alle autorità di Messina sostenendo «che morivano di fame», e chiedendo minacciosamente di provvedere. Il console Spatafora e altri gentiluomini andarono a trovare il Venier e gli chiesero, preoccupatissimi, di risparmiare alla città un fastidio del genere. Il vecchio, furibondo, replicò che i soldati avevano rifiutato l’anticipo, e quanto al morire di fame, la sera prima avevano preteso di ordinare la cena a terra, e gli era stata portata in galera. Nel frattempo gli ammutinati, con i loro ufficiali e le insegne, avevano occupato una chiesa, protetti dal diritto d’asilo, e pretendevano la paga promessa, altrimenti si sarebbero serviti da soli.

Alla fine l’ammutinamento rientrò, grazie soprattutto a Marcantonio Colonna, che negoziò con gli ammutinati e li convinse ad accontentarsi dell’anticipo, ma per placarli il Venier dovette farsi prestare più di diecimila ducati. I mercanti messinesi ne fornirono la metà, ma per il resto toccò ricorrere al commissario delle galere pontificie e al gran priore maltese, il che non accrebbe il prestigio già in ribasso della flotta veneziana. Con quel denaro, in compenso, il sopramasser o intendente della flotta oltre a pagare gli arretrati alla truppa poté sostituire un versamento in contanti alla quotidiana distribuzione di biscotto, evitando di intaccare le scorte alimentari: «et se non havessi fatto così, el mi saria mancato, se ben poi Don Giovanni me ne prestò». A cose fatte il Venier calcolò che nel cambio, visti i prezzi del biscotto, il governo ci aveva perfino guadagnato, «a laude di messer Marco Falier mio sopramasser».

In mezzo a queste angustie, il generale veneziano ricevette dal Senato l’ordine formale di mettere almeno cento fanti per galera, il che voleva dire reclutarne diverse migliaia. Marcantonio Colonna, sempre servizievole, mobilitò i suoi amici e parenti, giacché i veneziani lì non conoscevano nessuno. Un gentiluomo calabrese, don Gaspare Toraldo, ne offrì 1200, «ma bisognava, chel facessi colonnello [...]. Io, ancorché mi pareva non havere auttorità di far colonnelli, pur lo feci». Altri intermediari si presentarono, e a tutti il Venier diede denaro, e a conti fatti non ebbe nemmeno la metà dei soldati che gli erano stati promessi, tanto che ancora dopo Lepanto, nonostante il trionfo, il vecchio generale si preoccupava di giustificarsi col Senato, spiegando che in quelle condizioni non si poteva fare altro, e pregando di non essere messo sotto processo, come le severissime leggi della Repubblica avrebbero preteso8.

Da Napoli, il Buonrizzo faceva il possibile per aiutare il Venier, ma anche lui si muoveva fra mille difficoltà. Il viceré aveva concesso a don Antonio Tuttavilla di reclutare 600 fanti in terra d’Otranto per le galere veneziane; ai primi di agosto le compagnie erano pronte, e si aspettava soltanto l’arrivo di denari da Venezia per pagare i soldati e imbarcarli. Prospero Colonna, il cui reggimento era stato trattenuto a Venezia per la difesa della città, era venuto a Napoli e si era offerto di reclutare a tamburo battente mille soldati, e il duca d’Atri proponeva di levarne altri 500; il Buonrizzo fu incaricato di chiedere il permesso al viceré, e prevedendo che non lo avrebbe avuto tanto facilmente, si procurò i buoni uffici di parecchi gentiluomini napoletani che godevano di influenza nel palazzo del governo. La diplomazia veneziana si mobilitò perché gli ambasciatori spagnoli a Roma e il papa in persona scrivessero all’inflessibile cardinale, persuadendolo a cedere. Alla fine il Granvelle concesse a Prospero di reclutare in Calabria e al duca d’Atri di fare lo stesso in Terra d’Otranto, ma bisognò ottenere un permesso speciale perché i soldati potessero uscire dal regno con le rispettive armi, cosa ufficialmente vietata. Per pagarli, il Buonrizzo consegnò a Prospero 3000 ducati in contanti, ma farne arrivare altri 1500 al duca d’Atri in Puglia si rivelò molto più difficile: non si poteva mandarli per via di terra, perché le strade erano infestate dai briganti, e neppure per mare, perché non si trovavano legni. Alla fine si scovò un mercante disposto ad accettare una lettera di cambio da riscuotere a Bari, ovviamente caricando un interesse da strozzino.

Il Buonrizzo aveva ricevuto dall’ambasciatore veneziano a Roma anche 20.000 ducati da inoltrare al Venier, che lo avrebbero aiutato non poco a levarsi d’impaccio, ma l’operazione non poteva essere compiuta legalmente, perché la Sicilia era un regno separato ed era vietato esportare oro dal regno di Napoli. L’unica via d’uscita era anche in questo caso di negoziare delle lettere di credito da riscuotere a Messina, ma la perdita sarebbe stata tale che il Buonrizzo non voleva assumersene la responsabilità. Il Senato gli aveva suggerito di aspettare l’arrivo di don Juan, e di spedire il denaro imbarcandolo sulle sue galere con la complicità dei comandanti, all’insaputa del governo alleato. L’ambasciatore a Roma, informato del progetto, si oppose e ordinò di chiedere il permesso d’esportazione al Granvelle, il quale puntualmente lo negò. Al Buonrizzo non restò che negoziare con diversi mercanti napoletani disposti a concedere lettere di credito su Messina, con molta fatica e grande perdita di tempo, perché nessuno voleva esporsi per più di poche migliaia di ducati; come se non bastasse, a Napoli le operazioni di cambio si facevano solo il venerdì. Ci vollero due settimane per riuscire a spedire tutta la somma, e la commissione richiesta arrivava all’1%, percentuale che il Buonrizzo giudicava scandalosa.

Alla fine di agosto l’ambasciatore veneziano era appena riuscito a completare la spedizione dei 20.000 ducati, quando gliene arrivarono altri 30.000 da mandare egualmente al Venier. Esausto, il Buonrizzo implorò il viceré che gli permettesse di spedirli in contanti, ma incassò l’ennesimo rifiuto; da Roma il cardinal Rusticucci scrisse al collega porporato supplicandolo per conto del papa, ma neppure lui riuscì a smuoverlo. Il Granvelle si dimostrò altrettanto irremovibile quando il Buonrizzo chiese di poter acquistare grano dalla Puglia per mandarlo a Venezia, dove continuava la fame. Il viceré gli spiegò che nutrire la città di Napoli era il più gravoso dei suoi compiti, e poiché alla fine il raccolto di quell’anno si era rivelato deludente, era del tutto escluso che potesse vendere del grano a Venezia: non l’avrebbe fatto, disse, nemmeno se il re glielo avesse ordinato.

Sotto altri aspetti, per fortuna, il Granvelle si dimostrava più disponibile: concesse al papa di reclutare nel regno altri 800 fanti destinati alle galere veneziane, il cui disperato bisogno di uomini non era più un segreto per nessuno, e ordinò alla milizia di Terra d’Otranto di concentrarsi in quel porto, per essere imbarcata al passaggio della flotta. La preoccupazione del Buonrizzo per le cattive condizioni in cui si trovava la squadra del Venier è confermata dal fatto che comprò dal viceré anche 200 remi, anche se poi non riuscì a spedirli a Messina, perché le galere napoletane erano già troppo cariche. L’arruolamento in Calabria e in Puglia, in compenso, procedeva spedito, e il Granvelle concesse che i soldati reclutati per conto di Venezia potessero spostarsi liberamente da un porto all’altro del regno, per concentrarsi a Taranto, dove la flotta sarebbe passata a imbarcarli prima di salpare per il Levante9.

Nel porto siciliano continuavano a nascere problemi per le soperchierie dei militari e l’indisciplina della truppa. Come a Napoli, anche a Messina si ripeterono i tafferugli fra i soldati spagnoli del presidio cittadino e quelli italiani delle galere pontificie. A provocare fu un capitano spagnolo, che con i suoi soldati aggredì una sera gli italiani sbarcati dalle galere per sfuggire alla calura estiva e addormentati sui moli del porto, ferendo parecchi uomini e rubando cappe e spade. Sulle galere toscane si giurò vendetta e anche i soldati imbarcati sui legni veneziani promisero di prendervi parte; già il mattino dopo alcuni spagnoli vennero aggrediti, ma per la sera gli italiani programmavano una spedizione punitiva che sarebbe certamente sfociata in un bagno di sangue. Per fortuna Marcantonio Colonna venne informato in tempo e intervenne energicamente, calmando i soldati e promettendo giustizia. «È stata grandissima fortuna che li Spagnoli non siano stati tutti ammazzati», annota il Caetani il 10 agosto: alla fine c’era scappato un solo morto, e le autorità di Messina avevano acconsentito ad arrestare i colpevoli. «Faremo appiccare un Spagnolo ed un Italiano, che sono stati quasi l’origine», prometteva truce il Caetani; quanto al capitano spagnolo e al suo alfiere, erano in prigione in attesa d’essere giudicati da don Juan, «e credo li farà la medesima festa»10.

Oltre a dover tenere sotto controllo l’irascibile truppa, al Colonna non mancavano altre preoccupazioni. I comandanti veneziani, inquieti per il ritardo delle galere di Spagna e sapendo che intanto «l’armata nemica deve far danno infinito nella Dalmazia ed Albania, senza che loro vi possano rimediare», ora minacciavano di ripartire da soli per cercar di fare qualcosa. Il Colonna, costernato, tentò di persuaderli che ormai don Juan non poteva tardare, ma se proprio non riuscivano a star fermi, propose di concentrare i rematori e i soldati disponibili su 50 galere, che a quel punto sarebbero state velocissime e molto ben armate, e andare a mettersi in agguato a Otranto. Se dare battaglia era impensabile, sarebbe però stato facile mettersi «alla coda» della flotta turca, che secondo tutti i rapporti era a corto di rematori: per cui doveva per forza spostarsi in disordine, lasciando continuamente indietro qualche vascello più lento, di cui si poteva far preda. Se poi il nemico, accortosi del pericolo, avesse voluto tenere unita la flotta e non lasciare indietro i legni “zoppi”, si sarebbe mosso così lentamente che non avrebbe potuto fare gran danno nell’Adriatico, perché i saccheggi e le conquiste, diceva Marcantonio, riescono bene alle flotte «quando arrivano all’improvviso». Quanto a loro, i cristiani con le 50 galere rinforzate sarebbero sempre stati più veloci e in grado di sfuggire il combattimento, «potendoci sempre tirar ne’ nostri porti».

A questo suggerimento il Colonna ne aggiunse uno alternativo, tanto per dar da pensare ai veneziani e guadagnare tempo: e cioè di salpare per la costa barbaresca «ed abbrugiare e pigliare schiavi, e far come loro hanno fatto e dubitiamo facciano in Golfo». Marcantonio sapeva benissimo che i veneziani non avevano nessun interesse strategico in Nordafrica, e non avrebbero mai arrischiato le loro già malconce galere in operazioni che potevano avvantaggiare soltanto il re di Spagna, ma non potevano dirlo, e così il Colonna sperava che alla fine si sarebbero rassegnati ad aspettare, come infatti accadde. Nel frattempo si apprese che alcuni barconi carichi di grano erano stati catturati vicino a Milazzo da sei galeotte turche; non si sapeva se fossero corsari barbareschi oppure un’avanguardia della flotta del sultano venuta in cerca di informazioni, ma i generali cristiani decisero di far uscire 18 galere per cercare di pigliarli. La squadra, al comando del Caetani, ritornò senza aver trovato traccia dei turchi, che come al solito si erano dileguati, ma approfittò comunque della gita per caricare a Milazzo vino e vettovaglie. Intanto il Colonna aveva ricevuto la tragica notizia della morte di sua figlia Giovanna, duchessa di Mondragone: per cui non soltanto lui e tutti i suoi servitori vestirono a lutto, ma le galere furono addobbate con drappi neri. L’etichetta lo imponeva e non si poteva farne a meno, ma ai superstiziosi marinai sembrò un pessimo augurio11.

La firma della Lega obbligava Filippo II a contribuire all’impresa comune con almeno 70 galere, in cambio dell’enorme vantaggio che gli alleati gli riconoscevano accettando che il comando della flotta cristiana fosse affidato a un ragazzo di 24 anni come suo fratello don Juan de Austria. Mentre a Roma si stipulava il trattato d’alleanza, la corrispondenza fra le capitali italiane era piena di preoccupazione riguardo i tempi con cui le galere del re avrebbero potuto entrare in scena. Il Facchinetti scriveva che bisognava fare molto in fretta se si voleva che i veneziani restassero saldi nella decisione di proseguire la guerra: dalla Spagna dovevano giungere notizie certe sui movimenti di don Juan e sui tempi previsti per il suo arrivo, «perché così si mantiene caldo il negotio et li mercanti interessati non havranno modo di guadagnar quelli che sanno poco». Il messaggio, fin troppo chiaro, è che in caso contrario il partito dei mercanti favorevoli alla pace immediata col Turco avrebbe riguadagnato terreno in un’opinione pubblica disinformata e sconcertata. Quando si seppe che don Juan contava di salpare da Barcellona soltanto il 20 giugno, il doge rimase turbato e scontento. Il nunzio cercò di tranquillizzarlo, ma con poco successo: «Sua Serenità è rimasa così così [...]. Io prego Dio che il sig. Don Giovanni venghi quanto prima et sopra tutto che il Re Cattolico si svegli et risenti da dovero et voglia che l’armata combatti». Anche il papa aspettava con impazienza l’arrivo di don Juan, e tormentava lo Zúñiga: «non vede l’ora di vederlo in Italia», scriveva al suo re l’infelice ambasciatore. Alla fine di maggio Pio V non ne poté più e cominciò a scrivere direttamente in Spagna per chiedere che si sbrigassero, «che tardar molto portaria notabil danno all’afflitta misera christianità»12.

Don Juan era arrivato alla corte di Madrid alla fine di dicembre 1570, dopo aver comandato le truppe che avevano faticosamente messo fine alla rivolta dei moriscos nel Sud della Spagna. «Esso è giovane di vinticinque anni, ma non ne mostra però in faccia anchora tanti», riferiva l’ambasciatore veneziano. A febbraio si seppe che due giovani principi degli Asburgo d’Austria, che si trovavano da anni alla corte di Filippo II, dovevano partire per rientrare in patria, e che una dozzina di galere della guardia di Spagna li avrebbero accompagnati da Barcellona a Genova. Il Donà cercò di penetrare i disegni di quella corte segretissima per sapere se don Juan sarebbe partito insieme a loro, ma «non ci è alcuno che lo sappia, o più tosto voglia per ancor dirmelo». Don Juan, però, era combattivo e ottimista, e rallegrò il veneziano dichiarando che appena avuto ordine dal re sarebbe uscito in mare, «perché non ha da far altro che mettersi i stivalli et i speroni, et prender la posta per Barcellona».

A marzo Filippo II decise che anche le galere della squadra di Napoli dovevano venire in Spagna a prendere don Juan, per caricare la fanteria reclutata in Andalusia e «per fare questa passata tanto più honorata et sicura». La notizia non piacque ai veneziani, giacché in quel modo, e sia pure per un’ottima ragione, le galere napoletane anziché avvicinarsi alle loro se ne allontanavano sempre di più. Il Donà si consolò annotando che la partenza dei due principi d’Austria da Madrid era prevista per il 2 aprile, e «in casa si attende a invalisar le robbe». Poi si seppe che i principi erano malati, e non sarebbero partiti prima del lunedì di Pasqua, 16 aprile; mentre le galere di Napoli erano state trattenute per la morte del viceré, e dunque sarebbero arrivate più tardi del previsto. In ogni caso cambiava poco, perché ora gli spagnoli sostenevano che le loro galere non potevano salpare da Barcellona prima del 10-15 maggio: per il momento erano in missione in Barberia, e poi dovevano andare a Gibilterra a prendere la magnifica Capitana da 290 rematori destinata a don Juan, «overo come essi dicono ‘La Reale’».

Il Donà e il nunzio Castagna assistevano allibiti all’accumularsi dei ritardi, di cui il re si scusava ogni volta, sottolineando che lui non poteva farci niente. Alla fine i due principi partirono da Madrid soltanto il 28 maggio, e con un itinerario tale che avrebbero impiegato un mese per arrivare a Barcellona: sicché, spiegavano tranquillamente i ministri spagnoli agli esterrefatti italiani, era chiaro che non sarebbero salpati di laggiù prima dell’inizio di luglio. In realtà il re voleva essere sicuro che il trattato della Lega era stato firmato, prima di lasciar partire suo fratello per l’Italia. Il corriere che portava la grande notizia arrivò a Madrid il 6 giugno, e don Juan «quando il corriero arrivò qui, haveva già li cavalli in casa preparati, et stava con li stivalli in piedi per mettersi in camino per Barcelona», ma come sappiamo è da tre o quattro mesi che quegli stivali erano pronti. Un’ora dopo era partito, e i ministri spagnoli, diventati improvvisamente ottimisti, lasciavano intendere agli ambasciatori italiani che a Dio piacendo per il 10 luglio avrebbe potuto essere a Genova13.

L’ordine di partire giunse certamente graditissimo a don Juan, che da mesi mordeva il freno. «Certo questo è un principe giovane tanto desideroso di gloria, che se il Consiglio che haverà appresso non lo raffredda, credo che se li venirà qualche buona occasione non attenderà tanto al salvar le galere quanto a l’aquistar gloria et honore», osservava il Castagna, ancora col dente avvelenato per il comportamento del Doria l’anno prima. Filippo II, ora che il trattato era firmato, non aveva più motivo di rallentare le cose e ordinò a suo fratello «di darsi tutta la fretta possibile nel suo viaggio». Il lungo memoriale che gli spedì qualche giorno dopo insisteva ancora sull’importanza della rapidità: doveva trattenersi a Barcellona soltanto il tempo indispensabile, e salpare subito per l’Italia. Badasse però a partire con le galere ben provviste di vettovaglie, in modo da non spendere prima del tempo i liquidi di cui l’aveva fornito: «poiché importa molto, come avete capito, che per nessun motivo si cominci a spendere il denaro contante che parte con le galere, e che arriviate in Italia con tutta la somma intatta».

Spedita questa raccomandazione, Filippo II cominciò a preoccuparsi del benessere spirituale dei suoi soldati e marinai. Con don Juan viaggiava il suo confessore, un francescano, insieme ad alcuni altri frati, ma il re desiderava che sulle galere si vivesse cristianamente, e voleva sradicare i vizi della bestemmia e della sodomia; perciò provvide a nominare un inquisitore per la flotta, nella persona di don Hierónimo Manrique, e chiese al papa di confermarne l’autorità «per tutto dove sarà». («Io non voglio già dire che queste sottil maniere di inquisitioni mi piacciano perché in effetto non son di questo parere», commentò l’ambasciatore Lunardo Donà, ma aggiunse che sarebbe stato comunque un bene se anche sulle galere veneziane si fosse pensato un po’ di più alla fede.) L’autorità spirituale aveva bisogno del sostegno del braccio secolare, e Filippo nominò anche un uditore generale della flotta, con autorità di istruire processi; per l’incarico venne scelto il più noto e intraprendente dei magistrati del regno di Napoli, il dottor Morcate, diventato famoso poco tempo prima per l’energia con cui reprimeva il brigantaggio14.

In Italia, intanto, il ritardo di don Juan suscitava crescente turbamento. «Qui si sta con afflittione et sospensione incredibile, non intendendosi nuove del sig. Don Giovanni», scriveva il Facchinetti da Venezia il 23 giugno, e nelle settimane seguenti rincarava: «Questi signori stanno con grandissimo fastidio, non havendo nova alcuna dell’arrivo del sig. Don Giovanni». L’uscita in forze della flotta turca e la sua avanzata nello Ionio faceva tremare tutti, nel timore che il nemico riuscisse a impedire la congiunzione fra le squadre veneziane e quelle del re: «Bisogna che l’armate christiane s’unischino quanto prima, perché è pericolo che ’l Turco passi inanzi et si ponga in sito dove possi impedire la congiuntione di dette armate» scriveva il nunzio il 9 luglio, due giorni prima che il Venier si decidesse a evacuare Corfù e salpare per Messina. «Qui si sta d’hora in hora aspettando l’aviso che ’l sig. Don Giovanni sia giunto a Genova», concludeva il Facchinetti. A Roma l’impazienza non era minore, e non si limitava agli ambienti vaticani, ma contagiava l’opinione pubblica. Del ritardo di don Juan si parlava «in pubblico e in segreto», e lo Zúñiga fu costretto a comunicare al re: «ogni ora che si differisce la venuta del signor don Juan crescono i lamenti di Sua Santità e di tutto il popolo»15.

Partendo per Barcellona, don Juan aveva le idee abbastanza chiare sul numero di galere che doveva portare con sé in Levante: due giorni prima della sua partenza Lunardo Donà glielo aveva chiesto, e «mi ha detto che sarano trenta e tante, et uno delli suoi che era presente, al quale egli si voltò come domandandolo, rispose che sarano trentasette». Al suo arrivo a Barcellona, però, trovò solo le sei della Repubblica di Genova e del duca di Savoia: le galere di Spagna erano in parte a Maiorca, in parte a Cartagena insieme a quelle che il marchese di Santa Cruz aveva portato da Napoli, per caricare la fanteria. Don Juan arrivò il 17 giugno e già il giorno dopo il suo luogotenente don Luis de Requesens scriveva al fratello don Juan de Zúñiga a Roma per denunciare la lentezza con cui si faceva ogni cosa: «il peccato originale della nostra corte di non finire o fare mai niente in tempo e al momento giusto è peggiorato molto da quando non l’avete più vista e va peggiorando ogni giorno». Come se non bastasse, il re aveva fatto partire suo fratello in gran fretta senza dargli un mandato preciso, e il Requesens non era affatto tranquillo:

finora né il signor don Juan né io abbiamo avuto le nostre istruzioni, e non sappiamo una parola di quello che ci comandano di fare; credo che abbiano aspettato a spedirle dopo la nostra partenza perché non potessimo replicare; ma io ho già detto al re e al cardinale e a Velasco che avevo questo sospetto, e che ci comandassero cose che potevamo eseguire.

Il Requesens poteva permettersi di parlare con franchezza, perché da bambino l’imperatore Carlo V lo aveva scelto come paggio per il principino Filippo, ed era stato allevato al suo fianco; ma farsi dare degli ordini chiari dal rey prudente non era facile nemmeno per lui.

Nelle settimane successive la corrispondenza dalla Spagna riflette la crescente esasperazione di tutti coloro che tenevano all’impresa e vedevano il tempo passare senza che nulla fosse pronto. «Mancano vettovaglie, denaro e gente; pensate cosa succederà dopo», scriveva il Requesens al fratello, e aggiungeva che don Juan, benché fremente, non poteva farci nulla. Se a Roma il papa scalpitava, bisognava che lo Zúñiga cercasse di calmarlo come poteva; «quanto a me il rimedio che vorrei sarebbe di tornarmene quest’inverno a casa mia e non uscirne più per tutta la vita». I principi d’Austria erano arrivati a Barcellona da un pezzo, ma le galere di Napoli tardavano ad arrivare dall’Andalusia con la fanteria che avevano caricato laggiù; nell’attesa, le altre galere e la fanteria già imbarcata avevano consumato le vettovaglie preparate per il viaggio, sicché se ne erano dovute ordinare altre. Il nunzio Castagna confermava da Madrid: «Si è trovato tanto mal ordine circa le galere che si pensava che fussero già apparecchiate in Barcellona, che tarderanno molto più di quello che si credeva»; mancavano uomini e biscotto, «et s’era dato fretta a li Serenissimi Principi, et poi sarà stato necessario che essi habbiano aspettato un mese [...]. In somma, il far presto, anzi il non far tardi, non si trova in questo paese».

Non che il santo zelo mancasse: in tutta la Spagna, e soprattutto nei porti del Sud, si parlava della grande impresa contro il nemico della fede. Già ai primi di giugno l’ambasciatore francese a Madrid informava che «si sono imbarcati a Cartagena un gran numero di gentiluomini che faranno il viaggio con don Juan, nella speranza di andare a Cipro a combattere i Turchi, o almeno fare un bell’attacco alla Morea, e vedere di forzare Valona, poiché la Lega è conclusa». Don Juan non era meno impaziente degli altri: già il 21 giugno scrisse al Colonna che aspettava soltanto le galere dai porti andalusi, e che sarebbe partito senza fallo il 2 luglio, data che in quel momento gli sembrava indubbiamente abbastanza lontana. Invece il 6 luglio era ancora a Barcellona, ma restava ottimista: quel giorno scrisse a Roma che sarebbe partito appena arrivate le galere di Napoli, e che le aspettava da un’ora all’altra. Ma le galere del Santa Cruz arrivarono soltanto il 16 luglio, e la flotta al completo salpò il giorno dopo alla volta di Genova. A bordo, fra tante migliaia di persone, c’era anche una spia del sultano, un morisco di Granada, che fece perdere le sue tracce subito dopo l’arrivo nel porto italiano, il 26 luglio; cinque settimane dopo era a Costantinopoli, dove avvisò che le flotte degli infedeli stavano arrivando16.

A Genova, Gian Andrea Doria aveva preparato nel suo palazzo una sontuosa ospitalità, come raccontò Juan de Soto, segretario di don Juan, al suo confratello Antonio Pérez, segretario di Filippo II: «letto ricamato d’oro, tappezzeria dello stesso, camera profumata, poco rumore, mangiare splendidissimo e un bel po’ di riverenze di ambasciatori. D’altra parte, mal di denti, molti ragni, poco denaro». Fra un banchetto e l’altro a palazzo Doria, don Juan sprofondò nel caos dei preparativi incompiuti, che qualche mese prima avevano fatto impazzire l’ambasciatore Mendoza. Credeva di trovare a Genova buona quantità di corsaletti, le armature da fanteria indispensabili per i picchieri, «perché tutta la gente che porto viene disarmata»; invece «mi hanno detto che non ce n’è nessuno». Perciò scrisse al viceré di Milano chiedendogli di mandare subito a Genova tutti i corsaletti disponibili, e di precisarne la quantità, perché così avrebbe lasciato indietro le galere necessarie per caricarli. Non era invece il caso che la fanteria imbarcata in Spagna restasse in porto ad aspettare, con tutti i problemi sanitari che potevano nascere: il marchese di Santa Cruz ebbe ordine di partire subito per Napoli con 14 galere cariche di truppa, e una volta laggiù provvedere a tutti i preparativi, in modo che don Juan non dovesse più perdervi tempo.

L’intendente Francisco de Ibarra, l’unico che maneggiava tutta la contabilità dell’immensa impresa, e che da tempo era arrivato a Genova per preparare l’imbarco della fanteria reclutata in Germania e nel Milanese, spiegò a don Juan che uno dei due reggimenti tedeschi, quello del conte Vinciguerra d’Arco, era già in arrivo alla Spezia, e don Juan de Cardona che era rimasto a Genova ad aspettare l’arrivo di don Juan con 27 galere di Sicilia e di Napoli venne subito mandato in quel porto per imbarcarli. L’altro reggimento, al comando del conte di Lodrone, e quello italiano di Sigismondo Gonzaga erano ancora nello Stato di Milano, in attesa di mettersi in marcia verso La Spezia, ma don Juan non aveva intenzione di aspettarli: si sarebbe occupato il Doria di imbarcare le due coronelias, come gli spagnoli chiamavano i reggimenti, sulle 11 galere di sua proprietà e su altrettante navi da trasporto che l’infaticabile Oviedo era riuscito ad affittare. Senonché, spiegò l’Ibarra a un frastornato don Juan, la fanteria non si sarebbe mossa dal Milanese finché non avesse ricevuto la paga; e il principe, che aveva poco denaro e ordini severissimi di risparmiarlo, scrisse di nuovo al viceré di Milano, pregandolo di anticipare la paga sul bilancio di quello Stato.

Nel frattempo le galere rimaste a Genova caricavano vettovaglie, artiglieria e munizioni, fra cui 16 tonnellate di polvere da sparo per archibugi e il biscotto fabbricato dalla ditta Lomellini. Don Juan era risoluto a partire non appena si fossero concluse le operazioni di carico, e il 31 luglio scrisse al re di essersi imbarcato: erano le nove della sera, e la flotta sarebbe salpata appena il vento lo avesse consentito. Al Doria il principe lasciò istruzioni fin troppo minuziose circa l’imbarco della fanteria alla Spezia: bisognava controllare che non s’imbarcasse gente inutile e non ci fossero imbrogli, ma che la truppa fosse tutta adatta a prestare servizio in una spedizione così importante; non bisognava permettere ai soldati di imbarcare donne, bambini e bagagli «oltre a quelli che vedrà di non poter assolutamente evitare». Stipata a bordo la gente, il Doria doveva mettere a mare le navi trainandole con le galere, e avviarle alla volta di Messina, per poi raggiungerlo a Napoli.

Non sappiamo se il Doria sia stato contento di ricevere da quel ventenne istruzioni così dettagliate, ma in compenso sappiamo che il genovese in quel momento aveva per la testa qualcosa di assai più urgente. Ora che il re aveva accettato di acquistare le sue undici galere, Gian Andrea era impaziente di consegnarle, e avrebbe voluto che don Juan le prendesse in carico già a Genova; ma il principe aveva ordine da suo fratello di prenderle in consegna soltanto a Napoli, perciò la faccenda venne rimandata. Il problema più gravoso, però, era ancora il denaro. Il banchiere Nicolò Spinola, che aveva anticipato 11.109 scudi per l’acquisto di polvere e vettovaglie, accettò di essere pagato in Spagna, sicché per un istante ci si illuse che non fosse necessario toccare i fondi arrivati con le galere; invece bisognò lasciarne una parte a Genova affinché l’intendente Ibarra, dopo aver verificato fino a che giorno erano stati pagati i soldati in arrivo, provvedesse a saldare il resto. Quel che è peggio, bisognò scrivere al viceré di Milano per garantirgli che il denaro da lui anticipato alle truppe sarebbe stato restituito, giacché la corrispondenza con le autorità milanesi lasciava intravedere che a questo proposito stava per scoppiare una grossissima grana: cosa tanto più spiacevole «cominciando una spedizione tanto grande e un’impresa tanto gloriosa, e a cui stanno rivolti gli occhi del mondo, amici e nemici»17.

A Genova s’imbarcarono sulle galere di don Juan diversi nobili italiani che sarebbero rimasti con lui fino a Lepanto: il conte Sforza di Santafiora, generale di tutta la fanteria italiana imbarcata, il principe ereditario di Urbino e quello di Parma, che sarebbe poi diventato il grande Alessandro Farnese, comandante dell’esercito spagnolo nelle Fiandre e uno dei più famosi generali del secolo. Ad aspettarlo, don Juan trovò anche un referendario del papa, che gli fece una gran fretta di andare ad Otranto a raggiungere la flotta veneziana. Don Juan decise di mandare a Venezia don Miguel de Moncada, colonnello di uno dei tercios reclutati in Spagna, per contattare le autorità veneziane e rassicurarle circa il suo zelo. Le istruzioni per don Miguel dimostrano che il giovane principe aveva molto chiara la necessità di non urtare gli alleati:

Dovete stare molto attento che né voi né alcuno dei vostri vi lasciate sfuggire parole di rimprovero per il ritardo con cui i veneziani hanno concluso la Lega e nessun mormorio contro la loro flotta e i loro soldati; anzi bisogna approvare tutto quello che fanno, perché è questo che serve.

Al tempo stesso, il Moncada doveva informarsi sulle forze dei veneziani, scoprire a che punto era fra i cittadini il partito favorevole alla pace col Turco, e soprattutto accertare se la Repubblica aveva ancora abbastanza denaro per continuare la guerra18.

Ma don Juan, e tutti quelli intorno a lui, avevano anche altre preoccupazioni. Forse la più grave in assoluto, che causò a tutti parecchie notti insonni, era quella del titolo da dare al giovane principe. Poiché era un figlio bastardo, Filippo II aveva proibito di dargli dell’Altezza, e ordinato che si accontentasse dell’Eccellenza. La gente qualunque, ovviamente, non se ne dava per intesa e lo chiamava Altezza, ma a corte, sotto gli occhi del re, bisognava stare ben attenti a non commettere errori, e anche l’ambasciatore veneziano si era adeguato:

Ho usato con la persona sua, doppo l’havervi pensato molto sopra, il tituol solamente dell’eccellentia, havendo inteso che una gran parte et quasi tutti li grandi, et la casa del re, così lo trattano, se ben la maggior parte delli altri le dicono altezza. Ma, havendo inteso che fin hora la Maestà del re pare che voglia che se le dia l’eccellentia ho stimato che sia bene di far quello che fa la casa di sua Maestà.

Il Donà sapeva benissimo che don Juan masticava amaro e che sentirsi dare ad ogni momento dell’Eccellenza lo metteva di malumore, ma pensava che le cose si sarebbero aggiustate all’italiana: «Conosco bene che più grata li saria stata l’altezza et che, col progresso del tempo, tutti forse gliela daranno». Ma quando don Juan partì per imbarcarsi, il re pensò bene di spedire precise istruzioni a questo riguardo ai ministri in Italia: per nessuna ragione bisognava che suo fratello ricevesse il trattamento di Altezza nei documenti ufficiali della Lega. Quel che è peggio, il segretario Antonio Pérez ebbe ordine di mandare copia di queste istruzioni allo stesso don Juan, che le ricevette a Barcellona all’inizio di luglio. Insieme ad esse gli giunse l’ordine formale di non prendere nessuna decisione senza il consenso del Requesens, del Doria e del Santa Cruz; il Comendador mayor doveva viaggiare sulla Real e verificare tutta la sua corrispondenza prima che fosse firmata. Il giovane fu sconvolto da questa duplice umiliazione. Scrisse al re in termini insolitamente diretti, obiettando che avrebbe preferito se Sua Maestà si fosse degnata di parlargli di persona sulla faccenda del titolo, perché la cosa avrebbe fatto meno rumore. Sapeva di essere giovane e inesperto, e perciò avrebbe obbedito fedelmente alle istruzioni, attenendosi in tutto al parere di chi ne sapeva più di lui; e tuttavia cominciava a temere che il re non avesse fiducia in lui come comandante della flotta, «e son molte le volte che vado chiedendomi se non farebbe piacere a Vostra Maestà che io cercassi un altro modo di servirla».

L’ordine perentorio di attribuire al principe il trattamento di Eccellenza e non quello di Altezza provocò sgomento anche a Roma. Lo Zúñiga scrisse al re che all’arrivo di don Juan in Italia sarebbero nati dei problemi, «perché le Eccellenze in Italia viaggiano molto basso, e anche in Spagna mi pare che si stanno allargando, e certo queste cose cambiano col tempo». Il papa, poi, non era un gentiluomo, e c’era da temere che queste finezze dell’etichetta spagnola gli sfuggissero, mettendo gli ambasciatori regi in grave difficoltà: «sospetto che Sua Santità tratterebbe di Altezza il signor don Juan se lo vedesse, e allora non so come si potrebbe tollerare che noi ministri di Sua Maestà lo chiamassimo Eccellenza».

Lontano dalla corte, in ogni caso, i dipendenti di don Juan gli davano tranquillamente dell’Altezza, cosa che suscitò la disapprovazione del Requesens. Ma il Comendador mayor era troppo compreso della parte di consigliere che il re gli aveva affidato, e il giovane principe lo ricambiava con una spiccata antipatia, sapendo benissimo che gli era stato messo al fianco «per maestro di scuola et per spia»; per cui, quando gli capitò l’occasione di umiliarlo in pubblico, non se la lasciò sfuggire. Fino a quel momento don Luis aveva pranzato tutti i giorni insieme a lui, e dava per scontato di continuare a farlo, ma alla partenza da Genova don Juan mandò il suo segretario a informarlo che d’ora in poi le cose sarebbero cambiate, e che doveva aspettare di essere invitato. «Il Comendador mayor la prende così dura che minaccia di restarsene nella sua galera», annotò il de Soto alla mezzanotte del 31 luglio, mentre la flotta salpava. Puntualmente, il giorno dopo, un furibondo Requesens scrisse una letteraccia al re, denunciando l’accaduto e presagendo che quella novità «avrebbe fatto gran rumore in Italia». Da quel giorno i rapporti fra i due rimasero pessimi, tanto che ancora dopo Lepanto don Juan dovette scrivere al re per giustificare la sua condotta. «Dio mi è testimone che sono così stanco di questa vita di puntigli e di pranzi che desidero ritirarmi in un romitaggio», sospirava Juan de Soto. «Io sono un martire e garantisco che me ne andrò presto da queste trappole»19.

Partito il 1° agosto da Genova, don Juan arrivò a Napoli l’8, ma siccome i festeggiamenti preparati per il suo arrivo non erano ancora pronti, si fermò a Piedigrotta e fece la sua entrata solenne nel porto soltanto la sera del 9, «con gran satisfattione di questo popolo». Ettore Spinola, che comandava le tre galere della Repubblica di Genova, mandò al suo governo un rapporto poco trionfale. La passerella preparata per lo sbarco si era rotta, e avevano dovuto aggiustarla prendendo legname dalle galere; il Granvelle era venuto a ricevere don Juan «molto mal accompagnato da cavaglieri et gentilhuomini per esser molto mal visto» a Napoli; la Capitana dello Spinola faceva acqua, e bisognava racconciarla; sulle quattro galere dei genovesi Lomellini regnava il malumore, perché al principe durante il viaggio era saltato in mente di farle perquisire, vi aveva trovato 90 balle di drappi ed altre mercanzie trasportate di contrabbando, e le aveva fatte sequestrare sbarcandole a Porto Ercole.

Intanto era arrivato dalla Spezia anche don Juan de Cardona col reggimento tedesco del conte Vinciguerra d’Arco; una moltitudine di fanti erano ammalati, ma il Granvelle non intendeva farli scendere a terra, perché a suo giudizio la situazione sanitaria sarebbe semmai peggiorata, e già il 10 il Cardona ripartì per trasportarli a Palermo con le galere della squadra di Sicilia. Sulle galere di don Juan si cominciò a imbarcare il reggimento del conte di Sarno, e si prevedeva di metterci tre giorni; otto galere genovesi andarono a Gaeta a imbarcare il reggimento di Paolo Sforza. Nel frattempo papa Pio V, dopo aver appreso dell’arrivo di don Juan a Genova, aveva provveduto in gran fretta a far confezionare lo stendardo di comandante della Lega, «che finora se l’era dimenticato», e lo aveva mandato a Napoli dopo averlo benedetto; sicché il 14 agosto il cardinale di Granvelle poté consegnarlo a don Juan con la dovuta solennità20.

Insieme allo stendardo, il papa mandò una lettera in cui deplorava i ritardi accumulati fino a quel momento e invitava a fare in fretta. Don Juan aveva le migliori intenzioni, ma lo scirocco impediva di far vela e gli toccò mordere il freno ancora per una settimana. Nel frattempo il suo temperamento poco accomodante fece cattiva impressione a più d’uno. Il nunzio pontificio riferì irritato che dopo l’arrivo Sua Altezza si era consigliato soltanto col Granvelle, il Requesens e il Santa Cruz, «senza intervento d’alcun italiano». Ma anche col viceré la convivenza si rivelò tutt’altro che facile, e don Juan diede prova di pochissima pazienza. Prospero Colonna lo aveva convinto a graziare un bandito famoso, in cambio dell’impegno a prestare servizio nella spedizione con 300 uomini a sue spese. L’uomo venne a Napoli, garantito da una lettera che don Juan aveva firmato di suo pugno; incontrando un giudice del viceré, gli rispose con insolenza, e quello lo fece impiccare. Don Juan, furioso per questa offesa alla sua giurisdizione, convocò il giudice sulla Real e lo fece senz’altro impiccare all’antenna, senza che il Granvelle osasse protestare21.

Il 21 agosto, con sollievo di tutti, don Juan poté finalmente salpare con 25 galere alla volta di Messina, dove arrivò due giorni dopo. Il Santa Cruz rimase in porto con le 30 galere di Napoli, per scortare sei navi da trasporto che non avevano ancora finito di caricare vettovaglie e munizioni, e per imbarcare la fanteria spagnola arrivata in precedenza; il Doria, con le sue 11 galere, aveva da poco lasciato la Spezia, dopo aver finito di caricare il secondo reggimento tedesco. La persistente dispersione delle squadre spagnole provocò grande irritazione a Roma: il papa chiese allo Zúñiga se per caso lo facevano apposta, e i veneziani osservarono che se la flotta cristiana fosse già stata ad Otranto, quella turca si sarebbe ritirata. Ma in realtà riuscire a coordinare i movimenti di un’ottantina di galere appartenenti a quattro amministrazioni diverse, e a caricare in diversi porti nove reggimenti reclutati fra Spagna, Italia e Germania, facendo alla fine convergere tutti quanti a Messina, non era affatto un’impresa da poco: e va ad onore dei burocrati di Filippo II il fatto che pur fra tanti ritardi alla fine ci stessero riuscendo22.