25. Dove don Juan arriva a Messina, la squadra di Candia si fa aspettare ma alla fine arriva anch’essa, Gian Andrea Doria viene all’appuntamentopensando ad altro, e si raduna una flotta che secondo l’opinione di tutti è molto più forte di quella turca

L’arrivo di don Juan a Messina, il 23 agosto, colse tutti di sorpresa, perché il principe non voleva farlo sapere in anticipo, al punto che una fregata uscita dal porto per vedere di chi fossero quelle galere in arrivo non venne lasciata tornare indietro. Ma se don Juan sperava di entrare senza cerimonie venne deluso: Colonna e Venier fecero in tempo a uscire in mare con tutte le galere e festeggiarlo con l’inevitabile salva d’artiglieria. L’amministrazione comunale di Messina, che aveva speso 5000 scudi per costruire un arco trionfale e non l’aveva ancora finito, pregò don Juan di ritardare l’ingresso in porto fino al mattino dopo. Il principe non ne aveva nessuna voglia, ma fece sapere che comunque sarebbe rimasto a dormire sulla Real; la prima volta che fosse sceso a terra, magari per sentir messa, avrebbe accettato volentieri l’arco trionfale e i relativi festeggiamenti1.

Il giorno dopo, don Juan riunì il suo primo consiglio di guerra come comandante della flotta cristiana. Con un oculato esercizio di equilibri politici che senza dubbio gli costò qualche ora di sonno, convocò nella camera di poppa della Real Sebastiano Venier e Agostino Barbarigo, Marcantonio Colonna col suo luogotenente Pompeo Colonna, e don Luis de Requesens: Pompeo c’entrava poco, e aveva meno autorità di molti altri comandanti esclusi dalla convocazione, ma in questo modo il consiglio risultava composto dai tre generali in capo e dai rispettivi luogotenenti, rispettando scrupolosamente l’equilibrio fra gli alleati. I veneziani premevano per l’azione immediata; da tempo erano «persuasi che la flotta del Turco è così a corto di gente che quella della lega sarà molto superiore». Certo, per muoversi era necessario che oltre alle rimanenti galere ponentine, attese da un giorno all’altro, arrivassero in Sicilia anche le 60 galere di Candia, delle quali non si sapeva più niente, ma i veneziani erano fiduciosi che sarebbero arrivate presto. Don Juan non aveva bisogno di incoraggiamenti, e dichiarò pubblicamente «che si contentarebbe di morire l’istesso giorno pur che si desse battaglia et si superassero gl’inimici»2.

Non tutti, però, erano così entusiasti; meno degli altri i genovesi, che non vedevano perché si dovessero affrontare tanti rischi e tante spese per fare un piacere ai veneziani. Che l’organica alleanza col Re Cattolico avrebbe un giorno costretto Genova a difendere gli interessi dell’odiata rivale era qualcosa che non era mai stato messo in conto, e che provocava parecchi malumori. Ettore Spinola, comandante delle tre galere della Superba, subito dopo l’arrivo a Messina rilevò una diffusa opinione per cui la flotta non avrebbe concluso nulla; perciò informò il suo governo che appena possibile voleva caricare, come tutti gli anni, la seta dei mercanti genovesi e tornarsene a casa, e domandò che per facilitargli le cose gli fosse mandato da Genova un ordine perentorio in tal senso. La seta, a quanto pare, era l’unica cosa che contava e anche il Doria, quando giunse a Messina, venne messo in mezzo a questo scopo; va detto, però, che rifiutò di aiutare la Repubblica a sganciare le sue galere, dato che «tutti gli altri aiutano tutto il loro possibile»3.

Lo Spinola forse era troppo disincantato, ma fra i comandanti dell’armata più d’uno nutriva effettivamente dei dubbi. Ascanio della Cornia sottopose a don Juan un memoriale in cui sosteneva che la flotta del Turco non poteva essere a corto di rematori, visto che aveva catturato tante galere e navi da trasporto veneziane; e neppure di soldati, visto che operava in congiunzione con l’esercito di terra, da cui «può pigliare ognhora quanti soldati vuole». Ma Ascanio si era sempre opposto a correre rischi in mare: già alcuni mesi prima aveva sostenuto che era difficile costituire una flotta cristiana capace di misurarsi con quella turca, che qualsiasi conquista nel Mediterraneo era inutile e che il Turco doveva essere attaccato per via di terra. Il suo era il parere d’un militare, poco entusiasta delle guerre navali, e fu giudicato troppo prudente; ma intanto la flotta non era ancora al completo, e bisognava aspettare. Nell’attesa, uno dei più brillanti capitani spagnoli, il commendatore Gil de Andrade, e il pilota più esperto, Cecco Pisano, salparono con due galere rinforzate di rematori, per avere notizie più precise del nemico4.

Sulla forza rispettiva della flotta cristiana e di quella turca c’erano pareri discordanti. Ascanio della Cornia calcolava che una volta radunate tutte le squadre, i cristiani avrebbero avuto 206 galere e 6 galeazze, mentre la flotta nemica era stimata a ben 250 “vele da remo”. Ma il Colonna osservò che non si serviva l’interesse comune «facendo tanto conto dell’armata nemica per il numero delle vele, che sono in gran parte fuste e vascelli piccoli; et fare sì poco conto dell’armata nostra, che sono duecento e dieci galere, sei galeazze, e trenta navi: che non so quando mai se ne unirà un’altra tale». Irritato, Marcantonio scrisse al cardinal Rusticucci – in cifra, come si usava per la corrispondenza più delicata – criticando chi consigliava la prudenza: Ascanio della Cornia e il conte Sforza di Santafiora, denunciò, sostenevano pubblicamente, a voce e per iscritto, «che non sia bastante l’armata nostra a combattere la nemica, e in tal modo fanno raffreddare l’animo buono del signor don Giovanni». Era un comportamento che rasentava il tradimento, insinuava il Colonna, perché dopo tutto entrambi erano «pur vassalli di Sua Santità», e stavano contrastando deliberatamente l’espresso desiderio del papa5.

La grande questione era quando sarebbe arrivata la squadra di Candia, di cui non si sapeva più nulla. Dopo che la flotta turca si era allontanata dall’isola, i comandanti veneziani si erano concentrati sulla preparazione di un convoglio di soccorso a Famagosta. L’arrivo da Venezia di diverse navi cariche di soldati permetteva di destinarne una parte a Cipro senza indebolire le difese di Creta; ma le galere e i trasporti non erano pronti a salpare, e bisognò attendere. Marco Quirini, che mordeva il freno, il 2 luglio uscì in mare per cercare informazioni, e tornò dieci giorni dopo con la notizia che la flotta nemica se n’era andata verso ponente, e la via era libera. Ma il 14 una nave già caricata di rifornimenti, la Barbara, fu spinta ad arenarsi dalla tempesta, sfasciandosi sotto i colpi delle onde; ci voleva del tempo per recuperare il carico e stivarlo su un’altra nave, e intanto l’impaziente Quirini salpò verso Rodi per avere notizie di Famagosta. Tornò a Candia il 26 luglio, e ci trovò, con sua enorme sorpresa, l’ordine del Venier di raggiungerlo a Messina.

Quest’ordine non piacque affatto ai comandanti veneziani, che consideravano come scopo primario il soccorso di Famagosta. In assenza del Quirini l’altro provveditore della flotta, Antonio da Canal, rimandò a Messina la galera Benedetta, con l’assicurazione che non appena il collega fosse rientrato, l’intera squadra cretese sarebbe partita; ma al ritorno del Quirini si decise invece di ignorare l’ordine, e procedere nell’allestimento del convoglio. Il 31 luglio le galere di scorta erano pronte, ma le navi dei rifornimenti non ancora, a causa di un accumulo di incidenti e negligenze. Pochi mesi dopo, mentre il trionfo di Lepanto oscurava agli occhi del pubblico il disastro di Cipro, il governo veneziano aprì un’inchiesta su questi inspiegabili ritardi cretesi; Marco Quirini e il provveditore di Candia, Marino di Cavalli, si accusarono a vicenda, ed entrambi rischiarono di finire in prigione. Il Contarini, che scriveva proprio in quei mesi la sua Historia della guerra, si permise un rarissimo intervento personale, ricordando che dopo tutto quei ritardi avevano consentito la riunione della flotta cristiana a Messina, mentre non c’è dubbio che se venticinque o trenta galere avessero accompagnato il convoglio a Famagosta, «l’armata della Lega senza esse non combatteva, né cercava giornata; sì che mettasi silentio a tutti, e lodisi Idio di quanto fin qui ci ha donato»6.

A Messina ci si spiegava il ritardo della squadra cretese proprio immaginando che il Quirini fosse andato a soccorrere Famagosta. Anche a Venezia si dava per scontato che la città assediata avesse ricevuto rinforzi da Candia; ma via via che le settimane passavano l’inquietudine aumentava, finché il 25 agosto non giunsero le cattive notizie portate dal sopracomito Benedetti, in particolare il disastro della Barbara, «rotta et sommersa» con 4000 staia di grano. «Il naufragio di questa nave perita in Candia, si può dire in porto, traffigge assai», riferiva il Facchinetti, commentando che di questo passo le galere di Candia non sarebbero riuscite né a portar soccorso a Famagosta, né ad arrivare in tempo a Messina. «Prego il Signor Dio c’habbia misericordia de’ nostri peccati», sospirava il nunzio; e osservava, con inquietudine, che dopo tante delusioni il governo veneziano non era più così bellicoso: «Questi signori, vedendo come passano le cose loro, stanno di mala voglia». A Roma, in quello scorcio di agosto, il papa temeva addirittura che a Venezia si tramasse di richiamare la flotta, col pretesto di volersi difendere «in casa propria» dal nemico7.

In tutta Italia correvano voci incontrollate su quello che stava succedendo nei mari del Levante, e sui motivi per cui la squadra cretese non era ancora arrivata a Messina. Il 7 settembre Zúñiga, da Roma, le riferì al re: «lettere da Corfù dicono che è perché sono andate a soccorrere Famagosta e preso venti e tante galere del turco che stavano a guardia di Cipro, e combattuto tante battaglie che se la metà fossero sicure, i veneziani potrebbero metter su tanta vanità». Ma lo Zúñiga aveva una sua teoria, e può darsi che non fosse così lontano dal vero, giacché la situazione a Creta, dopo il recentissimo passaggio della flotta turca, era tutt’altro che tranquilla: «Quello che sospetto abbia ritardato la venuta delle galere di Candia è che in quell’isola c’è stato un principio di ribellione, e non devono aver osato partire da lì per questo motivo»8.

Fin verso la metà di agosto i provveditori continuarono a sollecitare la partenza del soccorso per Famagosta, senza sapere che la città era già caduta; poi li raggiunse un ordine da Venezia, che aveva impiegato cinque settimane per fare il viaggio fino a Creta. Il Senato, sospettando che potessero nascere difficoltà, chiariva che se il Venier avesse ordinato alle galere cretesi di raggiungerlo, bisognava obbedirgli senza discutere. All’ultimo momento utile, dunque, Quirini e Canal presero la decisione cruciale, senza la quale la battaglia di Lepanto non sarebbe stata combattuta: e cioè di rinunciare a soccorrere Famagosta, lasciare sguarnito anche il mare di Creta, e partire per Messina con tutte le loro 60 galere. Dopo un viaggio senza incidenti, il 2 settembre i due provveditori entravano nel porto siciliano, con enorme soddisfazione di don Juan, del Colonna e soprattutto del Venier, il quale ricorda nel suo pestifero italiano: «Tutti si allegrassimo, et concludessimo tutti tre noi generali di andare a ritrovare il nimico»9.

Il Doria era rimasto a Genova con le undici galere di sua proprietà, più una di Malta che era stata armata a Marsiglia, per sorvegliare l’imbarco del reggimento tedesco del conte di Lodrone e di quello italiano di Sigismondo Gonzaga; aveva a disposizione una decina di navi da trasporto, ma l’intendente Francisco de Ibarra temeva che non sarebbero bastate, «per la gente inutile che l’uno e l’altro reggimento porta con sé», giacché era uso e privilegio dei soldati portarsi dietro donne, figli e garzoni. Gian Andrea mandò Ibarra alla Spezia con 4 galere e 6 navi per imbarcare i tedeschi, e rimase a Genova ad aspettare gli italiani. Gli uomini del Gonzaga giunsero il 14 agosto e lo misero subito di malumore: la truppa era poca, non più di 1300 uomini, e la qualità scadente. Il Doria volle assistere alla rassegna e li vide «molto nudi e disarmati e disobbedienti ai loro ufficiali, e fra loro molti ragazzi». Come se non bastasse, per imbarcarsi non si accontentarono di un anticipo, ma vollero una paga intera in aggiunta a quelle già ricevute in Lombardia. Bene o male il reggimento venne comunque imbarcato sulle navi, che sarebbero giunte a Messina senza incidenti alla fine di agosto. Sempre il 14, l’Ibarra comunicò che l’imbarco dei tedeschi era completato e che le navi sarebbero subito salpate dalla Spezia.

Gian Andrea andò alla Spezia a recuperare le 4 galere, coll’idea di salpare subito per Napoli e da lì per Messina; ma il tempo si guastò, «ed è durato otto giorni come potrebbe essere nel cuore dell’inverno», si giustificò poi il Doria, scontento d’essere sempre criticato per ritardi che non erano colpa sua. Senza voler generalizzare, va detto che s’era nel pieno di quella fase plurisecolare di raffreddamento climatico che gli storici chiamano “piccola era glaciale”, il che vuol dire che piogge e improvvisi freddi primaverili ed estivi erano più comuni che in passato; e la guerra delle galere, condotta con legni così esposti alle intemperie, ne risentiva per forza. Gian Andrea poté ripartire dalla Spezia solo il 23, e giunse a Napoli dopo quattro giorni di navigazione. Subito dopo il suo arrivo, la gran quantità di soldati che intasavano il porto in attesa d’imbarcarsi provocò l’ennesimo incidente: in una rissa fra popolani napoletani e bisoños, come si chiamavano le reclute dei tercios, uno o due spagnoli rimasero uccisi; gli altri soldati spararono all’impazzata per difendersi dalla folla che voleva linciarli e vennero inseguiti fino a Castelnuovo, dove si chiusero il portone alle spalle. Il viceré riuscì a calmare la piazza e ordinò di imbarcare sulle galere tutta la truppa e non lasciarla più scendere a terra.

Mentre si attendeva il vento favorevole scoppiò un’ultima grana. Il Doria era ansioso di consegnare a don Juan le undici galere che aveva venduto al re; a Genova il principe aveva deciso che le avrebbe prese in consegna solo a Napoli, e Gian Andrea aveva obbedito, pur masticando amaro («me ne è risultato grandissimo danno»). Arrivando a Napoli trovò che don Juan era già ripartito, ma aveva lasciato disposizioni perché il viceré prendesse in consegna le galere, giacché il Doria gli aveva spiegato d’essere ormai allo stremo delle risorse finanziarie. Eppure, Gian Andrea scrisse al re il 29 agosto che poiché tutti gli mettevano fretta preferiva partire subito per Messina, rinunciando al passaggio di consegne e restando quindi sulle spese, benché si trovasse «distrutto».

La vera spiegazione di questo strano comportamento è tutt’altra. A Napoli il Doria scoprì che Filippo II intendeva rivendere le undici galere al suo diretto concorrente, l’armatore genovese Nicola Grimaldi, detto “il monarca”. Seccatissimo, Gian Andrea fece sapere in giro che pensava d’impugnare il contratto e mandare a monte l’affare, e partì per Messina, dove arrivò il 1° settembre, quasi contemporaneamente alle galere di Candia. In testa aveva una cosa sola: dopo averci riflettuto e mugugnato ancora per qualche giorno, il 10 settembre si decise a scrivere al re pregandolo di soprassedere, almeno per il momento, alla vendita delle galere, giacché gli sembrava intollerabile che con la roba sua «si dovesse cercare di far grande nella mia terra persona di così poca parte e di sì bassa professione come è Nicola di Grimaldo». In queste condizioni, si può immaginare quanto Gian Andrea fosse concentrato sull’impresa che stava per cominciare, ma badiamo a non imputare soltanto a lui quelle che in realtà erano le conseguenze inevitabili d’un sistema privatizzato di gestione della guerra navale: in un modo o nell’altro, tutti i comandanti di squadra e i capitani delle singole galere avevano in gioco consistenti interessi economici, e se ne lasciavano condizionare non meno del Doria, anche se non possediamo la loro corrispondenza per provarlo10.

Insieme alle galere, tra la fine di agosto e i primi di settembre arrivavano a Messina quasi ogni giorno navi cariche di truppa e di munizioni. Il 24 agosto il Caetani annota l’arrivo delle navi dalla Spezia con il reggimento del conte di Lodrone: «sono 3700 ma la maggior parte ammalati, e ne morono infiniti». Il 28 entrarono in porto le navi da Genova con i 1300 fanti di Sigismondo Gonzaga, e il 2 settembre ne arrivarono altre quattro «grossissime» da Napoli con il reggimento del conte di Sarno. Il 5 settembre giunsero le 30 galere napoletane al comando del marchese di Santa Cruz, il cui ritardo, dovuto anch’esso al maltempo, stava già creando preoccupazione; a bordo portavano la fanteria spagnola del tercio di Napoli «e infiniti cavalieri napoletani avventurieri». Il giorno dopo arrivò don Juan de Cardona, che era andato a Palermo con le 10 galere della squadra di Sicilia e con 8 di armatori privati genovesi; a bordo erano imbarcati il reggimento tedesco del conte d’Arco e «il terzo di Spagnoli vecchi di Sicilia», ovvero i veterani spagnoli del tercio di stanza nell’isola. L’enorme numero di fanti imbarcati stava provocando problemi sanitari: «li nostri soldati tanto tedeschi quanto italiani cominciano a patire et amalarsi, ma molto più li tedeschi», scriveva il Provana; perciò don Juan diede ordine che fossero tutti sbarcati e acquartierati nei villaggi circostanti11.

Ai primi di settembre la flotta che avrebbe combattuto a Lepanto era finalmente riunita nel porto di Messina, con tre o quattro mesi di ritardo sulle aspettative iniziali. Contava ben 209 galere e 6 galeazze, oltre ai trasporti e al naviglio minore12; era dunque un po’ diversa, ma almeno altrettanto forte di quella dell’anno prima, che era salpata da Creta con 180 galere e 11 galeazze. Con l’arrivo della squadra di Candia si ebbero nuove informazioni di prima mano sulla consistenza della flotta turca, e il provveditore Canal, «il quale contò tutta l’armata nemica» vedendola sfilare davanti ai castelli di Iraklion, riferì che era indiscutibilmente più debole di quella cristiana: quale che fosse il numero complessivo dei vascelli, le galere e le galeotte in grado di combattere erano in tutto 168. In queste condizioni non ci potevano più essere dubbi: l’unica cosa da fare, come scrisse il Caetani, era di andare avanti coll’intenzione di combattere il nemico, e anzi con la speranza di fare ancora in tempo a intrappolarlo nell’Adriatico; tanto meglio poi se il Turco, «insuperbito delle vittorie, ci verrà lui ad incontrar noi». In quel caso infatti, «considerando il grande avantaggio sì de’ vascelli, come che si va con gente fresca contro gente che è già stracca e inferma, non se ne può sperare se non la vittoria». Il Doria, dato che alla fine non aveva più venduto le galere, scrisse ai suoi banchieri a Genova ordinando di stipulare un’assicurazione che le coprisse fino alla fine di ottobre: anche se si andava alla battaglia con grandi speranze, la prudenza non era mai troppa13.

Rimaneva, in verità, un problema: ed era la scarsità di combattenti a bordo delle galere veneziane. Il 30 agosto don Juan aveva scritto al vecchio don Garcia de Toledo, il suo predecessore al comando della flotta spagnola, con cui manteneva un intenso contatto epistolare: «Ieri ho cominciato a ispezionare le galere dei veneziani e sono stato nella loro Capitana: Vostra Grazia non potrebbe credere come sono a corto di soldati e marinai. Armi e artiglieria ne hanno, ma non si fa la guerra senza uomini». L’indisciplina che regnava nella flotta veneziana lo lasciava egualmente esterrefatto («non hanno nessun tipo di ordine, e ogni galera va dove le pare»), ma il vero dramma era la mancanza di uomini. Don Luis de Requesens rincarava, scrivendo al Granvelle: dicono che le galere di Candia siano in arrivo, «però se vengono così male armate come le altre che hanno qui, saranno di poco frutto». Nessuno, continuava scandalizzato il Comendador mayor,

potrebbe credere in che modo stanno, perché non hanno marinai né soldati, e la ciurma è tutta di buonavoglia e non stanno ai ferri, e dovunque vadano scendono a spasso a terra; e se poi per il cattivo tempo è necessario partire, bisogna aspettare i rematori, e così sono in grandissimo pericolo di perdersi per qualunque piccola burrasca, e dev’essere una fatica intollerabile navigare insieme a loro, perché è incredibile come sono lenti a fare qualunque cosa.

Ma a tutto questo non c’era rimedio, concludeva rassegnato il Requesens, e «se avessero gente di guerra, si sopporterebbe il resto con pazienza. Dicono che ne aspettano dalla Calabria; però temo che tarderà troppo, e che non ne arriverà qui la decima parte di quello che gli serve»14.

La scoperta dell’impreparazione delle galere veneziane provocò una nuova ondata di recriminazioni in tutta Italia. A Roma i ministri del re se ne lamentarono pubblicamente, e i cardinali, viste le informazioni che ricevevano da Messina, non potevano che dar loro ragione. Gli ambasciatori veneziani replicavano che se la flotta nemica era potuta entrare nell’Adriatico, catturando tante navi cariche di soldati e bloccando l’invio di ulteriori rinforzi, la colpa era del ritardo di don Juan: se la flotta cristiana si fosse riunita alla data prevista dal trattato, tutti quei soldati ora sarebbero stati a Messina. Ma queste giustificazioni non placavano il papa: Facchinetti fu incaricato di comunicare ufficialmente al doge il dolore di Pio V per il fatto che il Venier, un mese dopo il suo arrivo in Sicilia, era ancora «senza soldati, senza munitioni e senza biscotti», e che la Repubblica partecipava alla grande impresa «con galere non solamente inferiori di gran lunga a quelle della Maestà Catholica, ma quasi sproviste et inutili». Venezia, proseguì il nunzio in tono abbastanza sgradevole, doveva dimostrare che «non solamente ha forze grandi nel mare, ma le sa ancho usare; et ben si sa che non i legni combattono, ma i soldati che vi si trovano sopra»15.

In effetti, la fanteria a bordo delle galere veneziane si riduceva ancor sempre alle sei compagnie che avevano portato da Corfù, e che al Caetani erano apparse «molto male in ordine e mezzo abbandonate», anzi sull’orlo dell’ammutinamento16. Il Venier, fin dal primo incontro con don Juan, non poté nascondergli la verità: su 55 galere con cui era arrivato in Sicilia, «ne havevo perso per fortuna di mare, et di fuoco sette; che ero con quarant’otto, non molto ben ad ordine de huomini da spada per le malattie, et presa delle navi» da parte del nemico. Il Venier però aveva fiducia nei colonnelli che stavano reclutando nel regno di Napoli. In tutto aspettava più di cinquemila soldati, «che già sariano ad ordine, se non fossero stati impediti, et ne erano anco impedite le vittuarie dal viceré di Napoli»: la colpa, insomma, era del Granvelle. Don Juan, rassegnato, chiese quanti soldati avrebbero avuto a bordo le galere di Candia. «Risposi, al solito di quaranta in cinquanta, perché le nostre ciurme, tutte combattono. Disse: chi ne haverà di soprabondante, accommoderà gli altri»17.

Don Juan sapeva quel che diceva, perché fin da quando si discuteva il trattato della Lega gli spagnoli avevano previsto l’eventualità di dover soccorrere le galere veneziane con la propria fanteria. Il re aveva chiesto ai suoi commissari di inserire una clausola per cui il generale avrebbe avuto l’autorità di imbarcare o trasferire soldati su tutte le galere della Lega, comprese le veneziane. Il problema era delicato, perché accettare a bordo dei propri vascelli truppe al servizio di un altro sovrano non era affatto ovvio per uno Stato dell’epoca; lo stesso Filippo, per rassicurare i veneziani, suggerì che i soldati destinati a salire sulle loro galere avrebbero potuto giurare fedeltà alla Repubblica. Ai veneziani l’idea era piaciuta pochissimo e i negoziatori spagnoli non avevano osato insistere su un obbligo esplicito, ma secondo Zúñiga era comunque chiaro che se non avessero avuto a bordo la quantità di truppe prevista dal trattato, i generali potevano costringerli ad accettarne altre18.

L’idea, insomma, circolava da tempo, e del resto fin dai primi di agosto il Senato aveva scritto al Venier che «se vi seranno offerti delli fanti», doveva accettarli. A Messina se ne discuteva apertamente: il Caetani scriveva fiducioso che i veneziani «quando si abbia d’andare a combattere l’armata nemica si contenteranno pigliare gente di Sua Maestà sopra le galere», e il 6 settembre – quando ormai tutta la fanteria del re era arrivata e s’era scoperto che ammontava a ben 20.000 fanti – ribadì che don Juan poteva benissimo «darne seimila fanti ai veneziani, i quali li piglieranno senza alcuna replica essendo entrati in tanta confidenza che non si potria immaginare». La gravità delle circostanze aveva rimosso l’ostacolo principale, la diffidenza atavica dei veneziani nei confronti dell’impero spagnolo: erano pur venuti ad ancorare tutta la loro flotta a Messina, «che è più che pigliar soldati sopra galere di Sua Maestà»! L’arrivo delle galere di Candia non cambiò quasi nulla: «sono molto buone ed in ordine di uomini da remo, e in alcuna vi è qualche arciero candiotto, e quasi tutte hanno li loro cinquanta scapoli, altri soldati non hanno». Certamente era escluso che potessero colmare con la loro gente i vuoti della squadra di Corfù, come s’era vantato poco tempo prima il Venier19.

A questo punto don Juan affrontò apertamente il problema con i veneziani, chiedendo loro di accettare cinquemila fanti: 2000 tedeschi, 1500 spagnoli e 1500 italiani. Il Venier, memore dei frequentissimi incidenti che avvenivano tra soldati e marinai di diverse nazionalità, non voleva cedere, ma gli altri lo spinsero ad accettare, e finalmente si decise per 1500 spagnoli e 2500 italiani: vennero rifiutati soltanto i tedeschi, meno adatti alla vita di mare e in gran parte ammalati. «Questi signori veneziani alla fine sono riusciti a decidere di prendere sulle loro galere quattromila fanti di quelli di Sua Maestà», scriveva don Juan con una punta di sarcasmo il 9 settembre. Il trasbordo delle truppe cominciò subito, non senza provocare, secondo lo stizzoso Venier, «molte difficoltà, et molte insolentie de soldati»20.

Si trattava, a questo punto, di aspettare al massimo qualche giorno, perché i fanti reclutati in Calabria arrivassero a Messina, e quelli fatti in terra d’Otranto si radunassero a Taranto, dove poi la flotta sarebbe passata a pigliarli. Ma soprattutto si trattava di aspettare che il tempo, fino a quel momento cattivo, migliorasse abbastanza da consentire alle galere di uscire dal porto. Il 6 settembre don Juan aveva scritto a don Garcia de Toledo, pieno di entusiasmo: «Il 9 o il 10 prossimo, a Dio piacendo, uscirò di qui con la flotta, che andrà così ben schierata e pronta a combattere come se dovessi incontrare il nemico alla bocca del Faro». Il 9 settembre confermava: «Per quanto riguarda le galere di Sua Maestà potremmo partire quando ci pare se ci fosse il tempo adatto»; e concludeva che non gli sarebbe dispiaciuto partire il giorno dopo. Gil de Andrade non era ancora tornato, ma aveva mandato una fregata con la notizia che la flotta turca era uscita dal golfo di Cattaro e ridiscendeva verso Valona, e un avviso giunto da Venezia confermava che il nemico stava ripiegando verso i suoi porti: se si voleva intercettarlo, bisognava fare in fretta21.

Mentre tutti scrutavano il cielo attendendo i venti favorevoli, arrivò a Messina monsignor Odescalchi, nominato nunzio apostolico sulla flotta. Portava a don Juan un Agnusdei di cera consacrata, che doveva proteggerlo dai pericoli del mare, e una lettera personale del papa. Pio V scriveva all’ammiraglio – raccontò divertito il Requesens – «raccomandandogli molto che nelle galere si viva cristianamente e virtuosamente, che non si giochi né si bestemmi, dando ordine su come impiegare le ore del giorno: quelle della mattina in orazioni, e quelle dopo mangiato nell’esercizio militare e marittimo. Insomma dà molti consigli che Sua Santità deve aver dato ai suoi frati quando era priore di Vigevano, e che sarebbe bello se si potessero eseguire nelle galere o altrove. Qui faremo quel che potremo», concludeva sardonico il vecchio soldato22.