4. Dove le galere sono riparate e ridipinte, si arruolano schiavi e vagabondi, i cadì ricevono l’ordine di fornire coscritti, e la flotta imperiale, con gran fatica, si prepara a prendere il mare
I dispacci delle spie e dei diplomatici occidentali spediti da Costantinopoli nel cuore di quell’inverno permettono di cogliere in tutta la sua enormità lo sforzo compiuto dall’amministrazione ottomana, e dalla popolazione dell’impero, per l’allestimento della grande flotta da guerra che sarebbe stata distrutta a Lepanto meno di due anni dopo. Nonostante la difficoltà di far giungere in tempo all’Arsenale le innumerevoli forniture commissionate alle province, la rimessa in sesto delle galere era l’ostacolo più facilmente superabile, una volta che gli operai specializzati ebbero cominciato ad affluire dalle isole dell’Egeo e dalla terraferma greca. Il sultano aveva ordinato al kapudan pascià che 130 galere fossero in grado di uscire in mare la primavera successiva, e i principali rais erano tutti sul posto, a far racconciare e calafatare i propri vascelli.
Particolare attenzione era dedicata alle “galere di fanò”, come si chiamavano in Italia, destinate ai comandanti di squadra e che portavano un grande fanale a poppa, per rendere più facile alle altre seguirle nell’oscurità. Nella flotta turca, come in quelle cristiane, si usavano per questo galere cosiddette bastarde, più ampie a poppa, quindi più spaziose e più stabili delle ordinarie galere “sottili”; ma di solito le galere capitane erano anche più lunghe e imbarcavano un maggior numero di rematori. Alcune delle galere su cui i pascià erano partiti cinque anni prima per l’impresa di Malta vennero rimesse in cantiere all’Arsenale per essere riparate e ridipinte, così che su di esse potessero imbarcarsi i comandanti della flotta; e si chiamarono i doratori per dipingere d’oro «una galea nova fatta a canto il Serraglio, che la chiamano la galea del Signor», su cui correva voce che il sultano in persona si sarebbe imbarcato per Cipro1.
Ma oltre alle galere bisognava allestire la flotta da trasporto, e in dimensioni molto più imponenti rispetto alle dodici maone di cui s’era parlato fino a quel momento. Verso la metà di dicembre arrivò un nuovo ordine al capitano del mare, «che dovesse preparare, oltre le preditte galie, anche cento palandarie per traghettar cavalli». Per arrivare a questa cifra bisognava requisire e adattare le quaranta palandarie che abitualmente facevano servizio di traghetto fra Costantinopoli e la sponda asiatica, e avviare la costruzione delle rimanenti, spedendo maestranze a fabbricarne trenta nel Mar Nero e altrettante nel golfo della Giazza, di fronte a Cipro. I cadì di quelle province ebbero l’ordine di far tagliare il legname necessario, «stando notte et giorno sopra tal negotio, acciò che sia presto finito», e di trasportarlo agli scali marittimi, dove i rais arrivati dalla capitale con i fondi necessari avrebbero provveduto alla fabbricazione. Gli ordini del sultano prescrivevano anche la lunghezza dei nuovi trasporti (30 braccia), il numero dei banchi di rematori (15 per parte), e perfino la collocazione d’un cannone a prua, «quasi a similitudine delle galee». Gli operai avevano l’ordine di non risparmiarsi e preparare i vascelli da trasporto in tempo per l’uscita della flotta: «cosa che a me par molto difficile», commentava con ottimismo il Barbaro2.
Ma queste difficoltà materiali impallidivano rispetto allo sforzo più importante, senza il quale ogni preparativo sarebbe stato inutile, e cioè il reclutamento dei rematori. Una galera sottile aveva 24 o 25 banchi per lato, con tre galeotti ciascuno; cifre che potevano salire fino a 29 banchi e a cinque rematori per le bastarde su cui s’imbarcavano i generali. Questo significa che per armare 130 galere occorrevano ventimila galeotti, e altri seimila per cento palandarie, armate a due uomini per banco: una quantità enorme, per un impero vastissimo ma poco popoloso, e cronicamente a corto di uomini. Già alla fine di novembre il sultano aveva ordinato al capitano del mare di calcolare quante galere si potevano armare nella capitale, «di schiavi, et d’altri che siano soliti servir al remo», una definizione che copre in realtà categorie molto diverse di galeotti. Gli schiavi di proprietà del sultano, dei pascià e dei rais erano sufficienti, di solito, per armare trenta o quaranta galere: «e queste sono le migliori, anzi le sole buone di tutta l’armata turchesca», a giudizio dei veneziani, dato che si trattava di ciurme professionali, avvezze alla fatica del remo3. Un’altra ventina di galere si armavano reclutando nelle taverne immigrati e vagabondi, per lo più greci provenienti da Creta e dagli altri domini veneziani, o disoccupati dei Balcani venuti apposta alla capitale «per affittarsi come galeotti». Questa «gente di piazza e da taverna», come scrivevano con disprezzo i diplomatici veneziani, questi cristiani pezzenti comunemente noti col nomignolo spregiativo di “marioli”, formavano però ciurme eccellenti, tanto che secondo il segretario Buonrizzo le galere armate «de vagabondi greci [...] non erano manco buone di quelle de schiavi»4. Infine, bisognava mettere nel conto i rematori forniti per obbligo dalla corporazione dei barcaioli e da quelle “spregevoli”, come i venditori di vino e gli osti, che dovevano ripagare al governo la tolleranza di cui godevano5.
Quando giunse la notizia che Selim aveva dato l’ordine di registrare queste «ciurme di Costantinopoli», a Venezia si previde, basandosi sui precedenti, che avrebbero permesso di armare 60 galere6. Ma la realtà rimase molto al di sotto, come riferì pochi mesi dopo il Buonrizzo con grande soddisfazione. Gli schiavi detenuti nei bagni di Costantinopoli erano così pochi, per la mortalità, i riscatti e le fughe, che il loro prezzo era salito a cento e più ducati; per quanto i padroni fossero più che desiderosi di metterli a disposizione, per lucrare il consistente salario pagato dal sultano, non bastarono ad armare neanche 15 galere. Anche la disoccupazione era da tempo ai minimi storici, e tanto più ora che fervevano i lavori di ricostruzione edilizia dopo il tremendo incendio, per cui risultò impossibile reclutare galeotti nelle taverne: delle famose galere con equipaggi di disoccupati e vagabondi, risultava al segretario «che non ne armano di queste ne anco una sola»7.
Per armare le galere si dovette dunque ricorrere in larga misura ai coscritti. Sulla carta, il meccanismo era semplice: le comunità cristiane di Rumelia, com’erano chiamate le province balcaniche, e quelle musulmane dell’Anatolia erano tenute a fornirli in base a un’imposizione straordinaria, che il sultano decretava in proporzione al bisogno ogni volta che la flotta doveva uscire in mare. I cadì locali, ricevuto l’ordine, nominavano in ogni villaggio o quartiere un incaricato del reclutamento, che rispondeva del buon esito dell’operazione; una volta radunati gli uomini e trascritti i loro nomi in un registro, li accompagnavano fino a Pera, alla “porta dei Rematori”, dove erano presi in forza dalla flotta. Per completare i ranghi era permesso utilizzare i forzati: qualsiasi condanna, tranne la pena di morte, poteva essere commutata con un periodo adeguato al remo. Questa possibilità offriva ai cadì un certo margine per far fronte al groviglio di richieste d’esenzione, abusi, renitenza e corruzione che si scatenava all’arrivo dell’ordine di reclutamento; ma comunque sembra che i forzati abbiano sempre rappresentato una minoranza delle ciurme inviate a Costantinopoli.
Il sistema era dispendioso sul piano umano, perché la maggior parte dei rematori doveva compiere un lungo viaggio prima di arrivare all’imbarco, e molti si ammalavano e morivano in strada; sicché, per precauzione, il governo richiedeva sempre più uomini del necessario, riservandosi di far lavorare nell’Arsenale la manodopera in eccesso. Per di più queste ciurme improvvisate, composte da contadini non avvezzi al remo erano, per comune consenso, di qualità assai scadente, soprattutto quelle composte da turchi dell’Anatolia, che la popolazione di Costantinopoli disprezzava e chiamava zaccali, cioè “sciacalli”. Quelli che sopravvivevano alla mortalità della campagna estiva, sempre altissima per gli strapazzi, al cattivo nutrimento e alla peste che serpeggiava a bordo delle galere, tornavano a casa con la certezza che l’anno dopo la loro comunità sarebbe stata risparmiata da una nuova coscrizione. Questo sistema di rotazione era evidentemente il più equo, ma garantiva altresì che ogni volta che la flotta del sultano usciva in mare la maggior parte delle sue ciurme fosse composta da gente totalmente inesperta8.
Fin dalla partenza di Selim per Adrianopoli la voce che sarebbe stata decretata la coscrizione correva fra la gente della capitale. Ma solo il giorno di Natale il Barbaro, che aveva i suoi informatori negli uffici, seppe per certo che l’ordine era arrivato: «Heri finalmente gionse il comandamento per li galiotti, et fin qua intendo 30 mila homini», annotò il 26 dicembre. Data l’entità della spedizione, fu richiesto il contributo di tutti i villaggi dell’Anatolia e dei Balcani, esentando solo quelli che avevano già fornito rematori in occasione dell’ultima leva, cinque anni prima, ma senza riconoscere nessun’altra esenzione, neppure per coloro che lavoravano su terre della Chiesa ortodossa o delle fondazioni islamiche. Informando i cadì «che con l’agiuto di Dio voglio mostrar quest’anno nella fazza del mare la mia armata», il sultano ordinò di prelevare un rematore ogni 15 famiglie, scegliendo uomini «robusti e forzuti», pagando loro un mese di salario anticipato, e accompagnandoli a Costantinopoli entro la fine di marzo; quei funzionari che non fossero arrivati in tempo o che avessero portato denaro invece di uomini avrebbero perso il posto9.
È il caso di sottolineare che queste misure prefiguravano per l’invasione di Cipro una spedizione di primissima importanza. In Occidente si riteneva che la scarsità di rematori non avrebbe consentito di armare una flotta così numerosa come quella prevista da Selim.
Non fanno che dire che può armare duecento galere, cinquecento galere; io gli concedo che quando vuole può metterne in mare trecento, però non può armarle più di quanto possa fare io, perché se ha la guerra in Persia, se ne arma settanta farà tutto quel che può e anche di più; e se non ha la guerra, centoventi saranno il massimo che può,
affermava qualche anno prima un autore spagnolo, e concludeva:
Non servono a niente il denaro e la galera se non c’è nessuno per governarla. In tutto il suo stato non ha marinai per più di cento, e anche se li avesse non ha i rematori.
L’ordine di armare 130 galere, da aggiungere alle 20 o 30 delle guardie, significa che l’impresa di Cipro venne presa enormemente sul serio, e che il sultano impose fin dal principio ai suoi sudditi uno sforzo eccezionale: la richiesta di un uomo ogni 15 case era decisamente superiore rispetto a ciò che s’era preteso in altre occasioni10.
Va detto che nell’ordinare le ciurme i ministri del sultano avevano un vantaggio rispetto alle loro controparti occidentali: potevano ignorare, o almeno così credevano, il fattore economico. Come per la costruzione delle galere le forniture di materia prima non erano pagate, ma richieste alle comunità a titolo di contribuzione straordinaria, e i budget che i rais inviati agli scali del Mar Nero portavano con sé dovevano servire soltanto a pagare la manodopera specializzata, così i rematori potevano essere reclutati in gran numero con poca spesa per lo Stato, perché i galeotti cominciavano ad essere pagati dal Tesoro e mangiare il biscotto del Gran Signore solo dopo che la flotta era uscita dai Dardanelli. Tutti i costi precedenti erano scaricati sulle comunità locali, tenute a provvedere il salario per il primo mese, in ragione di quattro aspri al giorno ai galeotti turchi e tre ai cristiani. Certo, il potere d’acquisto dell’aspro, la piccola moneta d’argento in cui si computavano tutti i salari dell’impero ottomano, era in declino11, e il salario giornaliero del singolo galeotto era risibile, se si pensa che gli operai dell’Arsenale, compresi gli schiavi, ne guadagnavano dieci: proprio per questo, però, se si voleva evitare una diserzione generalizzata occorreva garantire ai coscritti il pagamento in un’unica soluzione di una somma più consistente, che raggiungeva facilmente anche i 1000 aspri, la stessa somma pagata ai rari volontari e ai proprietari degli schiavi imbarcati come rematori. Tutte le famiglie che non contribuivano con uomini erano dunque costrette a pagare una pesante imposta; chi poi, sorteggiato per il servizio, voleva pagarsi un sostituto doveva sborsare fino a 1500 aspri, pari a 30 ducati d’oro, per trovarne uno12.
Diversamente da quel che accadeva a Venezia, l’assegnazione di un comandante a ciascuna galera non richiedeva un ulteriore passaggio amministrativo. Mentre i sopracomiti veneziani erano nominati solo al momento di armare il legno per uscire in mare, a Costantinopoli ognuno degli scafi conservati nell’Arsenale era assegnato in permanenza a un rais. Il sultano pagava uno stipendio a tre o quattrocento di questi capitani; il sistema si prestava alla corruzione e agli sprechi, perché quei salari facevano gola e non di rado erano assegnati in via clientelare a gente priva di qualsiasi esperienza, ma l’organico comprendeva comunque anche un certo numero di marinai esperti. Rispetto al mondo cristiano, dove solo i gentiluomini potevano assumere il comando d’un vascello da guerra, era assai più frequente nella flotta ottomana che un membro dell’equipaggio fosse promosso dai ranghi per le sue capacità fino al comando d’una galera. Una volta nominato, il rais era responsabile dei lavori di allestimento, si spostava, se necessario, per sorvegliare la fabbricazione di pezzi e la fornitura di materiali necessari al suo legno, e riceveva per questo fondi pubblici, su cui, inutile dirlo, lucrava; dopodiché restava responsabile della sua manutenzione finché, diciotto o vent’anni dopo, la galera era dichiarata inservibile e radiata dall’organico.
Verso la fine del Cinquecento, quando l’opinione che si aveva in Occidente dell’impero ottomano e della sua potenza militare era in netto declino, i giudizi degli inviati veneziani su questa organizzazione si fecero taglienti, dipingendola come una garanzia di spreco e di inefficienza; ma va detto che all’epoca di Lepanto non s’incontra nessuna opinione così severa. Anzi, il fatto che nelle nomine dei rais la corruzione avesse uno spazio istituzionale appariva addirittura positivo, perché chi aveva speso del suo badava poi a far fruttare l’investimento. Al momento di disarmare, ogni comandante faceva riporre in magazzino dai galeotti, prima di lasciarli tornare alle loro case, i remi e gli armeggi della galera, che continuava ad essere la sua; «e durando tanto il suo essere sopracomito quanto la galera, è forzato avergli estrema diligenza, tenendola in piedi e navigabile più che può, perché ad averne una nuova gli costeria più di ottocento ducati di donativi a diversi». Come in tanti altri campi, il modo turco di fare le cose lasciava ampi margini ai profitti privati, ma alla fine le galere erano armate e messe in acqua, che è quello che interessava al governo13.
Al di sotto del rais, sulle galere musulmane era in vigore una gerarchia di comando che gli osservatori veneziani descrivono come identica a quella in uso sui legni cristiani, con un primo ufficiale o “comito”, che era poi spesso il marinaio più esperto a bordo e comandava effettivamente la manovra, un secondo ufficiale o “sottocomito”, e un capociurma o “parone”, incaricato di amministrare le vettovaglie; quest’ultimo in turco era chiamato odabas¸i, ovvero “capocamerata”, lo stesso termine che designava i capisquadra dei giannizzeri. L’organizzazione di questo gruppetto di “uomini da comando”, che con alcuni subalterni arrivava a otto o nove elementi, era però più stabile nella flotta turca rispetto a quelle cristiane, perché ogni rais appena nominato all’Arsenale sceglieva la sua squadra di ufficiali, che lo avrebbe accompagnato per tutta la sua carriera14.
Per armare le galere occorreva infine l’equipaggio, ovvero i marinai che manovravano il timone e le vele, da non confondere con la ciurma dei rematori: a bordo delle galere i marinai erano dei professionisti, socialmente più stimati dei galeotti. Presso l’Arsenale di Costantinopoli e nelle maggiori basi marittime dell’impero erano iscritti sui registri e regolarmente stipendiati circa 3000 marinai, chiamati azap, un termine che corrisponde letteralmente a quello di “scapoli” usato sulle galere veneziane. Al momento di armare effettivamente la galera, ad ogni rais ne veniva assegnato un complemento; sulla carta il numero degli stipendiati era sufficiente per fornire ad ogni legno venti o venticinque marinai, ma il Barbaro osservò che i turchi, popolo privo di tradizioni marittime, scarseggiavano di personale addestrato. Per una flotta come quella che si stava allestendo in vista dello sbarco a Cipro nessuno si attendeva che i marinai già registrati fossero sufficienti; e fin dall’inizio venne stabilito di reclutare, oltre ai rematori, anche 5000 “scapoli” per servire sulle galere e le palandarie, tramite la coscrizione nei distretti marittimi15.
Questa caratteristica strutturale del sistema ottomano, che traduceva ogni necessità militare in una prestazione gratuita richiesta alle comunità a titolo d’imposizione straordinaria, era certamente molto comoda dal punto di vista del bilancio; ma comportava il pericolo che gli uomini di governo, i quali non dovevano avere un’idea chiara della popolazione effettiva dell’impero, sprecassero uomini con eccessiva compiacenza, sottovalutando il dissanguamento che la coscrizione imponeva al paese. I veneziani notavano con sorpresa, e anche con soddisfazione, che nonostante la sua immensità l’impero faticava a reclutare uomini per la flotta. Qualcuno lo attribuiva ai troppi buchi del sistema, che permetteva di sfuggire all’obbligo corrompendo i reclutatori: «Di gente da remo non sono le galee Turchesche per l’ordinario fornite benissimo [...] sebbene il signor Turco ha paese grandissimo, e potrebbe però aver gente da remo per molto maggior numero di galere, stenta però assai ad armare queste, perciocché i descritti facilmente si liberano con denari che danno alli ministri del Gran Signore». Ma dopo l’enorme sforzo imposto al paese dalla guerra di Cipro vedremo comparire anche diagnosi più dure, che intravedono nell’eccessivo sfruttamento delle risorse umane una debolezza di fondo dell’impero ottomano, fino a concludere che le flotte, «per il gran consumo d’huomini che fanno, sono finalmente la distruttione et disertatione dei paesi di quel Signor»16.
Ma le galere così faticosamente costruite, conservate precariamente nell’Arsenale, e messe in mare quando il sultano lo ordinava, erano della stessa qualità di quelle costruite negli scali della Cristianità? La questione è molto dibattuta, e vale la pena di ritornarci, tenendo presente che i turchi non erano, in origine, un popolo mediterraneo, e avevano deciso solo da poco tempo di armare una flotta potente sui mari quanto lo era il loro esercito sulla terraferma. All’inizio di quell’avventura, gli scrittori veneziani si lasciavano andare a giudizi sprezzanti sulle capacità costruttive dei turchi: «quasi tutte le galee turchesche sono storte et disproportionate», sosteneva nel 1534 un viaggiatore, osservando che il sultano, ogni volta che ordinava di costruire dei vascelli, faceva tagliare il legname sul momento, ed «essendo tutti li legni freschi si mutano et pigliano altra forma». Quest’opinione è ripetuta regolarmente ancora negli anni di Lepanto: secondo Marcantonio Barbaro, i turchi stessi confessavano «che le loro galere sono in tutte le parti inferiori alla bontà delle nostre», e il bailo chiosava: «e veramente è così, e noi non ardiremmo mandar sino in Istria quelli vascelli così condizionati, ch’essi mandano in parti le più lontane, e alle maggiori fazioni». Altri testimoni ripetono che i turchi «costumano di navigare con qualsivoglia sorte di galera quantunque non bene assettata né guernita, come si suole tra noi, senza la convenevole consideratione che si corre di pericolare»17.
Il giudizio, però, non sembra più dover essere riferito alle capacità costruttive, perché dalla metà del secolo altri osservatori le giudicavano ben diversamente. Nel 1554 il bailo dell’epoca apprezzava la direzione del proto dell’Arsenale, proveniente da Rodi, «il quale dà anco il sesto a tutte le galere che si fabbricano di nuovo»; quattro anni dopo un altro inviato precisava: «il sesto di tutte non è molto bello, e prima soleva esser assai peggiore, ma fu un maestro Dimitri rodiotto il quale insegnò a questi molte cose, et il medesimo ha fatto il fratello di uno Zuanne Pappà, il quale era armiraglio della Signoria che si fece turco»; nel 1560 Marino di Cavalli confermava che le galere del sultano «sono assai migliori che non solevano, perché ha uomini esercitati con l’armar che fa così spesso, e perché li corpi delle galere son fatti di miglior sesto che prima, pigliando la forma dalle galere ponentine che hano preso». Quanto al legname verde e alla scarsa durata, l’accusa ritorna ancora regolarmente fino alla fine del secolo, ma è un fatto che nel 1580 l’Arsenale di Venezia custodiva ancora 28 galere turche prese a Lepanto, di cui una sola era giudicata inservibile.
L’impiego di maestranze provenienti dalla Cristianità ebbe certamente un ruolo in questo progresso, e del resto era un fenomeno abbastanza diffuso da preoccupare le autorità veneziane, che fecero di tutto per scoraggiarlo: se un carpentiere dell’Arsenale veneziano, bandito per reati comuni, capitava a Costantinopoli, dove era certo di essere ben accolto, il bailo aveva l’autorità di concedergli la grazia e un salvacondotto per tornare a Venezia. Le costruzioni turche, dunque, non erano più inferiori alle cristiane; quello su cui tutti gli osservatori concordano è piuttosto che molte galere, essendo tenute durante l’inverno in acqua e allo scoperto, inevitabilmente si logoravano, e che quando il kapudan pascià usciva con la flotta si facevano partire, per far numero, anche legni in cattive condizioni. Dovremo tenerlo presente quando constateremo la frequenza con cui qualche galera ritornava in porto subito dopo l’uscita, perché faceva acqua, o seguiremo lo stillicidio di incidenti e naufragi che perseguitò la flotta nei mesi precedenti la battaglia di Lepanto18.
Sotto altri aspetti, le testimonianze coeve rilevano addirittura una superiorità delle galere turche su quelle veneziane. Il Ragazzoni, che nella primavera del 1571 vide la squadra di Perteu pascià ancorata nel Corno d’oro poco prima di salpare, riferiva: «sono le galee turchesche più alte che le nostre, e vogano quasi tutte a un remo solo per banco, tirato per l’ordinario da tre uomini, e sono i loro remi molto più sottili de’ nostri; e dicono usarli in quella maniera perché affannano manco i galeotti». I turchi, in altre parole, al pari degli spagnoli e dei genovesi avevano già adottato la nuova tecnica della voga detta a scaloccio, con un unico grande remo per banco, che semplificava la gestione dei rematori, e a detta di chi l’aveva sperimentata garantiva maggior velocità, lasciava più spazio tra i banchi di voga per i soldati, e permetteva di impiegare al remo, nell’emergenza, soldati e marinai: soltanto i veneziani, a quell’epoca, la consideravano ancora con aperta diffidenza, e continuavano a fornire ai loro galeotti un remo per ciascuno19.
Marino di Cavalli, tornato da Costantinopoli dieci anni prima, aveva già notato l’interesse dei turchi per le innovazioni nella tecnica del remo, anche se non ne era stato impressionato:
Vanno ogni giorno facendo nuove esperienze di voghe, ora con quattro, ora con cinque remi per banco, mettendo tre, quattro e cinque uomini ad un remo; ma per verità non fanno quel proffitto, né riescono loro le cose così bene come nell’arsenale di Vostra Serenità.
In compenso aggiungeva altre considerazioni a favore della tecnica di costruzione turca:
Vogliono le galere allargate per mettervi sopra molti uomini da combattere, salvo che ne hanno da quindici a venti stringate, e tagliate per esser preste [...] perché tutte non vogliono esser grosse, né tutte possono esser veloci. Li sproni delle galere sono posticci, perché se si rompono per qualche sinistro, il vivo non senta nocumento alcuno.
Altri autori veneziani notarono che i turchi collocavano il timoniere in posizione più protetta, mentre «sendo il nostro timoniere al di fuori egli è bersaglio di ogni offesa», e che la velatura era migliore sulle galere turche, le quali complessivamente risultavano quindi più veloci delle veneziane, soprattutto navigando a vela: nel 1557 il generale da mar Cristoforo da Canal, che scortava la squadra di Giafar rais a Corfù, venne distanziato dai turchi che dovettero fermarsi ad aspettarlo20.
Meno chiaro è se la maggiore altezza delle galere turche rappresentasse un vantaggio o uno svantaggio, al di là del fatto che condividevano questa caratteristica con le galere ponentine, cui per consenso comune assomigliavano molto. Qualche trattatista pensava che fosse uno svantaggio, ma ammetteva l’esistenza, anche fra i cristiani, di diverse scuole di pensiero in accanita competizione:
La maestranza delle galee è divisa tra Venetia, Genova e Napoli; quali sieno i migliori, non è da far giuditio, per esser materia odiosa, e i più crediamo noi siano i venetiani; il garbo de’ napolitani e genovesi è tutto a un modo, in farle sollevate di poppa e proda, ancorché in darle il piano vi è qualche differenza tra loro, più per gara che altrimente. Noi [...] laudiamo il garbo de’ venetiani più basso di proda e poppa di tutti gli altri.
Proprio un veneziano, però, Marino di Cavalli, sosteneva che avevano ragione i turchi, i quali «usano far li capi delle galere assai alti, perché non si affoghino tanto nel mare come le nostre, lo che dà ancora maggior vantaggio nel combattere».
È vero che le galere più basse offrivano minor bersaglio all’artiglieria, ed erano avvantaggiate nel collocare la propria. Nei resoconti di Lepanto capita spesso di leggere che proprio per questo l’artiglieria cristiana risultò più efficace: «essendo le prode delle nostre galee basse, ed uguali, non rilevate, come le Turchesche, i tiri poco inalzandosi sopra la superficie dell’acqua, venivano più giusto a ferire i corpi de’ vascelli de’ nemici». Il vantaggio, però, non doveva essere così vistoso, e in compenso le galere veneziane, proprio perché così basse, tenevano peggio il mare, soprattutto a vela. Sta di fatto che perfino a Venezia voci autorevoli elogiavano il modello concorrente: già Cristoforo da Canal sosteneva che lo sperone rivolto all’insù sulle galere ponentine e turche andava meno facilmente sott’acqua e ostacolava meno la corsa, senza contare che all’urto colpiva l’opera morta sfondando le fiancate, mentre quello veneziano, basso e debole, colpiva nel vivo subendo più danno di quello che arrecava; e alla vigilia di Lepanto circolavano lamentele sul fatto che le galere veneziane erano davvero troppo basse, tanto da indurre le autorità dell’Arsenale a prendere in considerazione una modifica dei piani di costruzione21.
Per quanto molti veneziani continuassero a cullarsi nell’illusione che le galere turche, al momento buono, si sarebbero rivelate un avversario non all’altezza delle loro, la flotta che si stava allestendo all’Arsenale era abbastanza poderosa da far venire i sudori freddi a chiunque se ne intendesse davvero. Il giorno in cui le galere fossero salpate al comando dei loro rais, cariche di giannizzeri, di azap, di galeotti e di volontari, le stive piene del biscotto, dei sacchi di riso e fave, dei barili d’olio e d’aceto, e delle casse di aglio e cipolle che dovevano rappresentare per mesi l’unico nutrimento di tutta quella gente, sulle rive cristiane del Mediterraneo ci sarebbe stato motivo di trattenere il fiato22.