19. Dove la flotta turca si riarma ed esce in mare, Sebastiano Venier si dà molto da fare e raccoglie poco, le cose in Albania vanno di male in peggio, e Uluç Alì arriva in Levante
Al termine della campagna estiva era usanza della marineria turca riguadagnare il porto entro il 26 ottobre, giorno di san Demetrio, che gli ottomani chiamavano ruz-i Kasım, «il giorno che divide» l’estate dall’inverno. Le galere di Pialì e del kapudan pascià erano rimaste in mare un mese e mezzo più del solito, giacché rientrarono soltanto alla metà di dicembre; si capisce dunque che fossero in condizioni molto cattive. Come avveniva ogni anno, nel rispetto dei diritti dei sudditi ma con enorme spreco di risorse, tutti i rematori superstiti vennero rimandati alle loro case, e gli uffici provvidero per tempo alla convocazione della nuova leva destinata a sostituirli. Un agente genovese sostenne che erano stati registrati addirittura 80.000 coscritti, e che dovevano arrivare entro la fine di febbraio, «perché vogliono mandar fuori l’armata per tempo». All’Arsenale cominciarono immediatamente i lavori di riparazione: la nave Barbara giunse da Alessandria, carica di stoppa e canapa, oltre che di riso e legumi per il vettovagliamento della capitale, e sei galere vennero da Negroponte, cariche di tela per far vele1.
La notizia che il sultano aveva ordinato la fabbricazione di cento galere nuove, subito rimbalzata in Occidente, si era alquanto ridimensionata: il Barbaro riferì che gli ordini partiti per gli scali del Mar Nero prevedevano di costruire 40 o 45 galere, poi ridusse ulteriormente la stima a 30, mentre 12 erano in fabbricazione a Costantinopoli. Insieme a quelle rientrate a dicembre, alle guardie rimaste nell’Egeo, alla squadra lasciata sotto Famagosta al comando di Arap Ahmet, alle galeotte e fuste dei corsari e a quelle che Uluç Alì poteva portare da Algeri, avrebbero comunque costituito una flotta imponente: almeno 250 vele secondo le informazioni spagnole. Che fosse in corso un’escalation del conflitto non c’era dubbio: «c’è notizia che il Turco arma più dell’anno passato», scriveva Rambouillet da Roma il 30 gennaio. A Venezia si passavano al setaccio gli avvisi cercando di penetrare le intenzioni del nemico, perché una flotta di quelle dimensioni non poteva essere destinata soltanto a rifornire l’esercito di Lala Mustafà impegnato nell’assedio di Famagosta.
Il timore era che i turchi intendessero sbarcare a Creta così come l’anno prima erano sbarcati a Cipro; oppure, e questo faceva ancora più paura, risalire lo Ionio e impadronirsi di Corfù, chiave dell’Adriatico. «L’impeto con il quale questo tiranno s’apparecchia di affrontar la christianità è così grande» – osservava a Madrid l’ambasciatore Lunardo Donà – che solo la firma della Lega poteva frenare le ambizioni del sultano, altrimenti «è grandemente da temere che un altro gran pezzo della povera cristianità [...] sia fatta quest’anno captiva da lui, et pervenga nel suo dominio». Memori dei disastri dell’anno precedente, le spie italiane a Costantinopoli avvertivano perentoriamente i loro governi: occorre stare in guardia e prepararsi per tempo, «et non star fino al mese de setembre, ma bisogna essere sopra li lochi dove se vol far impresa per il mese de magio, che tardando sempre tuto andarà al roversio»2.
Ben prima che la Lega fosse conclusa, Filippo II aveva deciso di intervenire a suo modo per ostacolare i preparativi del Turco. Il re teneva a Costantinopoli qualcosa come 127 agenti segreti, di cui 15 spie regolari e 112 collaboratori occasionali; per pagare tutta questa gente, che costava 5000 ducati all’anno, un uomo viaggiava regolarmente fra l’Italia e Costantinopoli portando in segreto il denaro. Fin dal novembre 1569 era partito per raggiungere la capitale ottomana un gruppo di attentatori capeggiato da un certo Varelis, greco di Corfù e cavaliere di Malta, coll’incarico di attentare alla vita del sultano, di suo figlio Murad e di Josef Nasi, e di provocare un incendio nell’Arsenale. L’impresa si concluse senza nulla di fatto, e il Varelis, tornato in Sicilia, venne messo sotto processo per l’enorme somma che aveva sperperato3, ma altri agenti spagnoli a Costantinopoli continuavano a lavorare nell’ombra. Nel dicembre 1570 il rinnegato corso Soliman bey persuase un gruppetto di giovani schiavi ciprioti, da poco messi a lavorare all’Arsenale, ad appiccare il fuoco nel magazzino principale, dov’erano riposte, oltre a vele e cordami, anche le scorte di polvere da sparo.
La notte del 27 dicembre una fregata che faceva la guardia nello specchio d’acqua davanti all’Arsenale «pasando avanti al magazen sentì il spuzor de brusato» e avvertì il kapudan pascià, che il suo ufficio obbligava a dormire nei pressi. Alì saltò su una fregata, raggiunse il magazzino e dando prova della solita energia riuscì a spegnere l’incendio prima che il fuoco raggiungesse le polveri. Il fallimento dell’attentato deluse profondamente gli occidentali presenti in città: come scrisse al suo re Monsieur de la Tricquerie, «se questa impresa fosse riuscita, il Gran Signore, per quanta diligenza si fosse fatta, non avrebbe avuto modo di avere venti galere in due anni, perché non ha altre munizioni se non quelle che sono nel detto arsenale», e un desolato agente genovese rincarava: se solo «si fosse tardato una ora anchora acorgiersene l’averebe consumato tuto, tuto se consumava et rovinava [...] et li turchi per 3/4 anni non avreber posuto cavar armata de momento». L’unico a non disperarsi fu il Barbaro, il quale sudava freddo pensando a quello che gli sarebbe accaduto se l’attentato avesse avuto successo, e se i «delinquenti», come li chiamava, per giustificarsi avessero attribuito a lui la colpa; per fortuna, concludeva con un sospiro di sollievo, il fuoco era stato scoperto in tempo.
Grazie all’intervento tempestivo del capitano del mare, «quello che messe il fogo» e i suoi complici vennero colti sul fatto; interrogati sotto tortura non denunciarono nessun altro, e finirono impalati. Uno di loro si chiamava Pasquale, come il dragomanno dell’ambasciata veneziana, e il Barbaro passò ancora qualche brutto momento prima che l’equivoco si chiarisse. Il rinnegato corso ispiratore della congiura, «el qual» – scrisse l’agente genovese – «è molto nostro amicho», riuscì dunque a cavarsela («è schapollato»); ma il clima si era fatto pesante, e se non fossero stati scoperti gli attentatori, tutti i cristiani “franchi” di Pera avrebbero corso il pericolo di essere tagliati a pezzi. La Porta ordinò che nessun cristiano osasse avvicinarsi all’Arsenale dopo l’Avemaria, mise sentinelle su tutte le galere e costrinse i rais ad assicurare di persona i turni di guardia.
Filippo II, per nulla scosso, spedì altre due spie, un armeno e un calabrese, i quali confidarono al Donà «che andavano a Costantinopoli per tratar di metter fuoco nell’arsenal», e gli mostrarono i passaporti con cui viaggiavano, da cui risultava che erano già stati altre volte da quelle parti per servizio del re. Avventurieri disposti a rischiare il palo per denaro non ne mancavano: un agente del re di Spagna a Ragusa, pure lui genovese, offrì a Venezia un altro piano per dar fuoco all’Arsenale e affondare le galere che vi si trovavano4.
Ma nessuna di queste trame ebbe successo, e la rete degli informatori cristiani a Costantinopoli non poté trasmettere altro che cattive notizie. L’8 marzo un rapporto insolitamente dettagliato pretendeva che la flotta avrebbe contato 263 galere; da Cipro Mustafà pascià insisteva perché salpasse al più presto, e perciò il capitano del mare si stava muovendo molto in fretta, anche se era difficile che potesse uscire prima della metà di maggio. Per intanto, due grosse maone erano state caricate di artiglieria, palle e polvere per l’assedio di Famagosta, e si era notificato a tutte le navi da carico presenti in porto di tenersi a disposizione, senza esentare neppure quelle che erano già cariche di mercanzie, fossero turche o cristiane.
Non si sapeva ancora chi avrebbe comandato in mare, per via della rivalità fra Pialì e Alì: il primo aveva chiesto al sultano di dargli il comando senza doverlo dividere col kapudan pascià com’era avvenuto l’anno prima, e in quel caso – diceva – era pronto ad andare a cercare dovunque la flotta cristiana e attaccarla, quand’anche avesse contato 400 galere. Per le forze terrestri, proseguiva il rapporto, erano stati decisi due comandi separati: Perteu pascià avrebbe investito Zara, mentre Ahmet pascià doveva reprimere i moti di rivolta in Morea e in Albania5.
La Porta era ben informata del trattato che si stava negoziando a Roma, e non intendeva lasciarsi cogliere impreparata. Fin da febbraio diversi rapporti dei bey di Bosnia e d’Albania riferivano che la flotta veneziana era a Corfù e sperava nell’arrivo di quella spagnola. Si sapeva che una squadra di 30 galere era rimasta a Creta e si diceva che fosse a corto di rifornimenti, tanto che progettava di catturare le navi da carico che portavano grano a Costantinopoli dall’Egitto e dalla Siria. I visir erano inquieti e decisero di rafforzare le guardie in mare, concentrando una consistente forza d’attacco a Rodi, nella posizione migliore per controllare l’uscita dei veneziani da Candia e al tempo stesso sorvegliare le acque di Cipro. Una squadra di 15 galere e una galeotta, al comando del famoso corsaro Kaya Çelebi, uscì dalla capitale il 23 febbraio, carica di truppe da sbarcare al campo di Lala Mustafà, per poi unirsi alle guardie di Chio e di Rodi. Il vecchio corsaro Shuluq Mehmet, kapudan della guardia di Alessandria, che gli italiani chiamavano Maometto Scirocco, doveva salpare anch’egli per Rodi con le sue galere e prendere il comando della forza riunita, per impedire al nemico di portare soccorso agli assediati di Famagosta6.
Ma prima che queste misure fossero implementate, arrivò come un fulmine la notizia della devastante incursione di Marco Quirini a Cipro. Seguendo la buona abitudine di raddoppiare la forza del nemico per giustificare un insuccesso, Lala Mustafà scrisse che i veneziani erano arrivati con 24 galere e 5 trasporti, sbarcando una gran quantità di truppe e di rifornimenti, e che ormai per prendere Famagosta anche lui aveva bisogno di rinforzi. Il sultano si presentò furibondo al divan e fece passare un brutto quarto d’ora ai ministri presenti, i quali non mancarono di spiegare che la colpa era proprio di Mustafà: era stato lui a dare l’ordine di far rientrare la flotta, assicurando che otto galere gli bastavano per impedire ai cristiani di soccorrere Famagosta.
A pagare per tutti, però, furono i comandanti delle guardie, a cui quell’inverno era stato lasciato un numero di vascelli superiore al solito proprio per evitare un caso del genere: un’inchiesta rivelò che la partenza della squadra di Marco Quirini da Creta era stata segnalata, ma le galere delle guardie erano in cattivo stato e senza rematori, per cui non avevano potuto salpare. Il bey di Chio fu decapitato e quello di Rodi degradato, e si provvide a nominare d’urgenza un nuovo responsabile della difesa navale. Mehmet bey, sangiacco di Negroponte – che sarà poi il più altolocato fra i prigionieri catturati a Lepanto e racconterà ai suoi carcerieri molti ragguagli «de’ fatti e consigli de’ Turchi», tanto che possiamo considerarlo come la fonte di gran parte delle informazioni riferite dagli storici cristiani – ebbe l’ordine di radunare tutte le galere in servizio nell’Arcipelago e portarsi a Chio in attesa di ordini. Per renderlo più zelante il sultano lo avvertì che se avesse fallito rischiava il palo7.
Ma la decisione più gravida di conseguenze fu quella di affrettare l’uscita del kapudan pascià, mandandolo fuori con tutte le galere già pronte, anche se gli organici dei rematori e dei soldati non erano completi. Si era ancora ai primi di marzo, una stagione troppo precoce per uscire in mare; di lì a poco, del resto, si seppe a Costantinopoli che le galere uscite con Kaya Çelebi erano state sorprese dalla tempesta e che quel rais ne aveva perdute ben sette. Eppure il 16 marzo Alì baciò le mani del sultano, e accompagnato da tutti i pascià s’imbarcò sulla sua galera decorata di banderuole verdi, il colore dell’Islam, facendo vela verso Bes¸iktas¸ per pregare sulla tomba del Barbarossa; poi salpò per il viaggio senza ritorno che sarebbe finito a Lepanto quasi sette mesi dopo. Aveva con sé, secondo il conteggio più credibile, 26 galere, 3 fuste, 10 palandarie, 3 maone cariche di artiglieria e munizioni e le 2 navi veneziane sequestrate un anno prima, Balba e Bonalda. Il fatto che una parte consistente della flotta fosse uscita dal porto così presto, oltre un mese prima del giorno di san Giorgio, sarà poi ricordato dai cronisti turchi per argomentare che le sue condizioni, al momento della battaglia, dovevano essere ancora peggiori di quanto non fossero di solito alla fine d’una campagna8.
A Chio il capitano del mare si unì con le guardie del bey di Negroponte, alcune delle quali, però, dovettero essere lasciate indietro, perché avevano la peste a bordo; poi fece vela per il Levante, radunò le guardie di Rodi e di Alessandria e con una forza che toccava ormai le 80 galere andò a caricare truppe, zappatori e munizioni che i sangiacchi locali avevano fatto affluire nei porti di Finike e di Tripoli. L’ultimo giorno di marzo era a Famagosta e cominciava a sbarcare i rinforzi per l’esercito di Mustafà, che coll’arrivo della buona stagione si preparava a riprendere le operazioni di assedio. I rapporti degli agenti occidentali insistono sull’enorme numero di zappatori che le comunità anatoliche avevano dovuto fornire, da 12 a 15.000, senza contare le 20.000 carrette e i 40.000 sacchi di tela per i lavori d’assedio; è probabile che Alì abbia anche sbarcato i 1500 giannizzeri che aveva caricato a Costantinopoli. La flotta si trattenne a lungo nelle acque cipriote, facendo più volte la spola con i porti della terraferma, e reclutando rematori fra la popolazione greca di Cipro; sarebbe ripartita solo a maggio, quando ormai anche il resto dell’armata aveva lasciato Costantinopoli e tutto l’Egeo era in fermento9.
Dopo la partenza del kapudan pascià si continuò a lavorare intensamente per far uscire il grosso della flotta, e tutti si chiedevano quali ordini avrebbe ricevuto. Già il 19 marzo uno dei soliti, informatissimi agenti spagnoli avvertì che Pialì pascià, date le sue rivalità con gli altri comandanti, aveva chiesto di essere dispensato dal comando, perciò la flotta sarebbe salpata sotto il comando di Perteu pascià, serdar delle truppe imbarcate. La decisione aveva suscitato il malumore della gente di mare, perché Pialì era molto popolare, e l’anziano Perteu aveva esperienza nelle campagne terrestri, ma nessuna della guerra navale. In ogni caso la flotta non poteva entrare in mare prima della metà di maggio, poiché le galere in fabbricazione nel Mar Nero e a Nicomedia non erano ancora arrivate; anzi, si era dovuto mandare nel Mar Nero un vascello carico di pece, che laggiù mancava. Si requisivano navi da trasporto e caramussali per accompagnare la flotta, che evidentemente avrebbe imbarcato un’armata considerevole, giacché era stato nominato un serdar; Selim voleva prendere Famagosta prima che nascessero complicazioni, e mandava a Cipro anche 1200 sipahi della sua guardia. Se l’assedio si fosse concluso abbastanza in fretta, la flotta si sarebbe spinta fino a Creta, «per vedere come stanno quei popoli»: sull’isola, infatti, c’era carestia, e i cretesi sapevano bene che passando sotto il sultano, padrone del grano del Levante, non avrebbero più patito la fame10.
Alla fine di aprile erano arrivate all’Arsenale le prime galere nuove costruite nel Mar Nero, e Perteu era pronto a salpare. Il Ragazzoni, appena giunto in città, prese informazioni e seppe che in tutto c’erano in ordine 80 galere, ma non si sapeva ancora dove le avrebbero mandate. Il 2 maggio l’inviato veneziano andò in barca da Costantinopoli a Pera insieme al dragomanno Ibrahim bey, «e passando l’acqua mi mostrò detto signore Ibraim un numero grande di galere dicendomi, che quelle erano apparecchiate contro di noi; al che io risposi, che troverebbero buon riscontro». In realtà le galere erano pronte fino a un certo punto: secondo il rapporto d’una spia napoletana erano tutte a corto di rematori, e una decina completamente vuote. In quei primi giorni di maggio Perteu pascià reclutò freneticamente e senza troppi scrupoli, arruolando gente di tutte le nazionalità a Pera e a Costantinopoli, e il 3 maggio le 80 galere salparono; in casa del Barbaro si temeva che facessero vela direttamente verso l’Adriatico. L’enorme folla che si era assiepata sulla riva e sulle mura per vederle partire e per dare l’ultimo saluto agli amici, ai mariti, ai figli continuò a lungo a chiedersi come mai Pialì non avesse preso il comando; secondo qualcuno non era stato lui a chiedere di restare a casa, ma era caduto in disgrazia per non aver distrutto la flotta veneziana a Creta, e solo il fatto d’essere genero del sultano gli aveva evitato qualcosa di peggio11.
Oltre alle operazioni della flotta, la Porta aveva deciso l’invio di un esercito terrestre nei Balcani, al duplice scopo di reprimere i focolai di rivolta ed essere pronta nel caso di complicazioni con gli Asburgo in Transilvania. Il primo di quei focolai era in Morea, nella penisola di Mani, da dove i ribelli nel corso dell’inverno avevano continuato a scrivere alle autorità veneziane chiedendo aiuti e soprattutto armi. Il Venier, a Candia, parlò con i loro inviati, ma prima di impegnarsi mandò un uomo di fiducia sul posto, per vedere se c’era una fortezza che i ribelli potessero prendere e tenere. A Venezia, il governo assicurò agli inviati dei ribelli che in caso di conquista della Morea avrebbe rispettato la religione ortodossa, e promise l’invio di picche, archibugi e corazze. In realtà, però, la rivolta greca dopo i successi dell’estate precedente languiva, e non pare che abbia impensierito i turchi più di tanto12.
Più grave era la situazione in Albania, da dove giungevano frequenti rapporti, fors’anche gonfiati, di attacchi contro i presidi turchi, di reparti ottomani sorpresi in marcia fra le montagne e tagliati a pezzi, di clan che decidevano di mettersi sotto la protezione di San Marco e della Chiesa cattolica. Il rettore veneziano di Antivari, Alessandro Donà, uscito dalla città con cavalleria e archibugieri compiva feroci spedizioni punitive contro i villaggi che si mantenevano fedeli ai turchi, bruciando le case e massacrando i civili, e distribuendo premi in denaro ai molti capiclan che non aspettavano se non l’occasione di ribellarsi. I soliti faccendieri erano all’opera, come quel capitano albanese residente a Milano che ritornò clandestinamente in Cimara e da lì scrisse d’essere pronto a far sollevare interi villaggi, purché, s’intende, non gli fossero lesinati i finanziamenti. I comandanti veneziani a Corfù sbarcavano volentieri qualche compagnia di fanteria per aiutare i ribelli nella conquista d’un forte, e conferivano con i loro capi che proponevano imprese clamorose, magari anche la presa di Durazzo, di Scutari o di Alessio; ma un capitano mandato a ispezionare la costa tornò riferendo che quelle degli albanesi erano tutte vanterie, e che nessuna di quelle imprese era realizzabile13.
L’arrivo di Sebastiano Venier a Corfù dette nuovo impulso alle azioni di sostegno ai rivoltosi. Il vecchio gentiluomo aveva saputo il 2 febbraio d’essere stato nominato al comando della flotta, e aveva tirato un gran sospiro di sollievo, perché temeva invece d’essere punito per non aver raggiunto il suo precedente comando a Famagosta. Prima di partire da Candia, lavorò ancora un mese e mezzo per riarmare le galere rimaste sull’isola, combattendo con difficoltà d’ogni genere: i magazzini dell’Arsenale erano pieni di attrezzature di seconda scelta, qualche galera mal ormeggiata aveva imbarcato acqua e bisognò riportarla a galla, le corporazioni cittadine che dovevano fornire gli scapoli facevano ogni sorta di obiezioni, gli uomini già reclutati anziché dormire in galera risultavano assenti alle ispezioni, i controlli rivelavano sempre nuovi imbrogli nel traffico dei sostituti, e i gentiluomini locali nominati al comando delle galere non mostravano nessun entusiasmo, «perché quelli sopracomiti, dove non vedono sua utilità, sono più freddi che giaccio». Finalmente, il 18 marzo il generale partì da Candia con otto galere al comando di Marco Quirini. Durante il viaggio si tennero entrambi in esercizio: a Cerigo il Venier mise sotto inchiesta il castellano, accusato dalla gente del posto di aver confiscato illegalmente denaro e mercanzie appartenenti a cristiani, sotto il falso pretesto che erano sudditi dei turchi, e a Zante fece una scenata ai sopracomiti dell’isola per il ritardo con cui armavano le loro galere; il Quirini fra Zante e Cefalonia prese una fusta di quattordici banchi, comandata da Veli reis14.
Arrivato a Corfù il 1° aprile, il Venier ricevette dal Barbarigo, che l’aveva preceduto, il comando della flotta e cominciò subito a studiare qualche iniziativa sulla costa, che conosceva bene per aver comandato lì l’anno prima. Il capitano Manoli Murmuri, che lui stesso aveva lasciato al comando del forte di Sopotò, scriveva che i turchi dal vicino castello di Gradici stavano reprimendo con successo la sollevazione albanese, «et se gli davo duecento fanti, gli bastava l’animo di prenderlo». Il vecchio generale non vedeva l’ora di menar le mani e partì personalmente «per non star in otio, ancorché fossi mal gagliardo per doglia di fianco», in compagnia del Barbarigo, con 14 galere e 300 fanti. Giunto a Sopotò, lasciò i soldati al capitano Murmuri coll’incarico di studiare a fondo l’operazione, poi ripartì e attraccò all’isoletta del Saseno, di fronte alla base turca di Valona. Lì lo scirocco bloccò le galere, impedendo di tornare a Corfù, e il Venier decise di approfittarne per risalire ancora più a nord e comparire di sorpresa davanti a Durazzo, avendo notizia che si trovava lì uno dei corsari più temuti dell’Adriatico, Kara Hogia, con sole tre fuste.
Arrivato a Durazzo non ci trovò il corsaro, e decise di provare ad attaccare il porto; ma le sue galere si erano disperse durante il viaggio, sospinte dallo scirocco. Prima che le avesse riunite tutte, la fortezza era in allarme e i suoi cannoni cominciarono a tirare, ma il Venier venne raggiunto da altre otto galere provenienti dal Golfo, al comando di Gabriele da Canal detto il Canaletto, e si sentì abbastanza forte da proseguire l’azione. Il cannoneggiamento continuò per tutta la giornata. Il Venier avrebbe voluto sbarcare gente, e occupare con gli archibugieri il ponte che univa la città all’entroterra, per impedire l’arrivo di rinforzi, ma i militari sconsigliarono di tentare lo sbarco finché le difese non fossero state ammorbidite a sufficienza. Il risultato fu che i turchi riuscirono a far entrare nella fortezza attraverso il ponte una gran quantità di cavalleria, e alla fine le galere, rimaste a corto di munizioni, dovettero sospendere l’azione. Masticando amaro contro l’incompetenza dei militari, il Venier tornò a Sopotò, per vedere come andavano le cose; ma anche lì andavano male. La cavalleria turca sembrava essere dappertutto, i soldati partiti per prendere il forte di Gradici erano tornati indietro avendo perduto una ventina fra morti e prigionieri, «et ognihuno si escusava, cercando buttar la colpa adosso il compagno»15.
A Venezia, la notizia che il Venier era uscito in mare e operava congiuntamente con i ribelli albanesi suscitò grandi speranze tra i fautori della guerra, e preoccupazioni altrettanto grandi fra quei patrizi che sapevano della missione del Ragazzoni, speravano nella conclusione della pace e temevano «che il general Veniero, per la ferocità del suo genio, sia per tentar qualche cosa che habbia da irritare il Turco ogni dì più». A un certo punto si sparse la voce che aveva preso Durazzo e stava per prendere Valona; ma i giorni passavano, non arrivavano conferme e gli animi si raffreddavano sempre di più, finché il 19 maggio il nunzio annotò malinconicamente: «la presa di Durazzo non fu vera et il generale era tornato a Corfù»16.
Ma intanto l’illusione che appoggiando la rivolta albanese fosse possibile ottenere un successo strategico contro le basi turche della costa adriatica aveva prodotto conseguenze ben più catastrofiche. Il marchese Giacomo Malatesta, nominato governatore generale in Albania, si era imbarcato ai primi di aprile con ben 3000 fanti e dopo la metà del mese era giunto a Cattaro. I suoi ordini erano di prendere contatti con i capi ribelli e concordare con loro qualche grosso colpo, ad esempio la presa di Alessio, che non avrebbe potuto resistere a una forza così consistente. Arrivato a Cattaro il Malatesta, che non conosceva il paese, rimase molto sorpreso scoprendo che i villaggi delle montagne circostanti erano tutti fedeli al sultano e abitati da quelli che gli italiani chiamavano martellosci e il governo ottomano martolos: sudditi cristiani che godevano di piccole concessioni fondiarie esenti da tasse e di tutti i privilegi del ceto militare, in cambio del loro servizio in guerra. Quando da uno di quei villaggi i martellosci vennero a razziare nei dintorni di Cattaro, portando via schiavi sotto il suo naso, il militare appena arrivato dall’Italia si offese e decise su due piedi una spedizione punitiva.
Uscito con 300 soldati scelti, Malatesta raggiunse il villaggio fra le montagne, lo mise a sacco e lo bruciò, ma al ritorno, forse anche per un tradimento delle guide, i montanari lo sorpresero in un cattivo passo e cominciarono a far franare massi sulla strada. I soldati, appesantiti dal bottino, tennero duro per un po’ sotto la pioggia di pietre e di archibugiate, poi si sbandarono. I villani irruppero in mezzo a loro e catturarono il Malatesta con cinque o sei dei suoi capitani, ammaccati dai sassi nonostante le armature. «Questa disgratia» – commentò il Facchinetti – «ha dato qui grandissimo fastidio, et per la cosa in sé et perché il sig. Giacomo era destinato in Albania, dove quei popoli erano in armi, et si credeva che potesse far qualche progresso». Nei mesi successivi la corrispondenza diplomatica contiene molte notizie sulla prigionia del Malatesta, uomo importante per il cui riscatto i turchi chiedevano 10.000 ducati. La famiglia, negoziando, riuscì a ridurli a 3000, e papa Pio V si offrì di pagarne una parte, ma il Malatesta venne liberato solo dopo un anno di prigionia nella torre del Mar Nero a Costantinopoli e un intervento personale del re di Francia, a cui Selim volle fare una cortesia. A Venezia lo smacco fece temere che gli insorti albanesi, delusi da un alleato così inefficiente, cercassero l’accordo col sultano, e il Venier ebbe ordine di fare di tutto per evitarlo17.
Benché i ribelli avessero ben pochi successi di cui vantarsi, la Porta prendeva la situazione abbastanza sul serio da decidere di farla finita. Fin dal pieno dell’inverno l’invio di grano in Schiavonia e la costruzione d’una nuova strada attraverso le montagne della Cimara facevano prevedere che un esercito sarebbe entrato in campagna nei Balcani. Il comando della spedizione venne affidato ad Ahmet pascià, compagno di bevute di Selim, il più gioviale e incompetente fra i cinque visir: ora che Pialì s’era tirato da parte, i comandanti esperti cominciavano a scarseggiare. Partito da Costantinopoli il 29 aprile, Ahmet raggiunse Skopje con 1000 giannizzeri, 2000 sipahi della Porta, 3000 sipahi d’Anatolia e 18 pezzi d’artiglieria, e attese che lo raggiungesse la cavalleria timariota di Rumelia radunata da Hüseyin pascià, beylerbey di Grecia. Finché stava lì, la sua sola presenza era sufficiente a intimorire i ribelli albanesi, a scoraggiare ribellioni dei principi vassalli in Transilvania o in Valacchia, e a tenere in allarme i veneziani, giacché quando si fosse mosso non avrebbe impiegato molto per comparire in faccia a Corfù18.
Con l’uscita della flotta di Perteu pascià e l’approssimarsi dell’esercito terrestre, i veneziani percepirono l’addensarsi della minaccia sull’Adriatico e sulla costa dalmata, alle porte di casa. Durante l’inverno le operazioni militari avevano subìto il solito rallentamento: qualche colpo di mano, un’incursione di cavalleria nei dintorni di Cattaro, la presa da parte dei turchi d’una torre di guardia presso Zara, e poco altro; ma la trama sotterranea dei complotti e degli attentati continuava a fermentare. Il provveditore di Cattaro venne a sapere che il dizdar di Castelnuovo, Resul agà, si vantava d’avere in città un suo uomo che gli avrebbe aperto le porte. Dopo una lunga indagine, una lettera intercettata permise di scoprire che il traditore era un certo capitano Troiano, siciliano, comandante d’una compagnia della guarnigione di Cattaro, «qual era fuoruscito del suo paese, et è stato assassino di strada per molti anni». Il provveditore fece chiamare il capitano nella propria camera, dove trovò i soldati ad accoglierlo. Vistosi perduto, il siciliano cercò di sguainare la spada, ma venne disarmato, strangolato e impiccato per un piede fuori delle mura, davanti alla porta della Fiumara che aveva promesso di aprire al nemico19.
A sua volta il Consiglio dei Dieci accettò la proposta di due avventurieri di Sebenico, Giulio Dolce e Zuan Spada, i quali s’impegnavano a penetrare in una vicina base turca dove si fondevano artiglierie, far morire i maestri addetti alla fabbricazione e gettare nel fiume il metallo; non contenti, promettevano di aprire ai veneziani le porte della fortezza di Scardona, e di incendiare le fuste corsare della base di Narenta, che terrorizzavano l’intera costa dalmata. I Dieci, allettati, concessero un finanziamento di 200 zecchini nonché, a cose fatte, la ricompensa richiesta: privilegi di pesca e due uffici da 250 ducati all’anno per i due avventurieri. Ma avvisarono le autorità dalmate di tenerli d’occhio, specialmente lo Spada, «persona che ha havuta molta prattica con Turchi», per evitare che dopo aver riscosso il denaro gli venisse voglia di fare il doppio gioco. I due riuscirono a introdursi in ricognizione nella fortezza di Scardona, travestiti da mercanti di sale, ma alla fine l’impresa andò a monte. Un frate di Ragusa proponeva invece un piano per minare il forte turco di Castelnuovo, dove aveva delle relazioni ed entrava e usciva liberamente. Adiacente al porto di Cattaro, quella fortezza era una spina nel fianco, e gli avventurieri lo sapevano: quello stesso genovese che voleva incendiare l’Arsenale a Costantinopoli aveva anche un piano segreto per distruggere le artiglierie di Castelnuovo, sollevare gli abitanti della zona e prendere il forte, e un altro piano per bruciare le famose fuste di Narenta, ragion per cui i Dieci gli fecero consegnare «un fiaschetto d’acqua forte, et dell’argento vivo», oltre a 500 scudi in contanti20.
Alla guerra degli attentati si aggiungeva quella dei veleni. A febbraio il nuovo provveditore generale in Dalmazia, Iacopo Foscarini, ricevette in consegna dal suo predecessore una cassa contenente alquante scatole di veleno, ed ebbe ordine di valersene «secondo l’occasione». Poco dopo, un memoriale giunto da Zara propose un piano di avvelenamento di tutte le acque del territorio circostante, «con gravissimo danno dell’empio nemico», e i Dieci ordinarono di procedere senz’altro. Foscarini promise di obbedire, anche se a giudizio dei competenti la cosa era inutile, perché il nemico avrebbe scavato e trovato l’acqua altrove; del resto correva voce che anche a Cipro, al momento dello sbarco, i difensori avessero avvelenato i pozzi, ma i turchi, diffidenti, ne avevano scavati di nuovi. Finché gli archibugi tacevano, i veleni s’ingigantivano nell’immaginazione: un ebreo di Ragusa avvisò Venezia che «alcuni mali christiani» avevano proposto a Pialì pascià di avvelenare le cisterne d’acqua in tutte le isole del Dominio veneziano. Il governo avvertì i rettori, e almeno quello di Cefalonia prese l’avviso abbastanza sul serio da far chiudere tutte le cisterne e i pozzi21.
Intanto i governi cristiani cercavano d’indovinare se la flotta nemica si sarebbe accontentata di fare la guardia ai mari di Cipro, o se aveva ordine di spingersi più avanti. Mentre Perteu pascià pregava a Bes¸iktas¸, uno schiavo spagnolo, che aveva l’incarico di «scrivan grande de li schiavi del Gran Signor», fuggì dalle galere insieme ad altri galeotti e ad alcune spie, nove cristiani in tutto, sparendo negli Stretti su un’imbarcazione rubata. Parecchi francescani del convento di San Francesco, già guardati con sospetto dalle autorità ottomane per l’affare di fra Paolo Biscotto, vennero arrestati coll’accusa di complicità e condannati alla galera. La faccenda suscitò il panico fra le spie occidentali nella capitale, che temevano una raffica di delazioni, ma i fuggiaschi approdarono a Corfù meno d’un mese dopo, e riferirono che secondo le dicerie raccolte a bordo delle galere, la flotta doveva innanzitutto andare a caricare a Negroponte i sipahi di quei sangiaccati per portarli a Famagosta. Si sarebbe spinta ad attaccare i possessi veneziani del Levante solo in caso di fallimento del negoziato fra i principi cristiani; se al contrario la Lega fosse stata stipulata, la flotta sarebbe rimasta sulla difensiva nelle acque di Cipro22.
In effetti la notizia che il re di Spagna, istigato dal papa, si preparava a soccorrere Venezia con 100 galere era arrivata per tempo a Costantinopoli, trasmessa dai soliti ragusei; è probabile che prima di stabilire una strategia la Porta volesse saperne di più, e intanto radunare le sue forze disperse. Perteu attraversò lentamente gli Stretti, «et per tutto dove passava» – riferisce la spia napoletana – «toleva homini per forza, li quali però pagava dando fino a 30 scudi per uno che è la maggior paga che habbiano mai dato turchi». Questo scrupolo di pagare correttamente i sudditi, nel momento stesso in cui li costringeva a prestare servizio, è caratteristico del paternalismo ottomano; ma il fatto più significativo è che le galere del pascià, nonostante l’enorme numero di galeotti convocati, erano partite con le ciurme incomplete. Raccolte lungo la strada le guardie di Nauplia e Mitilene e raggiunto con forse un centinaio di galere il porto di Castelrosso, sull’estremità meridionale dell’Eubea, Perteu si fermò lì a spalmare, e rimase ad attendere che le altre squadre lo raggiungessero. Nel frattempo sparse il terrore nell’Arcipelago, riprendendo il controllo delle isole che l’anno prima erano state occupate dai veneziani, e giustiziando parecchi abitanti accusati di aver collaborato con gli invasori, fra cui l’arcivescovo greco di Nasso e Paros. Anche Tinos fu attaccata, ma senza risultato, perché i veneziani avevano fatto affluire riserve di biscotto e la fortezza era in grado di sostenere un lungo assedio. Ogni volta che toccavano terra, le galere turche continuavano a prendere rematori: il Venier, che poco dopo fece anch’egli un’incursione nel Levante al medesimo scopo, sbarcato in diversi luoghi riferì di aver trovato «tutti li huomini scampati alle montagne per paura di esser posti in galea da Turchi»23.
Coll’avanzare della buona stagione la flotta imperiale si concentrò a Negroponte. Alì kapudan pascià lasciò a Cipro una squadra di 20 galere al comando di Arap Ahmet, per scortare le maone e i caramussali che continuavano a fare la spola con la terraferma, e partì il 9 maggio con 55 galere per raggiungere Castelrosso24. Nell’Arsenale di Costantinopoli erano rimaste fra 25 e 30 galere, le più vecchie e malandate, ed entro la metà di maggio ne arrivarono altre costruite nel Mar Nero, ma le ciurme mancavano, anche se nella capitale continuava l’arruolamento di galeotti, custoditi sotto buona guardia nei magazzini dell’Arsenale. In quei giorni, quando la maggior parte dei rais erano già usciti in mare, diversi rinnegati genovesi ottennero incarichi di spicco nella flotta; le spie di Genova ne parlano con rispetto e fiducia, segno che i rinnegati, sapendo che la fortuna può cambiare, badavano a mantenere buoni rapporti con la patria d’origine. «Il nostro signor Morat aga gienovese» venne mandato con una galera a portare lettere del sultano a Cipro; un altro, Mustafà rais alias «il nostro Gregorio Bregante», che ritroveremo poi prigioniero dei cristiani dopo Lepanto, doveva portar fuori le prime dieci galere non appena fossero state armate.
Nonostante i salari altissimi offerti ai rematori, pari a più del doppio di quelli pagati in Occidente, i volontari continuavano a latitare, anche perché correva voce che sulle galere ci fosse la peste: la spia napoletana aveva veduto buttare in acqua i morti, e benché la malattia quella primavera serpeggiasse nella capitale e un po’ in tutto il Levante, la paura di trovarsi bloccati sulle galere appestate teneva lontani anche i più disperati. Alla fine il sultano, irritato per l’ingratitudine dei sudditi, si decise a ordinare la coscrizione degli uomini non sposati, provocando il panico a Costantinopoli. La misura venne applicata con brutalità, fermando la gente per strada e nelle botteghe e arruolandola per forza; molti scapoli preferirono nascondersi o lasciare la città, e molte botteghe rimasero chiuse, mettendo a rischio il vettovagliamento dell’immensa metropoli. Le proteste dei cadì convinsero alla fine il gran visir a revocare l’ordinanza, disponendo il rilascio degli uomini arruolati ingiustamente, e concedendo agli altri di liberarsi a pagamento, «talché queste galee restano come disarmate», si rallegrava il Barbaro il 20 maggio.
Alla fine, però, un certo numero di rematori venne comunque raccolto, ed entro la fine del mese la Porta poté ordinare l’uscita di 25 galere al comando di Hasan Barbarossa, figlio del grande corsaro morto qualche anno prima. Su di esse, secondo le voci che correvano, si sarebbero imbarcati 4000 sipahi «de quelli che erano venuti de Cipro con licentia di rihaverssi, et hora erano sforciati a rittornare», ma poiché l’imbarco doveva avvenire a Gallipoli le spie occidentali non furono in grado di verificarlo. Il 31 maggio Hasan andò a Bes¸iktas¸ a pregare sulla tomba di suo padre, e il 1° giugno partì per Negroponte, con il Bregante come secondo in comando. A questo punto i turchi avevano messo in mare più di 200 galere, anche se non era un segreto per nessuno che erano molto a corto di uomini, «per la gran malatia che vi è sopra». La già citata spia napoletana, che raggiunse Venier a Corfù il 30 maggio, riferì che su quelle partite con Perteu pascià non c’erano giannizzeri né sipahi, e che non solo i rematori, ma anche i 60 scapoli imbarcati su ogni galera erano artigiani reclutati con la forza. «Li rays delle gallee et i officiali di esse tal qual sono, non essendo neanco loro molto boni», il napoletano si sentiva di concludere «che mai è statta la più trista armata». Rapporti incoraggianti come questo si diffusero rapidamente in Occidente. «L’armata turchesca di numero di legni non sarà inferiore alla nostra, ma molto mal all’ordine», constatava da Venezia il Facchinetti, incerto fra la cautela e il sollievo25.
Alla flotta che si stava radunando a Negroponte mancava ancora, però, l’apporto più temibile, quello della squadra algerina. Fin da gennaio Giaur Alì, nominato sangiacco della guardia di Modone, era partito da Costantinopoli con 5 galere; arrivato a destinazione, aveva ordine di lasciarne quattro in quel porto e proseguire per Algeri «a far meter in ordine li corsali de Barbaria». Ricevuto l’avviso, Uluç Alì cominciò ad allestire i suoi vascelli, e non permise a nessun rais di uscire per conto proprio; ma gli schiavi cristiani d’una delle sue galeotte, ribellandosi, riuscirono a impadronirsi del legno e approdarono a Malaga. Da loro si ebbe l’avviso che il pascià di Algeri aveva in quel porto 34 vascelli, cioè 7 galere «comprese le tre che prese di Malta» e 27 galeotte da 15 a 22 banchi, «che si mettevano tutti in ordine espettando la commission de Costantinopoli»26.
La squadra barbaresca rispecchiava lo straordinario microcosmo della metropoli maghrebina, ed era considerata di gran lunga la più pericolosa fra quelle a disposizione del sultano. I rais erano quasi tutti rinnegati cristiani, che del resto costituivano un decimo dei 100.000 abitanti di Algeri: genovesi, veneziani, corsi, greci, albanesi, francesi, spagnoli. Un elenco di pochi anni successivo menziona nomi come l’albanese Murat rais detto il Grande e il greco Murat rais detto il Piccolo, il genovese Hasan Ginoes, il veneziano Mami Gancio, il napoletano Yusuf Remolar e perfino l’ebreo Mahamed rais. Proprietari delle loro galeotte, spartivano i profitti della corsa con i capitalisti – armadour in lingua franca – che finanziavano le spedizioni, ma le patenti del sultano che li autorizzavano alla pirateria li obbligavano anche a servire nella sua flotta quando ne erano richiesti.
Gli schiavi cristiani, che formavano quasi un quarto della popolazione di Algeri e di giorno vi circolavano liberamente per lavorare, costituivano la maggioranza dei rematori e dei marinai delle galeotte; quando gli schiavi, di proprietà del rais o affittati da altri padroni, non erano sufficienti si arruolavano anche buonavoglia fra gli immigrati turchi e i cabili dell’interno. La truppa imbarcata, un centinaio d’uomini per ogni legno, era reclutata nella poderosa confraternita dei giannizzeri d’Algeri, successori della guarnigione turca installata mezzo secolo prima al momento della conquista e continuamente rinsanguata grazie all’immigrazione dall’Anatolia e all’afflusso dei rinnegati europei. Militari, ma sempre più anche uomini di mare e di negozio, i giannizzeri vivevano da padroni nella grande città cosmopolita, senza mescolarsi con una popolazione indigena disprezzata e ostile, le cui ragazze, come lamentano i loro canti, «non conoscono il turco»27.
Su tutta questa gente regnava incontrastato il beylerbey di Algeri, che gli occidentali, scorrettamente ma non troppo, chiamavano addirittura “il re d’Algeri”, Uluç Alì. La sua uscita in mare era sempre spiata con apprensione, e quell’anno più che mai, giacché gli avvisi concordavano sul fatto che sarebbe andato a congiungersi con la flotta del sultano. Si seppe che il 10 aprile era entrato a Biserta con una ventina di galere e galeotte, e che era intento a fortificare quel porto; e si seppe anche che una galeotta era partita da Costantinopoli portandogli l’ordine definitivo di salpare per il Levante. Poi, come al solito, il vecchio pirata sembrò sparire nel Mediterraneo e di lui non si seppe più niente finché, il 21 maggio, non riapparve all’improvviso presso le isole Strofadi, due scogli a metà strada fra Zante e il Peloponneso. La maggiore delle due isolette era, ed è tuttora, occupata da un monastero greco; i corsari sbarcarono, ammazzarono tutti i monaci e saccheggiarono il monastero, poi ripartirono per Modone, dove Uluç Alì aveva ordine di attendere istruzioni. Il provveditore Canal, in trasferimento da Corfù a Creta con 15 galere, lo incontrò due giorni dopo al largo di Modone, ma non osò dargli battaglia: secondo lui, il corsaro aveva il doppio delle sue forze, per cui, vedendo che i barbareschi ammainavano le vele e si preparavano al combattimento, preferì tornare indietro in gran fretta. In realtà Alì aveva 7 galere e una dozzina di galeotte, ma sotto il suo comando erano più che sufficienti per far paura. A Modone la squadra algerina trovò l’ordine di unirsi alla flotta imperiale, e fece vela per Negroponte28.
Anche le galeotte e le fuste dei corsari del Levante si dirigevano a Castelrosso per unirsi alla grande flotta, obbedendo agli ordini del sultano; ma non tutte ci riuscirono. Poiché gli avventurieri assoldati dal Consiglio dei Dieci non erano riusciti a bruciare le fuste di Narenta, i veneziani si erano infine decisi a spazzare via quella flottiglia con la forza, e a maggio alcune galere partite da Corfù comparvero all’improvviso in quelle acque, sorprendendo tre fuste e una decina di barche. I turchi fecero in tempo ad arenare i legni e scampare, ma le galere rimorchiarono via le fuste e la loro artiglieria. Kara Hogia, rais dei corsari di Valona, decise di vendicare quello scacco, e risvegliare i veneziani dall’illusione di essere di nuovo i padroni dell’Adriatico. Con sette fuste risalì segretamente verso nord e si spinse fino a Chioggia, dove colpì due volte all’improvviso, catturando prigionieri e rimorchiando via qualche vascello. A Venezia la scorreria creò grande allarme, rinfocolando la certezza che la flotta del Turco si preparava a entrare nel Golfo e forse anche a minacciare la Serenissima, come non accadeva da tempo immemorabile29.