16. Dove Mustafà rinuncia ad assediare Famagosta, Pialì insegue il nemico in ritirata, il maltempo continua a perseguitare le squadre cristiane, e a Costantinopoli si accarezzano grandi progetti per l’anno che viene

Subito dopo la presa di Nicosia, i comandanti turchi sperarono che il terribile destino della capitale avrebbe convinto la guarnigione di Famagosta ad arrendersi. Mustafà scrisse due lettere a Marcantonio Bragadin e ad Astorre Baglioni, annunciando la caduta di Nicosia e l’esecuzione di tutti i difensori, e offrendo salva la vita in cambio della resa. Le lettere, delle quali «una era in turco e l’altra in franco» (ovvero nella pittoresca lingua franca, pidgin a base italiana, comunemente usata nei porti del Mediterraneo), ricordavano che Mustafà, giunto a Cipro «con l’imperial esercito» e posto l’assedio a Nicosia, aveva aspettato ad assalirla «con intention che forse Iddio Benedetto gl’avesse avuto misericordia», persuadendola ad arrendersi. Ma Dio non l’aveva concesso, la guarnigione aveva voluto resistere, ed era accaduto l’inevitabile; toccava a quelli di Famagosta, ora, decidere se volevano andare incontro allo stesso destino. Se si fossero arresi, il pascià garantiva che la guarnigione avrebbe potuto imbarcarsi liberamente ed essere riaccompagnata a Venezia; se invece si fossero opposti al «volere del felice e sublime nostro Imperatore», sarebbero stati «distrutti voi insieme con il populo». A Famagosta qualcuno sostenne che era un trucco, e che Nicosia non poteva essere già caduta; ma ben presto un contadino mandato dal campo turco arrivò in città con una bacinella di stagno che conteneva la testa del luogotenente Dandolo1.

Il Baglioni e il Bragadin non si lasciarono impressionare, e risposero al pascià che venisse a prendere la città, se ne era capace; quanto a loro, con l’aiuto di Dio volevano farlo pentire di averci provato. Le truppe che avevano a disposizione erano meno numerose di quelle che avevano difeso Nicosia, ma comprendevano un nucleo più robusto di fanteria italiana: 2200 uomini secondo il vescovo Ragazzoni, che lasciò la città a inizio novembre, ridotti a «duo millia in circa» l’ultimo dell’anno, secondo il capitano Angelo Gatto che era lì e che scrisse le sue memorie negli anni seguenti, prigioniero nella torre del Mar Nero a Costantinopoli. Ai fanti italiani si aggiungevano le varie milizie indigene, fra cernide, leve “dell’isola” e fanti “della città”: in tutto, sulla carta, altri 6000 uomini, anche se alla fine dell’anno ne restavano solo 4000, oltre a duecento cavalli. Non era molto, ma i comandanti di Famagosta, e specialmente il Bragadin, erano gentiluomini bellicosi e pieni di alterigia, decisi a far parlare di sé, disgustati dalla «grande ignoranza, la sonnolente pigrizia, et estrema viltà» di cui avevano dato prova i difensori di Nicosia, e sicuri, quando i turchi si fossero fatti avanti, di poter impartire una lezione a «questi cani»2.

Per indebolire il morale dei difensori, Mustafà esibì davanti alle mura la folla dei prigionieri e le teste dei morti di Nicosia, issate sulle lance dei suoi cavalieri; poi piantò l’accampamento a poca distanza dalla città e iniziò senz’altro le operazioni d’assedio. Famagosta, però, non era situata in pianura, ma su uno sperone roccioso; le sue fortificazioni non erano all’ultima moda come quelle costruite dal Savorgnan attorno alla capitale, ma sfruttavano un terreno assai più favorevole. Come riferì poi il Ragazzoni, la città era «posta sopra una rocca che non può essere offesa né da mine né da zappe»; gli sterratori del pascià, non potendo scavare trincee nel suolo troppo sassoso, provarono a sostituirle con barricate di tronchi e parapetti di sacchi di sabbia, e innalzarono con la consueta rapidità le colline artificiali su cui impiantare i cannoni, secondo lo schema operativo che aveva funzionato così bene a Nicosia. Stavolta, però, avevano di fronte avversari meno accomodanti: le sortite della guarnigione erano frequenti e devastatrici. I cannoni della città avevano il vantaggio della posizione, e sotto il loro tiro i turchi subivano continue perdite, mentre l’artiglieria turca era impotente contro le fortificazioni: a Venezia corse voce che «dopo quattromila cannonate nessun Christiano vi perì, eccetto un porco, et una mula».

Dopo tredici giorni di cannoneggiamento inconcludente il serdar, considerando anche la stagione ormai avanzata, rinunciò a prendere d’assalto Famagosta e si preparò a trascorrere l’inverno in un nuovo accampamento a tre miglia dalle mura, in attesa di riprendere le operazioni in primavera. Prima che il trasloco fosse completato, gli assediati uscirono in forze da Famagosta e s’impadronirono delle trincee mettendo in fuga i turchi rimasti; dopodiché i civili della città, lavorando sotto la protezione della cavalleria e degli archibugieri, le disfecero completamente. A questo punto molti dei giannizzeri e dei sipahi di Mustafà ne avevano abbastanza: secondo i rapporti spediti a Venezia, una parte delle truppe ottomane venne rimandata a casa, trattenendo a Cipro soltanto da 3 a 5000 cavalli e da 10 a 20.000 uomini. Ma lo stesso pascià cominciava ad essere stufo, tanto che mandò un ultimo messaggio al Bragadin, chiedendogli di scrivere a Venezia per sollecitare la pace, e assicurando che lui avrebbe fatto lo stesso col sultano: giacché, scriveva con evidente sincerità, aveva voglia di «riposare, et godere le commodità sue, et non star là a patire»3.

Se l’esercito era in via di smobilitazione, la flotta era in grande allarme. Per intimidire i difensori di Famagosta, il pascià aveva sottolineato nell’intimazione di resa «come il magnifico et illustrissimo fratello Pialì pascià dalla banda di mare con tutta l’armata è destinato all’impresa et parimenti io con tutto l’esercito mussulmano per terra»; ma in realtà gli ammiragli non avevano più tempo di contribuire al nuovo assedio, perché con l’avvicinarsi della flotta cristiana la battaglia navale pareva inevitabile. Il 23 settembre rientrò il rais Kaya Çelebi, che era stato mandato con sei galeotte a Candia a «pigliar lingua». Al largo di Sitia, Kaya aveva preso una barca con cinque cristiani a bordo: erano marinai di una nave che si trovava in quel porto, e lo informarono che le flotte riunite si preparavano a salpare per Cipro. In realtà, quando il rais presentò il suo rapporto ai pascià i cristiani avevano già ricevuto la notizia della caduta di Nicosia e stavano rientrando in disordine verso occidente, ma questo i comandanti turchi non potevano saperlo4.

Esiste anche un’altra versione della ricognizione verso Candia. Un avviso di Costantinopoli riferiva che due galeotte mandate a cercare informazioni erano giunte il 10 settembre all’imbocco della baia di Suda, dove erano di guardia una galera veneziana e una fregata. Quando quest’ultima si staccò per tornare a terra, le galeotte la presero e catturarono otto uomini, dai quali seppero che le flotte cristiane erano riunite nel porto di Suda; che Gian Andrea Doria era arrivato con 61 galere; che la flotta veneziana ne contava altre 151, più un galeone, 15 galeazze, 9 navi, e molte galeotte e brigantini, e che l’indomani tutta l’armata doveva salpare per Cipro. Nonostante la discordanza dei particolari, è probabile che non si tratti affatto di un episodio diverso: le due galeotte appartenevano forse alla squadra di Kaya Çelebi, che potrebbe averle mandate a Costantinopoli per riferire anche al governo quelle informazioni cruciali. In ogni caso, la notizia della congiunzione tra le flotte cristiane era stata trasmessa anche dai ragusei, sempre fedeli al loro doppio gioco, e con cifre più vicine alla realtà: l’11 settembre la signoria di Ragusa scriveva al sultano per avvertirlo «che le XII galee del Papa, per quanto s’intende, si sono unite con le 49 galee del Re Filipo», e che c’erano in tutto «galee sottili 195, galee grosse XI, il galeone Fausta et XX navi»5.

Entro la fine di settembre, dunque, tanto il divan a Costantinopoli quanto i pascià a Cipro erano informati della minaccia incombente, e nessuno di loro poteva ancora sapere che in realtà i cristiani stavano già tornando indietro. Pialì era in dubbio se accettare il combattimento contro forze navali così numerose, ma gli altri due pascià lo convinsero che sarebbe stata un’offesa per l’onore del sultano se la flotta non avesse affrontato il nemico che veniva a offrire battaglia. Perciò Pialì sbarcò dalle galere i prigionieri e i non combattenti, caricò tutti i soldati e i cannoni che potevano trovar posto a bordo, lasciò sotto Famagosta i navigli da trasporto e uscì in mare. La flotta fece vela verso occidente, dove doveva materializzarsi la minaccia degli infedeli, ma per il momento non si allontanò dalle acque cipriote, facendo base nella baia di Limassol e spedendo due galere in avanscoperta per avvisare tempestivamente dell’avvicinarsi del nemico6.

Si colloca in questi giorni, e cioè ai primi di ottobre, il famoso incidente del galeone appartenente al gran visir, in partenza da Cipro insieme a una galeotta e un caramussale carichi di schiave, per lo più giovani nobili catturate a Nicosia e destinate in regalo al sultano. Mentre i marinai stavano trasbordando dal galeone dei barili di polvere da sparo, si verificò un’esplosione che distrusse la nave e incendiò le altre due, colandole a picco con tutto il loro carico umano. In Cristianità si sparse subito la voce romanzesca che a dar fuoco alla polvere fosse stata una giovinetta di nobile famiglia, decisa a sfuggire ad ogni costo all’harem del sultano; la storia venne poi ripresa con grande compiacimento dagli stessi cronisti turchi, anche se gli autori più prudenti sottolineano che si tratta soltanto d’una diceria («altri dicono, che fosse inavertenza del nocchiero»). Il giorno seguente il mare sospinse nel porto di Famagosta molti cadaveri di donne e ragazze, insieme ai rottami dei vascelli naufragati7.

Dopo qualche giorno i comandanti musulmani, vedendo che la flotta cristiana non compariva, decisero che non era il caso di indugiare oltre. L’inverno era alle porte, le operazioni a Cipro erano ormai entrate in una stasi prolungata, e per le galere, con il loro fasciame malconcio e i loro equipaggi logorati da tanti mesi in mare, era tempo di far vela verso i porti della madrepatria. Perciò Pialì tornò a imbarcare gli schiavi e i bagagli, e il 6 ottobre salpò con la flotta, lasciando soltanto sette galere a bloccare il porto di Famagosta al comando del moro Arap Ahmet, che sarà più tardi beylerbey di Algeri e morirà in una rivolta dei giannizzeri. Giunto a Kastellorizon, gli dissero che non molto tempo prima la flotta cristiana si era spinta fin lì, e poi, inspiegabilmente, era tornata indietro. Pialì continuò per la sua strada fino a Rodi, dove gli venne riferita la stessa cosa, con l’aggiunta di una novità cruciale: la squadra spagnola si era separata da quella veneziana.

L’ammiraglio ottomano era già a metà del suo viaggio di ritorno fino all’imboccatura degli Stretti, ma la tentazione di inseguire le flotte nemiche e approfittare del loro disordine era grande. Pialì mandò 5 galeotte in una ricognizione a largo raggio per trovare conferma alla notizia, e proseguì con la flotta fino all’isola di Stampalia. Senza deviare dalla rotta che l’avrebbe ricondotto a Costantinopoli, si era portato in una posizione ideale per attaccare, piombando inaspettato da nord, la flotta nemica nelle acque di Creta. A Stampalia, però, le due rotte divergevano: era necessario scegliere se proseguire verso casa o attendere lì l’occasione buona. Pialì decise che poteva permettersi di indugiare qualche giorno, e mandò altre 12 galeotte in ricognizione verso Creta: se il nemico era ancora nella trappola, sarebbe andato a prenderlo8.

I primi a cadere nella rete furono i cavalieri di Malta. Dopo la catastrofe subita a luglio per mano di Uluç Alì, il gran maestro aveva riarmato 5 galere, e in obbedienza alle istruzioni ricevute da Roma le aveva spedite verso Creta al comando di un nuovo generale, il priore di Messina fra Pietro Giustinian. La nomina di quest’ultimo al posto del disgraziato Saint-Clément era stata accolta con soddisfazione a Venezia, perché si trattava d’un patrizio veneziano. Il 26 ottobre Giustinian era quasi arrivato a Suda, dove aveva ordine di mettersi a disposizione del Colonna, quando venne intercettato da una squadra nemica superiore di numero: si trattava probabilmente della ricognizione in forze predisposta da Pialì, che all’insaputa di tutti era in porto a Stampalia, ad appena qualche giorno di navigazione dalle ignare squadre cristiane. Le galere maltesi vogarono disperatamente verso la baia, ma due vennero raggiunte e catturate; il Giustinian raggiunse il porto di Suda con le altre tre, molto malconce per le cannonate incassate9.

La presenza dei turchi, in forze, nelle acque di Creta sgomentò i comandanti veneziani, che si erano opposti inutilmente alla partenza di Gian Andrea Doria proprio nel timore che Pialì fosse uscito in mare al loro inseguimento. Lo Zane aveva già mandato in ricognizione due galere al comando di Pietro Emo, ma nell’impazienza di ricevere notizie ne mandò fuori altre due, fra le migliori dell’armata, al comando di Vincenzo Maria Priuli e Angelo Suriano. Al ritorno di Emo i comandanti cristiani vennero finalmente a sapere che la flotta nemica, dopo aver spalmato a Rodi, era già risalita fino a Stampalia, e poteva piombare su di loro in qualunque momento. A questo punto tutti si rimisero freneticamente in movimento. Il Quirini, che come al solito era stato l’unico a cogliere qualche successo anche in quelle settimane disastrose, prendendo una barca carica di argenteria e altro bottino in viaggio da Cipro a Costantinopoli, si trovava ancora a Iraklion con le sue galere, ma si affrettò a lasciare quel porto troppo esposto per unirsi alla flotta nella baia di Suda10. Lo Zane, però, non si sentiva al sicuro, e persuase il Colonna e il Giustinian a evacuare anche la baia di Suda per rifugiarsi nel porto della Canea.

In realtà, Suda è un porto naturale molto ben protetto, ma poiché la sua imboccatura dà verso Levante, lo Zane temeva che la flotta turca, comparendo all’improvviso, potesse imbottigliarlo senza scampo; perciò preferì portare la flotta a Canea, dove il porto dà sul mare aperto. Più tardi venne rinfacciato al generale che in quel modo egli aveva messo a rischio l’intera isola, perché chi è padrone del porto di Suda lo è di Creta; ma lo Zane replicò che se anche fossero entrati nella baia, i turchi non avrebbero potuto mantenervisi. L’8 novembre, dunque, la flotta lasciò Suda per riparare alla Canea; lo stesso giorno sopraggiunse Angelo Suriano, e riferì mestamente che quattro giorni prima il Priuli, che navigava insieme a lui presso l’isola di Paros, «era stato tagliato a pezzi da 5 galeotte turchesche».

La morte del Priuli, che era uno fra i più popolari sopracomiti veneziani, diede origine a una leggenda: attaccato dalle cinque galeotte – si raccontò – le aveva abbordate con tanto valore che ne aveva catturate due, e stava combattendo sulla terza quando i suoi soldati, in inferiorità numerica fin dall’inizio e «ammazzati dalle continue archibugiate», avevano ceduto. Non è invece una leggenda il destino del giovanissimo nipote del Priuli, Marcantonio Quirini, catturato sulla galera dello zio. Portato schiavo a Costantinopoli, abbracciò l’Islam, fece il pellegrinaggio alla Mecca, si dedicò allo studio della sharia, e avviò una corrispondenza con la madre rimasta a Venezia, cercando di convertirla alla nuova fede; nel frattempo fece carriera nel corpo dei giannizzeri col nome di Mehmet agà Frenkbeyoglu (che vuol dire «figlio del signore italiano») e divenne comandante della cavalleria della guardia, finché non fu ucciso dai suoi stessi soldati nei tumulti del 160211.

Il disastro capitato al Priuli sembrava dimostrare che il nemico era presente dappertutto con forze soverchianti, e i generali cristiani, temendo che la morsa si stringesse sulle loro malconce galere, appena tre giorni dopo decisero di lasciare anche la Canea per riparare a Corfù. A quella fuga contribuì la scoperta che spostarsi alla Canea era stato, dopo tutto, un errore: il porto era troppo piccolo per ospitare tutti quei vascelli, molte galere erano costrette a rimanere all’ancora lungo la spiaggia, e i temporali che infuriarono ininterrottamente in quei giorni ne gettarono a terra tre veneziane e una del papa, quella di Domenico Massimo. Gran parte delle ciurme si salvarono, ma il Massimo, stroncato dalle fatiche della campagna, morì a Lecce il 4 dicembre. Nel suo testamento, oltre a disporre il destino di diciannove schiavi e schiave fra “negri” e turchi catturati durante la campagna, e il ricovero in orfanotrofio di una bambina turca presa a Scarpanto, ordinò preghiere per le anime dei rematori buonavoglia assunti a Roma e periti nel naufragio della sua galera12.

In quel mese e mezzo trascorso a Creta, durante il quale la flotta, per paura del nemico, si era spostata in tre porti diversi, i generali avevano fatto il possibile per preparare la spedizione dei 1500 fanti in soccorso a Famagosta, scontrandosi con enormi difficoltà. Il Venier, cui lo Zane propose di assumere il comando della spedizione, prendeva tempo, obiettando che per salvare la città i soldati dovevano essere almeno il doppio, e che comunque il convoglio non sarebbe mai riuscito a passare. I capitani di fanteria destinati all’impresa rifiutarono di imbarcarsi, e lo Zane dovette cassarli tutti. Il grosso dei soldati rifiutò egualmente di ripartire per Cipro, pretese il pagamento degli arretrati, e si mise alla ricerca di un imbarco sulle galere che collegavano Creta alla terraferma. Il deteriorarsi della disciplina a bordo delle galere e fra le truppe il cui ingaggio stava ormai scadendo è testimoniato dai gravissimi incidenti che si verificarono alla Canea prima della partenza per Corfù. Una rissa fra soldati italiani e abitanti del posto degenerò in una vera e propria battaglia; gli uni misero mano agli archibugi, gli altri ad archi e frecce, le donne intervennero gettando pietre dalle finestre, e alla fine si contò un gran numero di morti. Fabio Massimo, luogotenente di Pompeo Colonna, intervenne con una compagnia in assetto di guerra e a bandiere spiegate; Sforza Pallavicino lo trattenne a stento dal gettarsi nella mischia, convincendolo che i soldati, una volta scatenati, avrebbero messo a sacco la città. I greci, pieni d’odio, gridavano che era meglio stare sotto i turchi piuttosto che sotto i “franchi”13.

Quando le squadre dello Zane e del Colonna furono finalmente partite alla volta di Corfù, il Pallavicino si trattenne ancora qualche giorno alla Canea per sovrintendere al reclutamento delle truppe destinate a Famagosta, e convinse una parte dei soldati a firmare un nuovo ingaggio, ma le condizioni degli uomini, reduci da una campagna così faticosa, lasciavano molto a desiderare. Il colonnello Rangone Pallavicino, che era stato incaricato di comandarli, si aggrappò a tutti i pretesti per non partire, suscitando commenti poco caritatevoli fra i soldati, dopodiché si ammalò e morì anche lui, sicché il comando venne affidato al conte Alvise Martinengo. Per scortare la spedizione e difendere Creta da eventuali attacchi rimase alla Canea Marco Quirini con le 21 galere cretesi, che era naturale far svernare nell’isola, e con 13 delle “sforzate”: i loro equipaggi incatenati non potevano ribellarsi legalmente, come avrebbero fatto i rematori liberi veneziani e dalmati se si fosse preteso di trattenerli durante l’inverno così lontani da casa. Ma la scarsità di galeotti era tale che lo Zane dovette disarmare ben 25 galere e lasciare i loro scafi in secca a Creta, sicché in tutto ripartì con una sessantina di vascelli14.

Partiti da Canea, lo Zane e il Colonna si persero di vista in mare, ma per fortuna giunsero entrambi a Corfù intorno al 17 novembre senza fare cattivi incontri. Come ogni anno, al sopraggiungere dell’inverno, si trattava ora di disarmare le galere troppo malandate per riprendere il mare, rispedire all’Arsenale tutte quelle che avevano bisogno di riparazioni, saldare i conti ai rematori che avevano completato il loro termine d’ingaggio e trovargli, come da contratto, un passaggio gratuito fino a casa. Per molti giorni i due generali furono occupati in questa malinconica smobilitazione, e parecchie altre galere vennero tirate in secca senza molte speranze di poter mai più essere utilizzate: ben dodici «delle nostre» secondo i dati veneziani, e anche una di quelle del Colonna, i cui scafi, del resto erano di proprietà veneziana. Come se non bastasse, il tifo continuava a mietere vittime fra gli equipaggi esausti per la campagna troppo prolungata: ogni giorno morivano venti o trenta persone, e nel giro di poche settimane si seppellirono sei sopracomiti, convincendo tutti quanti «che Dio è adirato». Dell’imponente flotta che a settembre era salpata per Cipro non rimaneva che un avanzo demoralizzato15.

In questo clima deprimente si capisce che lo Zane non avesse molto da scrivere a Venezia; il suo governo, tuttavia, era perplesso e spaventato di non ricevere notizie. «Dell’armata qui non ci è nuova alcuna et se ne sta con maraviglia incredibile», scriveva il Facchinetti il 22 novembre. La notizia della caduta di Nicosia e dell’inglorioso ritorno della flotta cristiana era arrivata a Venezia tramite diversi avvisi assai prima che pervenisse, all’inizio di novembre, una comunicazione ufficiale dallo Zane, il che contribuì al malumore montante nei suoi confronti; dopodiché non si seppe più niente di lui fino al 3 dicembre. Il generale era a Corfù, distrutto nel fisico e nel morale, e chiedeva il permesso di lasciare il comando e tornare a Venezia a curarsi: «questi signori non sono intieramente sodisfatti di lui», notava il nunzio, «nondimeno, havendo gran carestia de soggetti, si sta in gran sospensione se denno chiamarlo o pur farlo restare all’armata». Il governo, in effetti, era diviso; ma il 9 dicembre il Senato votò di accettare le dimissioni dello Zane, e il giorno seguente il Maggior Consiglio, con 1119 voti favorevoli su 1268 presenti, elesse al suo posto Sebastiano Venier16.

L’ultimo disastro di quell’anno si abbatté sugli avanzi della squadra di Marcantonio Colonna, salpata da Corfù il 28 novembre per rientrare in Italia. Dopo i naufragi subiti a Creta e il disarmo degli scafi più malconci, gli restavano soltanto 6 galere, più 5 veneziane che lo accompagnavano. Il maltempo lo bloccò per quasi un mese a Kassiopi, sulla costa settentrionale di Corfù; alla fine di dicembre poté finalmente ripartire, ma alle bocche di Cattaro la tempesta lo sorprese nuovamente. La sua Capitana, una quinquereme costruita a suo tempo dal famoso ingegnere navale Vettor Fausto, venne colpita da un fulmine e s’incendiò; Marcantonio trasbordò su una galera veneziana, ma arrivata all’altezza di Ragusa quest’ultima venne spinta dal vento ad arenarsi sulla spiaggia. I superstiti, fradici, si diressero a piedi verso la città, ma i ragusei lasciarono entrare soltanto un esausto Colonna e non i veneziani, i quali, siccome i turchi stavano già avvicinandosi per impadronirsi della galera, si risolsero a darle fuoco, sfuggendo poi fortunosamente alla cattura17.

In un manifesto a sua discolpa, il Colonna mette le mani avanti per giustificare la catastrofe della squadra pontificia, sottolineando che «la maggior parte delle galere che ebbe, erano vecchie e mal atte, lasciate in arsenale per le peggiori, e la sua capitana propria era di quarant’anni». Quando l’ammiraglio arrivò a Roma, all’inizio di febbraio, i mormorii non mancarono: partito con 12 galere, ne aveva riportate appena 3, e molti gentiluomini delle prime famiglie romane, partiti con entusiasmo al suo seguito, erano rimasti vittime dei naufragi, degli strapazzi e dell’epidemia. Ma il papa lo accolse a braccia aperte e gli confermò tutta la propria fiducia, suscitando l’ironia del Rambouillet:

il signor Marcantonio Colonna è di ritorno in questa città, dopo essere stato assai più in pericolo per la tempesta e il fulmine che per la flotta turchesca, a cui non si è avvicinato troppo. Il papa lo vedeva molto volentieri, e gli ha fatto altrettante feste che se avesse combattuto tutti i Turchi del mondo18.

Anche se ognuno cercava di scaricare la colpa sugli altri, tutti coloro che avevano preso parte alla campagna ne uscirono con la reputazione appannata. Il cardinale di Granvelle fece sapere che lui se ne intendeva di mare almeno quanto Marcantonio, e che bisognava smetterla di nominare dei generali solo per la loro fedeltà: «il re può avere ancora più fiducia in sua sorella, e non per questo le affiderebbe un comando in guerra». Il cardinal Alessandrino pregò il re di far sì che l’anno prossimo il comandante delle sue galere, chiunque fosse, «non stia su i puntigli per far così poco servitio all’impresa, come ha fatto questa volta il Signor Gio. Andrea Doria», e aggiunse che se la cosa più importante era «di non mettere a risico i suoi legni, il medessimo sarebbe a tenergli nei porti». Quanto alla reputazione navale dei veneziani, ne restava ben poca: il Facchinetti non si fece scrupolo di dire in faccia al doge che i gentiluomini cui la Repubblica affidava i suoi interessi, «per lo lungo otio della pace, non riescono quelli che si sono dimostrati altre volte»19.

A Venezia l’inverno si apriva su un orizzonte lugubre. Non c’era famiglia che non piangesse qualche morto, né casa dove non si vestisse a lutto; i traffici erano rallentati, i magazzini semivuoti, e la plebe – osservò un contemporaneo – ridotta non alla povertà, ma alla mendicità. Quell’anno il freddo s’installò presto, durò a lungo e fu acutissimo; le nevicate coprirono tutta Italia, «alte più che mezza pica», e sotto il peso della neve crollarono i tetti di molte case. A Crema, estremo lembo occidentale del dominio di San Marco, una nevicata eccezionale sfondò il tetto della chiesa di San Rocco, e la notizia parve a tutti di cattivo augurio per l’anno che veniva20.

Il maltempo che mise così duramente alla prova le squadre cristiane le salvò da un disastro molto più grave. Pialì, infatti, tentò più di una volta di uscire da Stampalia e far vela su Creta, ma i venti di tramontana che battevano l’Arcipelago e rendevano così difficile entrare nei porti cretesi glielo impedirono, o comunque lo convinsero che non valeva la pena di correre quel rischio. Quando le vicende di quello scorcio di campagna furono conosciute con maggior chiarezza, più di un cronista cristiano si rese conto che la flotta aveva corso allora un pericolo spaventoso, e si convinse che soltanto la Provvidenza divina, mandando quei venti, l’aveva salvata: altrimenti non c’era dubbio che dopo la partenza del Doria tutti quelli che erano rimasti nella baia di Suda «sarebbono stati presi a man salva dall’armata nemica»21.

Sfumata l’occasione, Pialì valutò l’opportunità di svernare nell’Arcipelago, e dopo aver scelto un porto adatto cominciò addirittura dei lavori di allargamento, sbancando secche «a forza di spalle de schiavi». Poi, considerando più realisticamente l’esaurimento dei suoi equipaggi e il logoramento delle galere, cambiò idea e decise di riportare la flotta a Costantinopoli, lasciando fuori qualche decina di galere per le guardie ordinarie, a cui quell’inverno toccava il compito cruciale di impedire il passaggio di soccorsi per Famagosta. Entro la metà di dicembre, da 110 a 140 galere erano rientrate nel porto della capitale; Pialì aveva fatto il suo ingresso solenne di giorno con le prime quaranta, ma parecchie altre entrarono di notte, e il Barbaro ne dedusse che si preferiva non farle vedere alla gente, talmente erano malandate22.

A Costantinopoli non si era atteso il ritorno della flotta per celebrare la grande vittoria ottenuta con la conquista di Cipro. Già il 16 novembre Mehmet pascià aveva scritto una lunga relazione al re di Francia, l’alleato cristiano del sultano, per informarlo dei prosperi successi toccati alle armi ottomane: un testo straordinario che vale la pena di citare e commentare ampiamente, e che al di là delle cifre, quasi tutte gonfiate, riferisce con sostanziale correttezza le vicende della campagna, così come erano state percepite da Costantinopoli23. L’apertura è un bell’esempio dello stile fiorito prediletto dalla diplomazia ottomana; si indirizza infatti al

Serenissimo, cristianissimo, potentissimo, e antichissimo per successione, più onorevole fra molti altri principi e signori, più grande, valoroso e scelto principe, colmo d’ogni virtù e rinomanza, ecc., il quale è sempre stato ed è più che approvato e conosciuto amicissimo della sublime Porta del nostro potentissimo imperatore. Alla serenissima e cristianissima Maestà del re di Francia, cogli odorosissimi fiori, la felicissima e freschissima aria del mattino, inviamo innumerevoli migliaia di saluti da parte della nostra affezionatissima e cordialissima amicizia, facendogli sapere se la vostra suddetta Maestà si degnerà di ascoltarli i fatti e notizie che accadono attualmente da queste parti.

Il gran visir procedeva poi, secondo le buone regole di tutti i bollettini ufficiali, a fornire una valutazione clamorosamente esagerata delle forze messe in campo dal sultano:

Sappia dunque Vostra Maestà come nel presente anno 1570 fu preparata da Sua Altezza una grandissima e potentissima armata contro l’isola di Cipro, che apparteneva alla superbissima e ignorante nazione e signoria di Venezia; su cui furono mandate 240 galere armate, 58 altre galere grosse a remi, 17 grosse navi, 18 grosse galeazze, 5 galeoni, 40 galeotte, 120 navi medie chiamate caramussalini, 20 altre navi un po’ più grandi, quelle chiamate igrib, e 87 fuste di corsari, il che fa in tutto più di 500 vele.

La valutazione delle forze nemiche, in compenso, è molto più vicina alla realtà, a conferma della buona qualità delle informazioni di cui disponeva la Porta:

i Veneziani avrebbero spedito 130 galere, 10 galeazze e 40 navi, e il re di Spagna anche, con un capitano in loro favore, avrebbe mandato 50 galere, il papa 10 galere, facendo in tutto 242 vele che si sarebbero radunate e rimaste per qualche tempo nell’isola di Candia, coll’intenzione, come dicevano, di prestare soccorso alla suddetta isola di Cipro.

Seguiva la relazione di come l’esercito ottomano avesse assediato Nicosia per 45 giorni e l’avesse finalmente presa, «e passati a fil di spada circa 60.000 uomini, e tutti i loro beni e facoltà saccheggiati; così che tutti gli uomini atti alle armi sono passati sotto la spada di Sua Altezza, e le loro donne e bambini, più di 50.000 anime, presi e fatti schiavi». Alla sopravvalutazione numerica della disgraziata popolazione di Nicosia corrispondeva quella della popolazione contadina che, come riferiva il gran visir, si era sottomessa in massa all’autorità del sultano, in numero di addirittura 400.000 anime. Mehmet passava poi a riferire i successi della guerra in terraferma, dove

i castelli che sono ai confini della Dalmazia, presso Clissa, e nei dintorni di Zara, fino a Cattaro, in numero di nove, sono stati presi e saccheggiati dai sangiacchi di Erzegovina e di Clissa, che sono nostri parenti; dei quali castelli alcuni essendo stati fortificati si tengono per Sua Altezza, e gli altri essendo stati rovinati e rasi al suolo, gli uomini trovati in quei castelli sono stati tutti uccisi, e i capi fatti prigionieri. Inoltre, attorno alle terre dei detti veneziani furono scoperte due galere, dieci fuste e diverse altre piccole imbarcazioni, che furono tutte prese, e parte degli uomini presi prigionieri, e gli altri passati a fil di spada.

Poi il gran visir riferisce con soddisfazione il fallimento della spedizione di soccorso e il catastrofico ritorno delle flotte cristiane dopo la caduta di Nicosia:

E trovandosi costoro colà in tale disgrazia per volontà di Dio, le galere dei Veneziani, del re di Spagna e del papa, che erano da quest’altra parte e deliberavano di andare a soccorrere Cipro, facendo conto di uccidere tutti quelli dell’esercito dei Musulmani, sono partite da Candia, ma trovandosi in mare, avendo già navigato parecchie miglia, ne furono avvertite. Pialì Pascià, nostro fratello, il quale è maestro e praticissimo del mare, colla flotta di Sua Altezza li ha incontrati e seguiti da quella parte; di sorta che, essendo già nelle nostre mani i castelli di Cipro, come avevano sentito, e non potendo andare più avanti, e ancor meno restare là più a lungo, se ne sono tornati a Candia, inseguiti dalla flotta di Sua Altezza. E da allora non ne abbiamo più avuto notizia, ma speriamo nella grazia e misericordia di Dio, creatore dell’universo, che darà ogni buona prosperità e vittoria ai Musulmani contro i loro nemici. Amen!

Ma il gran visir non si limitava a riferire i fatti: proseguiva avvisando che «in questa felice primavera, con la grazia di Dio, Sua Altezza farà uscire una grandissima, potentissima e grossissima armata», ed esortava il re di Francia ad allearsi con il sultano contro il nemico comune. Quali che fossero i motivi, la Porta desiderava far sapere al mondo che per l’anno a venire si preparavano grandi cose, come conferma la lettera che Selim scrisse al principe Alessandro di Valacchia per notificargli la presa di Nicosia:

Figlio mio, Dio mi ha aiutato ed ho preso Cipro, ho sconfitto questi infedeli che non mi avevano prestato omaggio. Organizza grandi festeggiamenti in Valacchia e fa’ sapere nel tuo paese e nei dintorni che ho vinto, affinché tutto il mondo lo sappia. E tu, Alessandro, principe di Valacchia, figlio mio, preparati a partire per venire con me e coll’esercito di terra, e insieme ai vascelli per mare, prendere Corfù. Poi noi andremo da conquistatori alla dolce Venezia, dove ci sono molti drappi e stoffe, e da Venezia andremo a Roma. Scrivo così perché tu sia pronto e ti ordino di venire.

Il testo venne reso noto dall’arcivescovo di Ocrida, che il principe Alessandro aveva mandato a Venezia a chiedere finanziamenti in cambio dell’impegno a ribellarsi contro i turchi, ed è probabile che sia stato abbellito per fare più impressione, ma si basa certamente su una lettera ufficiale del sultano. Allo stesso modo, è forse solo per impressionare i veneziani e convincerli a cedere Famagosta che Selim fece trapelare la sua intenzione di andare di persona a prendere Venezia, ma certamente al Barbaro vennero i sudori freddi: quando obiettò ai suoi consueti interlocutori, fra cui Ibrahim bey, che arrivare fin laggiù non era così facile, gli venne risposto che invece era facilissimo, che la flotta imperiale poteva tranquillamente entrare nel porto di Malamocco, e che l’esercito conosceva bene la strada per arrivare a Venezia per via di terra, dato che già in passato i turchi avevano invaso il Friuli24.

Sull’entità dei preparativi avviati a Costantinopoli per la futura campagna, i rapporti degli ambasciatori occidentali sono concordi, anche se il Barbaro non manca di segnalare lo scarto fra le velleità annunciate e i mezzi disponibili. Fin da settembre la Porta ordinò di fabbricare 60 nuove galere nel Mar Nero e 40 nell’Arsenale, benché nella capitale non ci fossero «né maestranze né legnami». Il vecchio speculatore Michele Cantacuzeno, noto come il Figlio del Diavolo e che anche il Barbaro a quest’epoca comincia a chiamare col soprannome di Saitan, Satana, partì a novembre coll’incarico di sovrintendere ai cantieri del Mar Nero. A fine mese si seppe dell’ammasso di vettovaglie in Grecia, di lavori di manutenzione straordinaria delle strade nell’entroterra di Ragusa, e del reclutamento dei galeotti per la flotta: dapprima ne vennero comandati 35.000, come l’anno prima, poi si salì alla cifra inaudita di 50.000. A Prevesa fu ordinata la costruzione di 50 passacavalli, a conferma delle voci per cui la prossima mazzata si sarebbe abbattuta su Corfù25.

Poco prima di Natale anche il nuovo ambasciatore francese Monsieur de la Tricquerie avvertiva che il sultano «ha fatto fare dei grandi preparativi di viveri e munizioni in tutta la Morea, l’Albania e la Slavonia, e sembra che disegni di andare l’anno che viene in persona a Corfù e a Zara». Il seguito del dispaccio mostra che il governo turco era ben informato sugli ultimi movimenti delle flotte cristiane, e non sottovalutava affatto la difficoltà di concludere la campagna di Cipro, finché Famagosta resisteva: «Quanto all’armata veneziana, si dice che si è ritirata a Venezia, e il signor Andreetta Doria a Messina; e se è vero che i Veneziani abbiano mandato 4000 fanti, viveri e munizioni dentro Famagosta, come si dice qui, i Turchi non la prenderanno così presto come avevano disegnato». Non per nulla a dicembre il sultano emanò un’ordinanza affinché gli artiglieri addetti ai cannoni d’assedio a Cipro, che si erano rivelati poco abili, fossero sostituiti con personale addestrato mandato dalla capitale26.

Selim e i suoi ministri, dunque, erano decisi a non accontentarsi di Cipro, ma ad approfittare dell’inatteso vantaggio, strategico e morale, conseguito in quel primo anno. I turchi avevano sempre temuto di non essere all’altezza degli occidentali nella guerra navale: come ricordava il gran visir Lutfi pascià a Solimano il Magnifico, «dei precedenti sultani molti dominarono le terre ma pochi furono signori sul mare. Gli infedeli ci sono superiori nelle guerre condotte sui mari». Durante l’estate erano corse a Costantinopoli voci pessimistiche sull’andamento della guerra navale: fra la popolazione della capitale era corsa voce che la flotta cristiana avesse sbaragliato quella del sultano, e a casa di Pialì le donne piangevano e pregavano per la salvezza del pascià27. Ma quando si seppe che la grande spedizione organizzata dai cristiani si era conclusa in modo così inglorioso, l’atteggiamento mutò di colpo. «Veneziani sono pescatori, et non sono buoni da far guerra con noi», disse Mehmet pascià a Ibrahim bey; era un vecchio luogo comune, ma all’improvviso sembrava fin troppo vero, e il divan si sentì incoraggiato a perseguire nuovi obiettivi. Bisognava intensificare l’offensiva nell’Adriatico, stringendo la morsa su Zara e sbarcando a Corfù, “l’occhio di Venezia”.

Una volta accecato quell’occhio, tutto diventava possibile, perfino sbarcare in Italia e marciare su Roma, la misteriosa Mela Rossa. Giacché, secondo una leggenda cara al popolo turco, il profeta Maometto era apparso in sogno al sultano e gli aveva promesso: «La vostra generazione conquisterà la Mela Rossa, e il mondo intero vi sarà sottomesso». La forza di questa immagine era tale che il sultano dopo la sua intronizzazione a Eyüp salutava i giannizzeri, passando davanti alla loro caserma, con le parole: «Ci rivedremo alla Mela Rossa». Che cosa fosse la Mela Rossa (che però sarebbe meglio tradurre la Mela d’Oro) nessuno lo sapeva esattamente, ma di certo si trovava molto lontano, «giù in fondo al paese dei franchi». Qualcuno la identificava con la cupola di San Pietro: e così interpretava Mehmet pascià, il quale, nei primi mesi del 1571, dirà all’inviato veneziano Ragazzoni «che, per le loro profezie, dovevano Turchi esser padroni fino di Roma». Certamente il gran visir non basava i suoi piani sulle credenze popolari, ma in quell’inverno di festeggiamenti non c’era nessun motivo perché i potenti di Costantinopoli non dovessero ringraziare Dio, e coltivare grandi speranze per l’anno che veniva28.