7. Dove il sultano è incerto sul piano da adottare, Pialì pascià esce in mare con la flotta, i veneziani si preoccupano per Corfù, e la fortuna abbandona Girolamo Zane

Il sultano e i suoi ministri avevano giudicato facile l’impresa di Cipro; ma quando cominciarono ad attuarla si trovarono di fronte un problema strategico complesso. Per mettere in moto l’invasione era necessario che le maone da trasporto costruite a Nicomedia e quelle già esistenti nell’Arsenale fossero caricate di artiglieria e di biscotto; che le palandarie per il trasporto di cavalli costruite nel Mar Nero e nel golfo della Giazza raggiungessero i porti della costa meridionale, Finike e Antalya, per imbarcare le truppe affluite dall’Anatolia e dalla Siria; che altri legni andassero a caricare nei porti greci i soldati mobilitati nelle province balcaniche; che alla flotta da trasporto si unissero le galere cariche di giannizzeri e volontari reclutati a Costantinopoli, e che al primo vento favorevole l’intera armata traghettasse rapidamente fino alle spiagge di Cipro. Ma se a quel punto la flotta veneziana si fosse già trovata nei paraggi, avrebbe certamente tentato di intercettare i trasporti; e il risultato poteva essere catastrofico. Può darsi che il Barbaro esagerasse quando scriveva che in un’eventualità del genere «questo imperio sarebbe in pericolo di perdersi», ma comunque il rischio era troppo grosso perché si potesse pensare di correrlo. L’unica soluzione era di far presto, sapendo che ai veneziani serviva molto tempo per mettere insieme la flotta e spingerla fin nelle acque cipriote1.

Per tradizione, la flotta turca usciva in mare il giorno di san Giorgio, che secondo il calendario giuliano allora in vigore cadeva il 23 aprile. Può stupire che l’impero del sultano, custode dell’ortodossia islamica, celebrasse i rituali di partenza del capitano del mare sotto gli auspici del più grande santo guerriero greco-ortodosso; ma è una prova in più di come quell’impero, che si considerava l’erede di Roma e di Bisanzio, ospitasse uno straordinario sincretismo religioso. Gran parte dei marinai e dei rematori a bordo delle galere erano greci cristiani, ben felici di prendere il mare sotto la protezione di agios Georgios; quanto ai turchi, per loro san Giorgio si confondeva con un santo musulmano, al-Khidr, “l’uomo verde”, associato alla fertilità primaverile e la cui festa si celebrava lo stesso giorno. Oggetto di un entusiastico culto popolare, questa figura, che molti identificavano anche col profeta Elia, aveva come principale prerogativa quella di aiutare i viaggiatori in difficoltà, il che spiega perché la flotta del sultano adottasse tranquillamente il giorno di san Giorgio come inizio ufficiale delle operazioni navali2.

In linea con questa tradizione, le operazioni pianificate dal divan per la campagna del 1570 prevedevano che il grosso della flotta salpasse da Costantinopoli alla fine di aprile, raggiungesse in qualche settimana i porti della Caramania e dopo aver caricato truppe e rifornimenti compisse al più presto l’ultimo balzo fino a Cipro. Se si rispettavano quei tempi, era improbabile che le galere veneziane potessero trovarsi già nei mari di Levante, e in forze sufficienti per dare battaglia. Tutt’al più il nemico, se si fosse mosso abbastanza in fretta, avrebbe potuto tentare di spedire sull’isola rinforzi di truppe e materiali, usando i vascelli già disponibili; e infatti i veneziani cominciarono a far salpare i primi trasporti già alla fine di gennaio. Per impedirlo, la Porta decise di far uscire anticipatamente trenta o quaranta galere e spingerle oltre Creta, in modo da sbarrare la rotta che quei trasporti avrebbero presumibilmente seguito. Sull’estremità meridionale del Peloponneso, presso l’odierna Mani, nel luogo chiamato allora il Brazzo di Maina, il sangiacco di Nauplia insieme a un rais mandato l’estate precedente da Costantinopoli con soldati e zappatori aveva edificato una fortezza, e la squadra avrebbe potuto restare in agguato al riparo dei suoi cannoni, in attesa che fossero avvistate le vele dei trasporti nemici.

Questa uscita anticipata venne decisa ad Adrianopoli, dove il sultano e i suoi ministri abbozzarono l’intero piano di operazioni, perché il Barbaro ne fu informato già a metà dicembre, anche se sul vero scopo dell’operazione circolavano come al solito voci discordanti. Al bailo risultava che nell’Arsenale ci si dava da fare per allestire 30 galere «delli miglior rais, per farle partir assai per tempo di qui». Alcuni sostenevano che erano dirette alla penisola di Mani per intercettare i rinforzi diretti a Cipro, ma secondo altri sarebbero invece andate ad Alessandria a caricare polvere da sparo. In tutta la sua corrispondenza di dicembre e di gennaio Marcantonio continuò a tenere aggiornato il suo governo sui preparativi per questa uscita anticipata di «circa 30 o 40 galee delle migliori»; ufficialmente era stato confermato il viaggio ad Alessandria, ma il Barbaro sospettava che fosse solo un pretesto, e il 31 gennaio uno dei suoi informatori gliene diede la certezza. Una spia tornata da Venezia aveva riferito a Mehmet pascià che laggiù si preparavano navi cariche di soldati da mandare a Cipro, e il visir rivolgendosi all’agà dei giannizzeri gli aveva detto: «bisogna far solecittar la espedittione delle galee che si voglion mandar per romper la strada a queste genti, acciò che dette navi non passino»3.

Ma i piani della Porta vennero vanificati dallo scandaloso ritardo dei preparativi. Nell’Arsenale mancavano i remi e perfino il legname per fabbricarli, sicché fu necessario spedire maestranze a Nicomedia, dove si sperava che ne avrebbero trovato. Gli operai mandati a costruire le palandarie nel Mar Nero non trovarono pronti i materiali da costruzione, perché gli imprenditori cui era stato assegnato l’appalto avevano intascato il denaro senza tener fede all’impegno. Quanto alle palandarie requisite a Costantinopoli, non c’erano operai per i lavori di ripristino, perché tutte le maestranze lavoravano giorno e notte alle galere; tanto che alla fine le imbarcazioni vennero restituite ai proprietari e ripresero a far servizio di traghetto. I rematori convocati a dicembre cominciarono ad arrivare tra febbraio e marzo, ma ci si accorse subito che erano meno del previsto, e alla fine si scoprì che nonostante gli ordini draconiani e le minacce di punizione, su 30.000 galeotti richiesti i cadì erano riusciti a reclutarne poco più della metà4.

Il cumulo dei ritardi costrinse la Porta a rivedere il piano di operazioni. L’uscita delle trenta o quaranta galere che avrebbero dovuto spingersi fino al Brazzo di Maina per intercettare i trasporti veneziani venne accelerata in tutti i modi, e all’inizio di febbraio i primi rais cominciarono a salpare a due o tre per volta, nottetempo per non dare nell’occhio; ma dopo che ne furono usciti sei o sette l’operazione venne sospesa fino alla fine del Ramadan, che quell’anno cadeva l’8 marzo5. Per quella data altre 25 galere erano a buon punto, con gli alberi in parte già montati, ma prive di materiali e di equipaggi: «non vi è né gente né altro dentro», annotava il Barbaro. Si era confermato che appena pronte sarebbero partite, per caricare munizioni ad Alessandria, ma a questo punto la Porta temeva che i veneziani avessero già concentrato a Candia una squadra di galere abbastanza forte per creare loro dei problemi, e cominciò a dubitare della saggezza di quell’operazione separata: il sultano, mentre si recava a cavallo alla moschea insieme a Mehmet pascià, venne sentito dire che bisognava «mandar fuori quanto prima 100 galee»6.

Si toccava, a questo punto, il nodo centrale dell’intera campagna navale. I veneziani non avevano fatto mistero dei grandi preparativi avviati alla fine di gennaio, anzi, desideravano che la Porta ne fosse ben informata, nella speranza di indurla a rinunciare all’impresa. Ma i turchi davano per scontato fin dall’inizio che se la Repubblica avesse accettato lo scontro, una grande flotta veneziana sarebbe uscita in mare per tentare di impedire lo sbarco a Cipro, e avevano tutte le intenzioni di sbarrarle la strada. Il Barbaro ebbe sentore già a gennaio del piano di operazioni, che quindi era stato concepito prima ancora che Venezia decidesse di armarsi: esso prevedeva che il grosso delle galere ottomane, anziché accompagnare la flotta da trasporto, si sarebbe spinto verso la Morea, e forse ancora più in là, fino alla bocca dell’Adriatico, in modo da dar battaglia alla flotta nemica se fosse uscita davvero dai suoi porti, proteggendo a distanza le operazioni di sbarco a Cipro7.

Questa soluzione era ottimale anche da un punto di vista politico, perché consentiva di creare due comandi navali separati, uno per il kapudan pascià e uno per Pialì. Finito il Ramadan cominciò a circolare la voce che non appena fossero state pronte un centinaio di galere, Pialì ne avrebbe preso il comando e sarebbe uscito in mare. Per qualche tempo si valutò l’ipotesi che prima di far vela verso nord il pascià sbarcasse un’avanguardia a Cipro, fortificando una testa di ponte dove più tardi, una volta allestiti i trasporti, sarebbe stato traghettato il grosso dell’esercito; oppure che attaccasse Candia impadronendosi del porto della Suda, per impedire alla flotta veneziana di venire a stabilirsi in quella base avanzata. Ma alla fine prevalse l’idea di avviare senz’altro la flotta di Pialì verso l’imboccatura dell’Adriatico, perché si cominciava a temere che i veneziani, una volta allestite le loro galere, attaccassero addirittura per primi, trovando indifesi i porti e le popolazioni costiere dell’impero8.

Nel frattempo, i preparativi per lo sbarco a Cipro procedevano a rilento. Nel corso del mese di marzo, con un tempo freddo e piovoso, ancora ostinatamente invernale, si cominciò a caricare artiglieria e munizioni sulle poche navi da trasporto già disponibili. Quattro navi che si trovavano nel porto di Costantinopoli, comprese le due veneziane requisite, vennero riempite con casse di biscotto, attrezzi da sterro e palle di cannone. Tre maone che si trovavano nell’Arsenale vennero messe in acqua, altre due arrivarono da Nicomedia, e su tutte si cominciò a caricare artiglierie pesanti da assedio: a un certo punto il Barbaro aveva già contato 90 pezzi di grosso calibro, cannoni e mezzocannoni nel linguaggio tecnico dell’epoca, con i loro affusti su ruote, «et pur tuttavia continuano a cargarvene». Anche le galere su cui dovevano imbarcarsi Pialì pascià e il capitano del mare erano state varate, «et questa mattina», scrisse il Barbaro il 16 marzo, «hanno con gran concorso di populo, et con molta pompa di artigliarie, gettata quella del Signor», la galea dorata costruita presso il Serraglio e riservata teoricamente al sultano. Le 25 galere destinate a uscire per prime erano ormai pronte, e «molte di esse vanno vogando per questo canale per essercitar li homini»9.

Il 20 marzo finalmente partirono, al comando di Murat rais, con 1500 giannizzeri a bordo, e con ordini segretissimi su cui il bailo raccolse le voci più disparate. Secondo i più disincantati, erano salpate solo perché il progetto di mandar fuori una squadra a intercettare i trasporti veneziani era stato divulgato già da tempo, e non si voleva perdere la faccia rinunciandovi; ma in realtà si temeva che a Creta fosse già arrivata una forte squadra nemica, e perciò il rais aveva ordine di non allontanarsi dagli Stretti finché non l’avesse raggiunto il grosso della flotta. La voce più credibile sosteneva però che a questo punto le 25 galere, dopo essersi unite con le cinque della guardia di Rodi, sarebbero davvero andate ad Alessandria e a Tripoli di Siria per caricare polvere e salnitro, di cui c’era gran bisogno per l’impresa. Il Barbaro riferì con soddisfazione che i rais non erano partiti volentieri, e vedevano dappertutto funesti presagi. È probabile che fossero scontenti soprattutto di dover salpare così presto e con una stagione così cruda, ma è anche vero che lo spirito della marineria turca inclinava volentieri alla superstizione e al malumore: i loro canti esprimevano soprattutto il timore di non rivedere il paese natale, e il senso della morte incombente su chi si avventura per mare. Più d’uno di quei rais, probabilmente, era convinto che i veneziani stessero davvero già in agguato per mandarli tutti a picco, e mormorava fra sé uno dei tanti ritornelli che invocavano l’aiuto di Dio sui naviganti: «O Signore (Yâ Rabbi), aiutaci a ritrovare la terraferma!»10.

Dopo l’uscita di Murat rais, si trattava di accelerare quella di Pialì pascià col grosso della flotta; ma i ritardi accumulati nell’approvvigionamento dell’Arsenale rischiarono di compromettere l’intera operazione. La scarsità di materiali aveva prodotto un dilemma: maggiore era il numero di galere che si decideva di allestire, peggiore sarebbe stata la loro qualità. Il Buonrizzo, partito da Costantinopoli a febbraio, garantì al doge che i turchi «facino quello che vogliono fra Costantinopoli et Galipolli non potranno arrivar al numero de 150, et se pur per qualche estraordinaria diligenza vi arivassero, Vostra Serenità può esser sicura che vi saranno galee che starebbero meglio alla mazza che a far viagio». Ai primi di aprile il Barbaro confermava: nonostante si lavorasse ormai da un anno, restavano ancora delle galere da racconciare, «et tutte sono mal fornite d’artigliaria»; non c’erano abbastanza sartiami né vele e neppure remi per armare tutti gli scafi. Quanto ai rematori, finora su 100 galere che si volevano affidare a Pialì solo 26 «havevano li galiotti dentro, et non erano anco ben fornite, et altre 12 ne potevano haver da 20 o 25 per una; ma nel resto di esse non ve ne era ancora pur uno; ben è vero che ogni hora ne giongono; ma doveano esser qui tutti al principio di marzo, et pur siamo in aprile, et ne mancano a venir almeno per 80 galee»11.

Il sultano, però, incalzato dalle notizie sempre più inquietanti dell’armamento veneziano, «solecitava con grandissima rabbia l’uscir del magnifico Pialì Bassà», e bisognò arrangiarsi. Si decise che il pascià sarebbe partito non appena fossero state pronte 75 galere. È vero che per dar battaglia alla flotta nemica ne occorrevano almeno 100, ma si risolse il problema stabilendo che Pialì si sarebbe unito a Murat rais, le cui galere alla fine si erano fermate a Rodi, nella speranza di intercettare le navi mercantili veneziane di ritorno dal Levante e i trasporti di truppe diretti verso Cipro. Continuavano, però, a mancare remi, armeggi, sartiame e vele, «et di queste cose necessarie ad una galea ne danno alli rais la metà di quello che è l’ordinario, per il che ogni uno crida et si lamenta». Si aspettavano di giorno in giorno consegne di gomene e ferramenta, ed era arrivata una galera carica di tela per far vele, ma il sultano non intendeva perdere altro tempo. L’8 aprile mandò a casa di Pialì due vesti intessute d’oro e una borsa con 5000 ducati, il donativo rituale per la partenza di un ammiraglio: «che è il segno che debba partire», riconobbe senza esitazione il Barbaro12.

La partenza d’una flotta da Costantinopoli era celebrata con pubblici festeggiamenti, e solennizzata da immutabili rituali propiziatori. Ricevuto il dono delle vesti imperiali, l’ammiraglio le indossava e andava a baciare la mano al sultano. Se si trattava del kapudan pascià, che non faceva parte del governo, il sultano gli consegnava gli ordini in una lettera sigillata, da aprire soltanto dopo aver passato gli Stretti, in modo da mantenere la massima segretezza sulla destinazione della flotta, ma poiché stavolta il comando era affidato a uno dei visir, è improbabile che si sia osservato questo cerimoniale, se non per la forma. La flotta partiva dal Corno d’oro salutata da salve d’artiglieria e spari d’archibugi, e risaliva il Bosforo fino a Bes¸iktas¸, dove l’ammiraglio si fermava almeno un giorno o due a pregare presso la tomba del suo grande predecessore, Hayreddin Barbarossa, e a banchettare con i pascià che lo avevano accompagnato. Finalmente ripartiva verso la sua destinazione, con tutte le galere dipinte a nuovo di rosso e pavesate di stendardi scarlatti – «divenute per gli alberi canneto, per le rosse insegne roseto», come le aveva descritte un antico poeta turco13.

Quell’anno, tuttavia, l’uscita della flotta fu accompagnata da contrattempi e cattivi presagi che vanificarono lo sforzo di osservare i rituali festivi. Il 13 aprile Pialì baciò la mano del sultano, poi fu accompagnato a imbarcarsi da tutti i pascià, levò lo stendardo sulla sua Capitana e salpò per Bes¸iktas¸ con 82 galere. Il Barbaro, che le vide sfilare sotto le finestre del suo palazzo di Pera, si compiacque del loro disordine: «ad alcuni rais manca parte delle velle, a chi di ferri et ad altri di armizi; et però si parteno con estrema confusione, et mala sodisfattione». Sulle galere si erano imbarcate quasi al completo le maestranze dell’Arsenale, per cui i lavori nell’impianto si erano bruscamente interrotti. C’erano anche 2000 giannizzeri, metà dei 4000 designati già nell’inverno per partire con la flotta e che secondo le previsioni del Buonrizzo «non valeranno molto, essendo per questo effetto stati descritti li peggiori, volendo il Signor li migliori con lui per terra». Il 14 le galere di Pialì ripartirono da Bes¸iktas¸ per entrare negli Stretti, ma l’indomani il Barbaro, con sua grande sorpresa, le rivide ormeggiate nel canale di Pera: «per un poco di borasca che ha fatto questa notte, sono tornate dentro, et sono hora a canto l’Arsenale male conquassate: ma per il vero sono malissimo all’ordine di ogni cosa, in modo che a pena si può credere»14.

In città corse voce che il rientro dell’ammiraglio era dovuto a un ripensamento del sultano, che avrebbe preferito non dividere la flotta e aspettare che tutte le galere fossero pronte; ma in ogni caso il divan, nella riunione del 16 aprile, decise di attenersi al piano originario: «levato che fu il Divano, si publicò chiaramente che il magnifico Pialì venirebbe solo in Colfo, et che il magnifico Mustaffà Bassà anderebbe ancor lui in galea con il capitano del mare col resto dell’armata in Cipro». Quella notte morì improvvisamente il figlio maggiore di Pialì, un ragazzino di 8 anni. I marinai, naturalmente, vi lessero un funesto presagio; ma il pascià non si scoraggiò, e sebbene costretto a partire in vesti da lutto e con le bandiere abbrunate, al posto dei broccati d’oro e dei vessilli scarlatti, a mezzogiorno del 17 salpò bravamente con 80 galere diretto a occidente. Cinque tornarono indietro il giorno dopo, probabilmente perché non tenevano il mare, e il Barbaro, che assisteva a tutti questi contrattempi con malcelata soddisfazione, si aspettava che ne tornassero altre; ma non fu così, e Pialì disparve negli Stretti con le sue 75 galere15.

A Costantinopoli c’erano troppe spie e informatori perché le notizie di questi intoppi non fossero riferite in dettaglio ai governi cristiani. In un primo momento i rapporti avevano alimentato l’impressione che i turchi sarebbero usciti in mare con una forza mai vista prima. L’ambasciatore francese Grandchamps scriveva il 14 marzo che i turchi

fanno fare 60 palandarie, che sono navi che possono portare 30 cavalli ciascuna, con 50 maone, che sono grandi vascelli che possono portare infiniti viveri, munizioni, cavalli ed equipaggiamenti, e fanno rinfrescare tutte le loro vecchie galere e ne fanno fare di nuove in diversi luoghi.

A don Luis de Torres, che partì negli stessi giorni da Roma per la Spagna, il papa raccomandò d’informare Filippo II «dei grandi e non altre volte fatti apparati turcheschi»: si parlava di 150 galere senza contare i leventi, i corsari, che potevano aggiungere una cinquantina di legni; e si favoleggiava di «centottanta palandarie, capace ogn’una di cento cavalli». I galeotti cristiani di una galera turca, che si erano impadroniti del vascello ed erano fuggiti a Messina, dove giunsero il 13 marzo, riferirono che alla loro partenza da Alessandria qualche settimana prima «sentivano dire dai turchi che c’erano lì che si preparava una grande flotta di 200 galere per andare contro Cipro e altri luoghi dei cristiani, e fra loro parlavano di Malta e La Goletta». Ma in seguito il quadro divenne meno spaventoso: già alla fine di marzo Julián López riferiva al suo re che secondo il rapporto del Buonrizzo, appena giunto a Venezia, «la flotta uscirebbe più tardi di quel che si giudicava», e un mese dopo anche l’ambasciatore spagnolo a Roma, Zúñiga, aggiungeva: «da questi ultimi avvisi che son venuti da Costantinopoli si intende che non uscirà una flotta così grande come prima si era detto»16.

Grazie ai rapporti del Barbaro e ad altri che confluivano da tutto il Dominio da Mar, i veneziani avevano le idee abbastanza chiare sulle intenzioni del nemico. Fin dal 15 febbraio, informati che il sultano faceva fabbricare biscotto in Morea e in Albania, ne avevano correttamente dedotto che la flotta nemica non sarebbe rimasta nelle acque di Cipro, ma sarebbe salita verso l’Adriatico per bloccare i soccorsi veneziani; perciò avevano discusso la possibilità di un attacco di sorpresa contro Valona e Patrasso, «per levare all’armata turchesca tutto quell’apparrecchio di biscotti», e deciso l’invio di fanti a Creta, Corfù, Cefalonia e Cattaro. Pochi giorni dopo, lettere del Barbaro avevano confermato che il piano del nemico era proprio quello, e che la guerra, cominciata per la lontanissima Cipro, rischiava di arrivare nelle acque di casa17.

A destare preoccupazione tra i governanti veneziani era soprattutto Corfù, perché l’isola coi suoi porti era lo snodo logistico indispensabile tra l’Adriatico e l’Egeo. Lì c’erano magazzini e depositi di vestiario per le ciurme, e l’unico impianto di panificazione all’ingrosso di tutto il Dominio da Mar, notorio per gli spudorati imbrogli degli appaltatori e il pane immangiabile che produceva; e lì, all’avvicinarsi della guerra, era stata avviata in gran fretta la costruzione di un ospedale militare, per cui non si era badato a spese, «et si credeva che dovesse riuscire uno delli signalati hospitali d’Italia». D’Italia: perché nessuno aveva dubbi che l’isola, nonostante la sua popolazione greca, fosse parte del territorio italiano, come conferma la Galleria delle Carte geografiche in Vaticano, concepita proprio in quegli anni18.

La difesa di Corfù era dunque vitale per la Serenissima. Se fosse caduta nelle mani dei turchi, «Candia, Cerigo, Tine, il Zante et la Ceffalonia cascherebbono senza dubbio alcuno». L’isola era considerata «la chiave et antemurale de tutta l’Italia»; la sua perdita era un’eventualità così terrificante che non si osava nemmeno pensarci. Avrebbe intrappolato la flotta veneziana nell’Adriatico, fatto venir voglia ai turchi di impadronirsi della Dalmazia, e magari di progettare un’altra e più decisiva conquista, che per scaramanzia era meglio non nominare: «si può dubitare che si penseria forse anco più avanti, che ’l signor Dio non lo permetta mai». L’isola, insomma, era «tutto il fondamento dello stato veneto», «il cuor et l’anima» dell’impero marittimo, e non sorprende che negli ultimi decenni le sue fortificazioni, giudicate tra le più potenti del mondo, avessero assorbito l’enorme somma di 270.000 ducati, il 57% di tutti gli stanziamenti per le fortificazioni dello Stato da Mar19.

Anche i turchi erano perfettamente consapevoli dell’importanza strategica di Corfù: come scrisse un loro cronista, «una volta munita di forti difese, essa è chiave e ricovero per il mare del golfo», cioè per l’Adriatico. L’isola offriva ai veneziani uno straordinario punto di osservazione verso l’esterno, tanto che «Kemal reis ebbe a dire: ‘essa funge da occhio di Venezia’». Ma era un occhio malato, la cui popolazione si era dimezzata negli ultimi trent’anni, per la difficoltà che il governo della Serenissima trovava a nutrire i suoi abitanti, e il continuo stillicidio di isolani che preferivano andare a vivere sulla terraferma, sotto dominio turco. Il timore che le galere del sultano si spingessero fino a minacciare Corfù ritorna costantemente nella corrispondenza ufficiale di quei mesi, e uno dei più vecchi e stimati comandanti veneziani, Sebastiano Venier, di cui sentiremo ancora parlare a lungo, venne nominato provveditore generale dell’isola, coll’incarico di rafforzare le difese dell’«importantissima città et isola nostra di Corfù»20.

Ma coll’avanzare della primavera i rapporti del Barbaro alimentarono un cauto ottimismo. Quando si seppe che la flotta turca non poteva salpare prima della seconda metà di aprile, a Venezia si calcolò che i trasporti di truppe già in mare avrebbero fatto in tempo a raggiungere Famagosta, e che il nemico, sbarcando a Cipro, non avrebbe potuto avvalersi del nuovo raccolto, «perché, a mezzo maggio, havranno finito di riporre tutti li grani». Quando fu chiaro che Pialì sarebbe uscito in mare anche con meno di 100 galere, e coll’ordine di spingersi a nord, il Barbaro cominciò a sperare che la flotta veneziana, più forte per quantità e qualità, potesse approfittarne per tendergli un agguato e annientarlo, «perché in vero queste galee non sono fornite di artigliarie, né di capi da mare, né di homini maritimi come doverebbono esser». La diplomazia pontificia si stava muovendo perché la flotta del re di Spagna uscisse in appoggio a quella veneziana, e il nunzio Facchinetti si augurò che le flotte riunite andassero «a trovare et combattere l’armata turchesca: la quale et di numero et di forze», come aveva riferito il segretario Buonrizzo, «sarà di gran lunga inferiore a quest’altre»21.

Più tardi, nella piena estate, quando le cose avevano ormai preso tutt’altra piega, circolò addirittura nelle capitali cristiane l’idea che allora si fosse perduta una grande occasione di farla finita fin dall’inizio con la flotta di Pialì. Rilanciando da Venezia le informazioni portate da un gentiluomo genovese di Chio, un informatore francese scrisse «che se la flotta di questi signori, anziché andare a spasso a Zara, si fosse spinta verso Negroponte, o avrebbe disfatto quella del Turco, o l’avrebbe costretto a tornare indietro in gran fretta»; e il cardinal Rusticucci scrisse da Roma che se la flotta veneziana avesse fatto in tempo a congiungersi con quella del re di Spagna, si sarebbe potuto finir la guerra con un colpo solo, «perché i turchi [...] havevano divisa la lor armata, et una parte era andata verso Cipri et l’altra, che era di cento galere, se trovava alla punta del mare con Piali [...] ma li nostri peccati, per non dir altro, ci hanno levata de mano questa occasione; et Piali tratanto, forse meglio informato, si è levato di pericolo»22.

Il timore che la flotta di Pialì finisse in una trappola traspare anche negli ordini che il sultano gli spedì dopo la sua partenza, in cui s’insiste in modo quasi ossessivo sulla necessità di prendere informazioni sicure, di individuare con certezza la posizione della flotta nemica, di non lasciarsi ingannare da notizie false sparse ad arte. «Raccogli al più presto notizie attendibili sui progetti perversi di questi miscredenti destinati alla polvere, facendo attenzione all’ingannevole superficialità delle loro azioni», scriveva il sultano all’ammiraglio il 25 maggio; e ammoniva: «è mia opinione e sospetto che questi miscredenti, così propensi al sotterfugio, mostrino una vela da un lato e prendano la fuga dall’altro, per poi comparire inaspettatamente con tutte le navi»23.

In realtà questi timori erano esagerati, e del tutto velleitarie le aspettative a posteriori espresse dagli scrittori cristiani. L’ammiraglio veneziano Girolamo Zane era arrivato a Zara già il 3 aprile, ma coll’ordine di restare nelle acque della Dalmazia finché non fosse stato raggiunto da tutte le galere e dalla fanteria, tenendosi in contatto con i rettori di Corfù, Zante, Cefalonia, Cerigo e Candia per sorvegliare i movimenti della flotta turca. Era deciso fin dall’inizio che Corfù, dove era basato il provveditore Giacomo Celsi con la maggior parte delle 31 galere già operative, avrebbe costituito la base strategica per le operazioni successive, ma lo Zane doveva trasferirsi lì solo quando la totalità delle galere armate a Venezia e a Candia fosse uscita in mare, e nessuno si faceva illusioni sui tempi: il nunzio scrisse a Roma che difficilmente il concentramento a Corfù avrebbe potuto realizzarsi prima della metà di giugno, e lo Zúñiga da Roma avvertì il re: «colla mancanza di biscotto che hanno avuto i veneziani per la carestia dell’anno, non credo che la loro flotta potrà uscire dai porti prima che possano cominciare a valersi del grano nuovo»24.

Lo Zane, dunque, stabilì il suo comando a Zara, dove con inevitabile lentezza affluivano le nuove galere: bisognò attendere l’inizio di giugno perché tutti i 94 legni da guerra montati nell’Arsenale, fra galere sottili e grosse, fossero provvisti di equipaggi e mandati a raggiungere il generale25. La presenza della flotta in quelle acque alleggerì la minaccia turca che da mesi gravava sui porti della Dalmazia; tuttavia non si osò tentare nessuna operazione importante contro i possedimenti turchi confinanti, sia perché i militari non volevano spingersi nell’entroterra «con la fanteria sola, e massimamente italiana, e la maggior parte raccolta di gente nuova, e inesperta senza avere una buona spalla di cavalleria», sia perché si temeva che per reazione la flotta di Pialì sarebbe stata attirata nell’Adriatico. I diplomatici, che facevano la guerra a tavolino, si auguravano proprio quest’eventualità, convinti che la flotta turca sarebbe corsa incontro al disastro; ma lo Zane, più consapevole dei limiti delle forze al suo comando, non aveva nessuna intenzione di tirarsi il nemico addosso. Solo quando il capitano del Golfo, Marco Quirini, fosse giunto a Corfù con le 20 galere che si stavano armando a Creta l’ammiraglio avrebbe lasciato le acque di casa per intraprendere operazioni più offensive26.

Ma durante l’attesa a Zara la fortuna abbandonò Girolamo Zane. Qualche settimana dopo la sua partenza, il Senato ricevette una spiacevole comunicazione: sulle galere c’erano molti ammalati, e il generale pregava le autorità di reclutare altri rematori e mandarglieli. Il Senato ne spedì subito duecento, senza immaginare che il problema aveva dimensioni molto più gravi. La malattia era il tifo petecchiale, e nelle galere sovraffollate, su ognuna delle quali – in uno spazio di 40 metri per 5 – erano ammassati almeno 250 uomini, il contagio dilagò fulmineamente, ammazzando galeotti, marinai, ufficiali e soldati. È difficile valutare il totale delle vittime, ma le valutazioni contemporanee parlano di decine di migliaia di morti, nel corso di un’epidemia che continuò a serpeggiare per tutto l’anno, anche dopo che la flotta si era considerevolmente ingrossata con l’apporto delle squadre di Candia e di Corfù27.

La violenza e la durata dell’epidemia sollevarono fondati sospetti circa la gestione di quella flotta improvvisata, affidata a governatori di galere nominati troppo in fretta, privi di esperienza e talvolta anche di scrupoli. Negli ordini per i comandanti della flotta il Senato avvertiva con preoccupazione che remi, vele e armeggi si stavano consumando «il doppio et forse il triplo di quello che si soleva consumar ad altri tempi»; ma adesso il problema non riguardava più i materiali. L’opinione pubblica si persuase che il tifo non era dovuto soltanto all’aria cattiva, e magari all’irritazione di Dio per i peccati dei veneziani, ma anche alla cattiva alimentazione, e dunque alla corruzione dei provveditori responsabili per il vettovagliamento. Quel che è peggio, i primi malati rimandati a Venezia denunciarono che le ciurme erano soggette a sistematici maltrattamenti da parte degli ufficiali: due galeotti erano stati addirittura ammazzati a calci. In un primo momento il governo si preoccupò soprattutto di scoprire se fra quei convalescenti non ci fossero anche dei falsi invalidi, che avevano trovato quel pretesto per sottrarsi al servizio; ma le voci di prepotenze, corruzione e incapacità continuavano a circolare con troppa insistenza per poter essere ignorate. In seguito una commissione d’inchiesta accertò che le condizioni igieniche a bordo delle galere, per la trascuratezza dei comandanti, erano spaventose, e più di un governatore, tornato a Venezia alla fine dell’anno per disarmare la sua galera, venne arrestato28.

«L’influsso di tante malatie et morti ne l’armata nostra», per citare una lettera del Senato, vanificò l’enorme sforzo che Venezia aveva sostenuto per armare la flotta. Quando finalmente tutti i vascelli furono riuniti e lo Zane poté spingersi nell’Egeo con oltre 120 galere, tutti i suoi movimenti furono condizionati dalla necessità di reclutare rematori per riportare a un livello minimo di efficienza le sue ciurme decimate; ma non ci riuscì mai, perché la notizia che sulle galere veneziane si moriva, diffusa fulmineamente in tutto il Levante, sparse il terrore fra le popolazioni costiere, rendendo difficilissimo il reclutamento29. L’idea che la flotta fosse abbastanza forte per andare a cercare quella turca e darle battaglia, impedendo lo sbarco a Cipro, venne tacitamente accantonata, e con essa venne a cadere il principale presupposto strategico su cui si era basata l’entrata in guerra di Venezia. Se quella guerra doveva avere ancora un senso, era inevitabile che da faccenda privata della Repubblica diventasse un’impresa di tutta la Cristianità.