5. Dove Mehmet pascià getta la maschera, si sequestrano navi e si arrestano mercanti, il ciaus Kubad va a Venezia ed è accolto molto male, e si piangono i primi morti
Marcantonio Barbaro si trovava in una situazione surreale. I lavori nell’Arsenale proseguivano a ritmo sostenuto, e anche se la brava gente seguitava a sperare in un intervento a favore dei musulmani oppressi in Spagna, i meglio informati concordavano ormai nel ritenere certa la guerra contro Venezia. Il 26 dicembre, per la prima volta, le voci che la flotta fosse destinata all’impresa di Cipro gli vennero riferite non soltanto come dicerie propalate dal popolo, ma «anco da qualche ministro che potrebbe saperlo»; e il panico si diffuse fra i mercanti veneziani, ognuno dei quali cominciò a pensare come salvare se stesso e le proprie robe1. Eppure gli interlocutori ottomani del Barbaro continuavano a tranquillizzarlo, ripetendogli che Venezia non aveva niente da temere; e il bailo continuava a frequentarli come se non stesse accadendo nulla, fingendo di credere ad assicurazioni cui gli sarebbe piaciuto enormemente poter credere davvero.
Non sempre si trattava di dissimulazione: molti dignitari non erano stati informati della decisione, comunicata in un primo momento soltanto ai membri del divan che erano partiti col sultano per Adrianopoli. Tornato di laggiù ai primi di gennaio, il dragomanno Ibrahim bey andò a trovare il Barbaro e gli assicurò che era stato in contatto «con tutti li personaggi grandi della Porta» e non aveva mai sentito parlare di Cipro, anzi, poteva garantire sulla propria testa che il sultano non aveva nessuna intenzione di dichiarare guerra a Venezia. Ma qualche giorno dopo, incontrando per caso il bailo, Ibrahim bey si mostrò di tutt’altro umore, e gli disse che aveva parlato «con diversi amici suoi di consideratione, et inteso che dette voci havevano più piede di quello che lui credeva»; sicché s’era pentito di aver garantito sulla sua testa, e teneva a sgravarsi la coscienza, affinché il Barbaro non credesse «che l’havesse voluto assassinarmi». Il bailo, incantato di tanta sincerità, pregò Ibrahim bey di continuare a tenerlo informato, garantendogli la massima segretezza e rafforzando la preghiera con una borsa di zecchini; e il segretario Buonrizzo assicurò più tardi al Senato «che in questa occasione il signor Ibraino ha superata ogni aspettatione che si potesse aver di lui»2.
È più difficile giudicare innocenti le assicurazioni che il bailo ricevette, in quegli stessi giorni, dal kapudan pascià, il quale lo pregò di trovargli, nei magazzini dei mercanti veneziani, dei vetri per il fanale della sua galera. Il fanale indicava il rango del comandante imbarcato sul legno, e si capisce che Alì tenesse ad avere dei vetri di qualità, come solo la produzione veneziana poteva garantire. Pur sospettando che quella galera sarebbe salpata per guidare l’invasione di Cipro, il Barbaro stette al gioco e procurò i vetri, e Alì lo fece ringraziare «cortesissimamente». Il negozio venne condotto per il tramite di «un rais amico qua di casa», chiamato Gaidar; a costui il kapudan pascià chiese che cosa pensavano i veneziani circa la destinazione della flotta. Gaidar rispose la verità, e cioè che erano preoccupati.
Allora il predetto Capitano li disse: dì al Bailo che stia sopra di me, che questa armata non è contra la Signoria di Venetia, et che sel non mi crede li manderò a mostrar la propria lettera che mi scrisse questi giorni il magnifico Mehemet Bassà dalla caccia, con l’ordine di preparar l’armata, dicendo che la era particolarmente per soccorrer li Mori di Spagna.
È vero che in certi casi la segretezza del governo ottomano si spingeva fino a tenere all’oscuro lo stesso kapudan pascià sulla destinazione della flotta, ma è poco probabile che il visir si sia spinto addirittura fino a ingannarlo; proprio a quei giorni, del resto, risale il colloquio del capitano del mare col cipriota Iseppo, che fu messo davanti a una carta nautica e minuziosamente interrogato sui porti di Cipro. Qui dunque siamo di fronte a un esempio estremo di sfacciata disinformazione, la stessa cui si dedicavano tutti i massimi esponenti del governo: il Barbaro constatò infatti che la voce che si andava a Cipro era ormai radicata fra tutti «quelli della professione marittima», mentre «li ministri, et altri della Porta divulgano più quella di Spagna»3.
Un altro esempio di disinformazione è annotato dal bailo, che però non si sbilancia sulla credibilità di ciò che gli viene riferito. Il gran visir ricevette un turco che era stato schiavo a Malta e ne era fuggito; costui gli disse che se i turchi, dopo la spedizione fallimentare del 1565, fossero tornati ad attaccare l’isola l’anno dopo, i cristiani l’avrebbero abbandonata, al che Mehmet esclamò: «vedremo se quest’anno la potranno diffendere». Questa straordinaria conversazione venne riferita al bailo da uno schiavo napoletano, imbianchino di mestiere, che stava lavorando nella camera del pascià, e che il Barbaro giudica «homo da bene, et di spirito». Ottimo: ma è improbabile che una vecchia volpe come il pascià non sapesse che lo schiavo al lavoro nel suo ufficio ascoltava le sue parole, e che le avrebbe riferite al bailo. Il Barbaro precisa che da qualche tempo aveva con quel napoletano regolari contatti, e anche questa circostanza era certamente nota al gran visir, il quale approfittò della sua presenza per mettere in circolazione un’altra falsa notizia4.
Nel frattempo il sultano era tornato dalla caccia, recandosi di persona a ispezionare l’Arsenale, dove le maestranze ora lavoravano anche di notte, e il Tophane, il deposito d’artiglieria dov’erano conservati i cannoni e la polvere da sparo per la flotta. Il 21 gennaio accadde il primo incidente: il Barbaro seppe che due navi da trasporto sul punto di salpare per Venezia erano state sequestrate e andò a lamentarsi dal gran visir, il quale «con cortesi parole disse che ’l non poteva farne altro perché il Signor se ne voleva valer per servitio dell’armata pagandoli li suoi noli, come era stato fatto altre volte». Mehmet pascià proseguì impartendo al bailo una ripetizione di diritto marittimo, ricordandogli «che questo non doveva parer stranio perché era solito che li principi in simil occasioni si valevano delle navi che ritrovavano, et specialmente di quelle de suoi amici». Il bailo si ripromise di tornare alla carica, ma in realtà il gran visir aveva perfettamente ragione, tanto che anche a Venezia la notizia del sequestro non fu accolta come una provocazione: «in queste occasioni è solito ritenersi le navi, siano di chi si voglia», annotò seccamente il nunzio5.
A raddoppiare l’ansietà del Barbaro c’era il timore che le sue lettere fossero intercettate e non giungessero a Venezia; perciò adottò la precauzione di mandarle in più copie e per strade diverse, indirizzando duplicati anche alle autorità coloniali a Cipro e a Candia6. I lavori di allestimento della flotta proseguivano sotto i suoi occhi a ritmo sostenutissimo, seguiti personalmente dal kapudan pascià e dallo stesso gran visir, che molto spesso si faceva vedere all’Arsenale. Si reclutavano operai dappertutto; già prima di sequestrare le due navi le autorità ottomane avevano chiesto in prestito ai capitani gli operai specializzati che si trovavano a bordo, e non era stato possibile rifiutare, sicché alle galere del sultano lavoravano anche falegnami e calafati veneziani. Le preziose notizie fornite da Ibrahim bey confermavano che la situazione si stava facendo più grave di giorno in giorno. Il 24 gennaio Mehmet pascià domandò al polacco se a suo giudizio la Serenissima avrebbe accettato di cedere Cipro senza combattere, e aggiunse: «che hanno da far venetiani in quell’isola?». Ibrahim andò subito a trovare Feridun bey, segretario del divan e consigliere personale del gran visir, e gli descrisse le difficoltà dell’impresa di Cipro; ma questi gli rispose che non credeva ce ne fossero tante. Il 28 si sparse la voce a Pera che entro l’indomani tutti i veneziani sarebbero stati arrestati, e chi poteva si preparò a lasciare la città. Finalmente, la mattina del 29 gennaio Ibrahim bey venne a trovare il Barbaro da parte di Mehmet pascià, e gli disse in tono grave che non si preoccupasse più di navi sequestrate e lamentele di mercanti, «perché era tempo di pensar ad altro». Il gran visir aveva deciso di gettare la maschera7.
Il messaggio che Ibrahim bey era incaricato di recapitare al Barbaro era confezionato in tono conciliante, anche se l’apertura era brutale: «il Serenissimo Signor era resoluto al tutto di voler l’isola di Cipro», e il gran visir aveva già chiarito più volte che in casi del genere non sarebbe certo stato lui ad opporsi alla volontà del padrone. Ma questo non significava ancora la guerra: Selim non credeva che Venezia avrebbe combattuto per così poco, e Mehmet assicurava che se Cipro fosse stata ceduta con le buone «si continuerebbe in bona pace». Ibrahim bey aveva avvertito il gran visir che s’illudeva, se credeva che la Serenissima avrebbe rinunciato all’isola senza combattere; Mehmet gli ordinò di riferire al bailo che se Venezia non si fosse piegata «la perderà non solamente Cipro ma anco delle altre cose».
Subito dopo, come pentito di essersi lasciato sfuggire quella minaccia, il pascià enumerò i motivi di risentimento che il sultano nutriva contro la Repubblica: sui confini fra i due Stati in Dalmazia si verificavano continue illegalità e atti di brigantaggio tollerati dai rettori veneziani; e a Cipro si lasciavano approdare, contro gli accordi, i “corsari ponentini”, spagnoli o maltesi, che rendevano insicuri i traffici dei mercanti islamici. Infine, il gran visir spiegò che il sultano era criticato dai religiosi, perché sopportava che Cipro, dove molto tempo prima si pregava Dio nelle moschee, fosse ora in mano ai cristiani; e concluse che dopo tutto l’isola apparteneva già al sultano, come dimostrava il fatto stesso che i veneziani gli pagavano il tributo, sicché se il Gran Signore con buoni motivi rivoleva il suo regno, non era giusto negarglielo. Ibrahim aggiunse che il gran visir sarebbe stato ben contento di parlarne di persona col bailo, a cui rinnovava cortesemente tutta la sua amicizia, «dolendosi assai che in tempo dell’uno et dell’altro succedessero questi rumori»8.
Il Barbaro chiese immediatamente un colloquio con Mehmet pascià, e lo ottenne già l’indomani. Spiegò al gran visir la sua meraviglia che il sultano volesse rompere il trattato di pace firmato due anni prima, e lo invitò, se aveva delle lamentele, a chiederne soddisfazione «colli modi che si usano fra principi amici». Mehmet lo ascoltò pazientemente, poi rispose che purtroppo le lamentele erano molte e giustificate, confermate per iscritto da sangiacchi e cadì, e i dottori della legge avevano messo il sultano talmente alle strette che gli era impossibile tornare indietro. Aggiunse, rattristato, che se Venezia «havesse qualche volta tenuta gratificata Sua Maestà con cose che importano poco», accettando ora di cedergli qualche villaggio di confine, ora di regalargli tre o quattromila ducati, come lui stesso aveva più volte consigliato, non si sarebbe giunti a quel punto. Infine,
con grandissima quietezza et amorevolezza, domandò poi quante miglia erano da Venetia in Cipro; et rispondendoli il clarissimo bailo che potevano esser circa doimille miglia, lei soggionse ridendo: «Che volete far di quell’isola tanto lontana? [...] Lasciatela a noi, perché la starà meglio nelle nostre mani».
Il bailo rispose sullo stesso tono che il doge, proprio perché amava tanto il sultano, si compiaceva d’avere una provincia così vicina al suo impero; e gli ricordò discretamente i profitti che il sultano e i suoi sudditi traevano dai commerci veneziani in transito per Cipro. Mehmet pascià volle sapere se davvero la Signoria era disposta a fare la guerra per questo; il Barbaro replicò che nessun principe aveva mai ceduto spontaneamente una provincia senza combattere. Il gran visir ribadì che gli ulema rinfacciavano al sultano la trasformazione delle antiche moschee in chiese cristiane; il bailo ribatté che per quanto ne sapeva lui «mai quell’isola era stata de Musulmani». Il gran visir fece portare prontamente un libro di storia, da cui risultò che il bailo aveva torto, perché il quinto califfo aveva posseduto Cipro per trent’anni. «Et con questo terminò il ragionamento, il qual fu lunghissimo, ma sempre il bassà ragionava tanto dolcemente che certo non si havrebbe più potuto desiderare» annotava il Barbaro, sedotto dalle buone maniere del suo avversario9.
A partire da quel giorno, Marcantonio seppe con certezza che le sue lettere non arrivavano più a Venezia. Le ultime che aveva spedito vennero intercettate e consegnate all’agà dei giannizzeri, il quale, trovandole in cifra, voleva convocare il segretario Buonrizzo e costringerlo a decifrarle «o per bontà o per forza»; ma un rinnegato fiorentino, amico del Buonrizzo, riuscì a convincerlo che una questione così delicata doveva essere riferita al gran visir. Sciaus, preoccupato di non fare passi falsi, portò le lettere a Mehmet, il quale rinunciò a farle decifrare ma informò il bailo dell’accaduto, gettandolo in viva agitazione. Il successivo pacchetto di lettere per Venezia venne affidato a due turchi, «confidenti della casa et homini pratici», che si offrirono di portarle a Corfù per l’enorme compenso di trecento zecchini; ma dopo tre giorni di viaggio, arrivando a un passo di montagna, seppero che due ciaus fermavano e perquisivano tutti i viaggiatori, per cui preferirono tornare indietro. Da quel momento in poi, il Barbaro mandò tutte le sue lettere «alla ventura», in quattro o cinque copie, alla volta di Cattaro, di Ragusa, di Candia, di Corfù, sapendo che la maggior parte sarebbero state intercettate, ma sperando «che almeno una mano capitasse bene». A Venezia, il rarefarsi delle lettere venne notato a partire dalla fine di febbraio, e fece nascere il sospetto che il bailo fosse stato messo agli arresti10.
Al Barbaro restava comunque una speranza: se il sultano e il gran visir insistevano tanto perché Venezia cedesse Cipro con le buone, forse non erano poi così inclini a fare la guerra a tutti i costi. Dai primi giorni di febbraio 1570, in effetti, abbiamo indizi che i preparativi per la flotta erano in grave ritardo, nonostante la diligenza del kapudan pascià e la mobilitazione delle maestranze. Il 9 febbraio, Monsieur de Grandchamps scriveva a Parigi che dopo l’ispezione dell’Arsenale il sultano e i suoi ministri
sono rimasti molto delusi, perché si sono trovate più di 35 galere rovinate che non potranno assolutamente viaggiare. Quanto alle loro palandarie, non possono averne un così gran numero entro l’inverno, e bisogna che allunghino i tempi, e vi assicuro che trovandosi così mal messi per la loro impresa, non cercano che di guadagnar tempo.
Il Buonrizzo ebbe da testimoni oculari le stesse informazioni circa il ritardo nella fabbricazione dei trasporti e l’irritazione del sultano: il cantiere del Mar Nero dove era stato ordinato di costruire le palandarie si era trovato a corto di legname, «per il che era stato mandato un chiaus che tagliasse il naso e le orecchie al cadì di quel loco, per la poca diligenza che in ciò ha usata»11.
In questa situazione il bailo e il gran visir avevano entrambi interesse a prendere tempo. I due vecchi diplomatici ne discussero per il tramite d’Ibrahim bey, che faceva la spola fra il Serraglio e il palazzo di Pera. Il Barbaro chiese di poter informare il doge delle richieste del sultano, e lasciò intendere, in perfetta malafede, che se il Gran Signore avesse mandato qualcuno ad esporle avrebbero forse potuto trovare orecchio favorevole. Mehmet pascià accettò con entusiasmo il suggerimento, e il sultano designò per l’ambasciata uno dei suoi ciaus più esperti, Kubad; con delusione di Ibrahim bey, il quale s’era dato tanto da fare «forse con pensiero che dovesse esser lui quello che dovesse venir a far quest’ufficio». Selim volle inoltre che per facilitare il viaggio di Kubad il bailo inviasse con lui il segretario Buonrizzo. Il Barbaro era abbastanza persuaso che tanta disponibilità fosse puramente strumentale, dovuta soltanto alla «impossibilità che hanno di poter haver in tempo le palandarie», ma decise comunque di approfittarne per riferire a Venezia tutto quello che era venuto a sapere fino a quel momento12.
Il Buonrizzo accolse con sollievo la notizia che lo rimandavano a Venezia, mentre il bailo restava a Costantinopoli; più tardi garantì al doge che il suo superiore si era sacrificato di buon animo, «non desiderando in questo mondo maggiormente che haver occasione di servire la Serenità Vostra col sangue proprio». Prima della partenza andò a prendere congedo dal gran visir, il quale gli raccomandò di salutargli affettuosamente il doge, e di ricordare alla Signoria quanto grande era la potenza del sultano. Lui, Mehmet, per amicizia consigliava di cedere Cipro senza discutere, e il Buonrizzo se voleva rendere un buon servizio al suo paese doveva parlare al doge in questo senso.
Et qua entrò a dir che Sua Maestà poteva far quante galee che la voleva, et che se la risolverà, non sarà possibile poterle impedir che la non venga con esse galee anco fin in questa illustrissima città, con altre vanità simili, indegne veramente d’esser uscite dalla bocca d’un tanto homo di stato come lui.
Con tutto il rispetto che provava per Mehmet, il segretario trovava una ridicola vanteria l’idea che la flotta turca potesse risalire l’Adriatico fino a minacciare la Laguna, e concluse che evidentemente il pascià scherzava, o almeno recitava una parte, senza curarsi d’esser creduto davvero: «Vero è che fece tutto questo officio meco quasi sempre sorridendo».
Ma le parole con cui il gran visir lo congedò indicano che sapeva bene quale partita stava giocando. Se il sultano voleva Cipro, l’avrebbe avuta; quanto a lui, Mehmet, preferiva non arrivare alla guerra, e stava manovrando per ottenere una cosa e scongiurare l’altra.
Chiamatomi appresso, mi soggiunse nell’istesso modo le formal parole: «Secretario, advertisci bene, parla di queste cose con quei signori vecchi, ch’io so che sono savi et prudenti et non con li giovani, perché non conoscendo questi le tremende forze del Gran Signor m’immagino che diranno: chi sono questi Turchi? che, habbiamo noi forse paura di loro?».
Il gran visir gli comandò di riferire in dettaglio i preparativi del sultano, persuaso che una volta informati della tempesta incombente i veneziani sarebbero stati ben contenti di rinunciare a Cipro senza combattere13.
Nell’Occidente cristiano si stava col fiato sospeso, in attesa di sapere dove la tempesta si sarebbe scaricata. A confondere le idee venne l’impresa che Uluç Alì scatenò proprio allora con successo contro Tunisi. Il calabrese era il più famoso corsaro della sua generazione; la leggenda voleva che fosse stato schiavo al remo su una galera turca per ben quattordici anni, finché non aveva rinnegato per potersi vendicare di un’offesa. Rais corsaro indipendente dagli anni Quaranta, divenne in seguito comandante della squadra di Alessandria e poi pascià di Tripoli, finché Selim, che lo apprezzava, nel 1568 lo nominò beylerbey di Algeri. Aneddoti su di lui correvano in tutti i porti del Mediterraneo: Cervantes, che fu schiavo ad Algeri, ne parla con ammirazione e assicura che «trattava con grande umanità i suoi schiavi». Gli inviati veneziani che lo conobbero in vecchiaia, quando viveva nel lusso a Costantinopoli, non nascondono il livore di fronte a questo meridionale «nato vilissimamente» che ha fatto una tale carriera, e insinuano che «non sa né leggere né scrivere»; ma non nascondono neppure l’invidia per un vecchio gagliardo e straricco, che non si nega nessuno di «quelli piaceri che sogliono haver li giovani». A uno di loro Uluç Alì confessò il suo segreto: «disse un giorno ragionando familiarmente che di doi cose non tiene conto, né di denari né delli suoi anni, et perciò che spende volentieri et vive allegramente». Ma nel 1570 il calabrese, poco più che cinquantenne, era ancora in piena attività e chi lo conobbe in quel periodo non lo trovava affatto allegro, riconoscendo piuttosto in lui il duro professionista: attivo, pratico, zelante, e «buon marinaro, ma di non molto discorso»14.
Dal punto di vista di Filippo II e dei suoi ministri, a cui importava pochissimo di Cipro, l’offensiva di Uluç Alì nel Maghreb era infinitamente più importante ed era difficile credere che i grandi preparativi in corso a Costantinopoli non fossero destinati ad alimentarla, aggredendo l’ultimo presidio spagnolo rimasto presso Tunisi, La Goletta. Il 19 gennaio 1570 un avviso da Palermo dava per certo «che la flotta del Turco uscirà presto e molto potente, e anche se una parte di essa andrà in soccorso dei moriscos di Spagna lo sforzo maggiore si farà su La Goletta». Il 30 gennaio Gian Andrea Doria, comandante d’una squadra privata di galere al soldo del re di Spagna, avvisò che secondo un informatore genovese a Costantinopoli l’uscita della flotta era ormai sicura; Filippo II annotò in margine: «Occhio». Meno d’un mese dopo l’ambasciatore spagnolo a Genova Diego Guzmán de Silva scrisse al re che anche i veneziani, dopo che Uluç Alì aveva preso Tunisi, erano un po’ più tranquilli, pensando che l’obiettivo finale dei turchi fosse La Goletta. In realtà gli informatori a Costantinopoli continuavano a parlare di Cipro, ma alle autorità spagnole queste voci sembravano così in contrasto con la realtà dei fatti che stentavano a crederci. Ancora il 5 marzo Gian Andrea Doria scriveva: «gli avvisi che ogni giorno giungono dal Levante sembrano dimostrare che questo sforzo di flotta così grande ha da essere per l’impresa di Cipro, ma mi è difficile crederlo visto che quelli di Algeri si sono svegliati così presto»15.
A Venezia, effettivamente, dopo i primi giorni convulsi in cui si era presa la decisione di armare la flotta, gli animi erano di nuovo incerti. L’ambasciatore a Madrid, che era il figlio di Marino di Cavalli, Sigismondo, ebbe l’incarico di persuadere Filippo II che i turchi volevano sbarcare in Spagna: i veneziani non ci credevano, ma se il re avesse deciso di armare le sue galere, Venezia ne avrebbe comunque tratto vantaggio. In Spagna la notizia trovò ascolto, e la gente rimase poi a lungo col fiato sospeso: ancora in primavera il successore del Cavalli, Lunardo Donà, viaggiando da Barcellona a Valencia scoprì che tutti i «cristiani vecchi» erano in preda al terrore che la flotta turca comparisse improvvisamente all’orizzonte, scatenando una rivolta generale dei moriscos. Ma quando gli spagnoli si misero in allarme, i veneziani cominciarono a crederci anche loro, e a illudersi che forse, dopo tutto, l’avrebbero scampata. L’empito patriottico aveva già lasciato il posto a più sobrie considerazioni sul costo delle imponenti misure difensive appena deliberate, coll’immediata conseguenza di rivederle al ribasso. Fra i senatori, molti non avevano nessuna voglia di fare la guerra al Turco, prevedendo i danni che ne sarebbero venuti ai loro commerci; chi aveva grossi investimenti in Levante, navi e merci e crediti nelle città dell’impero, e magari i figli laggiù a dirigere le filiali, avrebbe senz’altro ceduto Cipro al sultano piuttosto che affrontare la guerra16.
Ma l’illusione durò poco. Intorno al 20 febbraio giunse fortunosamente a Venezia un plico di lettere del Barbaro, spedite un mese prima, alla vigilia della sua memorabile intervista col gran visir, e piene di particolari inquietanti. Il bailo non si limitava a insistere sulle voci che correvano a Costantinopoli e sui preparativi per la flotta, ma riferiva che era stata reclutata una gran quantità di zappatori, necessari per le operazioni d’assedio, concentrandoli nei porti della Caramania, di fronte a Cipro. Grazie ai suoi informatori, il Barbaro era addirittura in grado di comunicare il piano di operazioni: mentre le palandarie traghettavano l’esercito e lo sbarcavano sull’isola, la flotta da guerra si sarebbe spinta all’imbocco dell’Adriatico per sbarrare la strada a quella veneziana e impedirle di portare soccorso a Cipro. Qualche decina di galere era già pronta ad uscire per intercettare i trasporti veneziani, se la Signoria avesse tentato di mandare fin d’ora truppe sull’isola. A Venezia queste notizie misero fine a ogni esitazione; i Signori informarono il nunzio «d’haver certezza che il Turco vogli occupare loro Cipro», e il Facchinetti notò un immediato cambiamento nel ritmo dei preparativi: «non si perdona a spesa»17.
Oltre agli avvertimenti del Barbaro, segnali inequivocabili di guerra giungevano a Venezia da ogni parte del suo impero marittimo. Dopo il sequestro delle due navi a Costantinopoli giunsero notizie dalla Dalmazia per cui ai sangiacchi locali era stato dato l’ordine di far ritirare le popolazioni costiere nei luoghi fortificati, lontano dal mare, e di arrestare tutti i mercanti veneziani. Nei confronti di questi ultimi, in realtà, il governo ottomano sembra essere stato diviso fra il desiderio di intimidire l’avversario e quello di non interrompere commerci lucrosi per tutti; per cui adottò soltanto misure parziali, limitate all’area in cui stava per scatenarsi il conflitto. Il sultano mandò i suoi ciaus in Siria e in Egitto, con l’ordine di fermare tutti i mercanti veneziani che si trovavano in quei porti e confiscare le loro mercanzie, mentre in altre località, compresa la stessa capitale, non venne presa alcuna misura ai loro danni, salvo la proibizione di ripartire senza permesso18.
Il sequestro delle due navi nel porto di Costantinopoli era comunque sufficiente a colpire interessi vastissimi, e si capisce dunque che l’ambasciatore francese abbia potuto scrivere, il 9 febbraio, che «tutte le navi veneziane sono prese, e anche le mercanzie». A Venezia si temeva il peggio, e i timori parvero confermati ad aprile, quando giunsero lettere del console in Siria, che comunicava il fermo dei mercanti e delle loro mercanzie a Tripoli ed Aleppo. Anche ad Alessandria si ebbero sequestri di merci; le fonti sono discordanti circa la sorte dei mercanti, che secondo il governo veneziano in un primo momento vennero imprigionati in una torre, ma è certo che le autorità locali non furono zelanti nell’attuare gli ordini ricevuti: Mehmet, pascià d’Egitto, dopo la fine della guerra chiese una ricompensa al governo della Serenissima, vantandosi di aver permesso a molti nobili veneziani che si trovavano in città di ritornare liberamente in patria, e quando il kapudan della guardia d’Alessandria ne imbarcò alcuni a forza sulle sue galere, lo costrinse a liberarli19.
Ai veneziani, tuttavia, era bastato il primo segnale d’un attacco ai loro interessi commerciali per decretare una ritorsione indiscriminata. Il 5 marzo il nunzio annotava lietamente: «hieri furono messi prigione qui tutti i mercanti et hebrei levantini et sequestrateli le loro robbe». La retata fu amplissima: vennero arrestati 75 negozianti musulmani e 97 ebrei, oltre a quelli successivamente fermati nei possedimenti del Levante, via via che l’ordinanza raggiungeva le autorità locali. La diffusa persuasione che João Migues, e con lui una pretesa Internazionale ebraica, avessero lavorato per la guerra spinse le autorità della Serenissima ad estendere le rappresaglie alla comunità ebraica residente a Venezia, considerata una quinta colonna del nemico; mentre i cristiani sudditi del Turco non vennero disturbati. Ma il fatto di toccar con mano, per la prima volta, le conseguenze economiche della guerra rinforzò anche il partito pacifista; il clima in città, osservava il Facchinetti, era bellicoso e patriottico, e i contrari alla guerra non osavano parlare troppo, «ma se ’l Turco lasciasse salve loro le mercantie c’hanno in Levante, questa parte saria assai numerosa»20.
La riluttanza a sacrificare gli interessi commerciali accomunava del resto tutti i governi coinvolti. Se il nunzio informava Roma così minuziosamente sugli umori del governo veneziano, è perché papa Pio V e la sua giovane squadra di governo, capeggiata dal non ancora trentenne cardinale Alessandrino, scommettevano sulla guerra e speravano di trasformarla in una mobilitazione di tutta la Cristianità contro la minaccia ottomana. Ma la soddisfazione del Vaticano per le misure adottate da Venezia contro i mercanti ebrei si trasformò in irritazione quando due galere veneziane cominciarono a fermare le navi che uscivano da Ancona, porto dello Stato pontificio, confiscando le merci appartenenti agli ebrei. Levantini o no, quei mercanti erano sotto la protezione del papa e il nunzio ebbe ordine di protestare formalmente, esigendo la restituzione delle merci; ma l’antisemitismo veneziano, che il nunzio aveva così spesso incoraggiato in passato, stavolta gli si ritorse contro. Ancora mesi dopo, uno sconsolato Facchinetti era costretto a comunicare a Roma d’aver «parlato vivamente» col doge a favore dei levantini di Ancona, ma di non essere riuscito a spuntarla, «dicendomi Sua Serenità che i principali di questa guerra sono stati hebrei»21.
Rumori di guerra giungevano anche dalla Dalmazia, dove i sangiacchi che confinavano con i possedimenti veneziani avevano avuto ordine di cominciare le ostilità. In genere quei funzionari non disponevano di truppe regolari e di artiglieria, così da poter assediare le piazzeforti veneziane affacciate sull’Adriatico; ma ciascuno di loro poteva mettere in campo una numerosa cavalleria irregolare, che le comunità musulmane bosniache e albanesi erano tenute a fornire gratuitamente in base alle loro convenzioni col sultano. Queste bande di cavalleggeri, poco e male armati, in tempo di guerra avevano licenza di entrare in territorio nemico e darsi al saccheggio, e i sangiacchi più zelanti non tardarono a scatenarle «fino alle porte delle Città del Dominio Veneziano, togliendo a’ paesani le biade, gli animali, e ogni altra cosa loro, e facendone molti prigioni»22.
Gli incidenti più gravi avvennero a Zara, il più importante scalo veneziano sulla costa adriatica, che rimase poi per tutta la durata della guerra sotto la minaccia della cavalleria turca che si aggirava sulla frontiera. Ai primi di marzo giunse notizia a Venezia «che nel territorio di Zara era disceso gran numero di cavalleria turchesca che andava predando et abbrugiando case». Anche altrove gli irregolari turchi entrarono in territorio veneziano, commettendo occasionali atrocità, come a Sebenico, dove si seppe che «i Turchi, scorrendo quel territorio, hanno preso alcuni de’ nostri, i quali hanno fatto morire con morte molto atroce et barbara». Ma l’attenzione era fissata soprattutto su Zara, e fece enorme impressione a Venezia la notizia che il giovane Bernardo Malipiero, comandante della cavalleria in Dalmazia, uscito da Zara il 9 marzo con ottanta stradiotti per intercettare una banda di razziatori, era stato sopraffatto e ucciso. Era passata una generazione dall’ultima volta che un patrizio veneziano era caduto in battaglia; ben presto notizie del genere avrebbero smesso di far sensazione23.
Appena cominciata, però, la guerra non dichiarata contro i veneziani venne sospesa per ordine del sultano. Inviando il ciaus con l’ultimatum, Selim decise in segno di buona volontà di revocare i sequestri di mercanzie e gli ordini bellicosi ai sangiacchi di Dalmazia. Il bailo, coll’aiuto sincero «del magnifico Cubat» con cui aveva una vecchia familiarità, persuase il gran visir a scrivere alle autorità di Siria e d’Egitto, e a non dare disturbo ai mercanti che si trovavano nella capitale. Mehmet pascià rifiutò di dissequestrare il carico delle due famose navi, e volle che tutti i mercanti veneziani s’impegnassero a non lasciare il territorio ottomano senza autorizzazione, almeno fino a quando non fossero giunte notizie su com’erano trattati i levantini a Venezia; ne fece le spese un tal Giulio Croce, che cercò di svignarsela senza permesso e venne puntualmente arrestato, ma a parte lui il Buonrizzo poté garantire che fino alla sua partenza non «era stata fatta altra insolentia ad alcuno della nation nostra». Anche a Tripoli e ad Alessandria i mercanti vennero rimessi in libertà; ci volle un po’ di tempo perché fossero dissequestrate anche le merci, e concessa l’autorizzazione di commerciare, ma l’iniziativa dei consoli e qualche opportuna bustarella raggiunsero lo scopo: ben presto si seppe che «ciascheduno di essi trafficava, et faceva liberamente i fatti suoi»24.
La scelta di affidare l’ultimatum a Kubad non era casuale, e conferma che la Porta sperava davvero di convincere i veneziani a cedere Cipro senza combattere. Il ciaus era una vecchia conoscenza della Serenissima, perché era già venuto a Venezia due anni prima, coll’incarico di districare un complicato litigio commerciale, e c’era rimasto parecchi mesi, concedendosi piaceri insoliti fra cui un concerto per violino e clavicembalo organizzato nel suo alloggio alla Giudecca. Durante quel soggiorno Kubad aveva avuto alle costole l’interprete ufficiale veneziano, il dragomanno Michele Membré, il quale riferì d’essere entrato in grande amicizia con lui, anche perché erano tutt’e due circassi. L’interprete raccontò che nelle loro conversazioni il ciaus s’era rivelato molto curioso della preparazione militare di Venezia, e in particolare delle fortificazioni di Cipro. Per quanto questa curiosità possa apparire di cattivo augurio, non c’è dubbio che Kubad si era trovato bene a Venezia, e anche in seguito, nella sua qualità di principale esperto di cose veneziane alla Porta, aveva fatto il possibile per mantenere buoni rapporti fra le due potenze, tanto che pochi mesi prima la Signoria gli aveva regalato mille zecchini. Il Barbaro e il Buonrizzo ne parlano sempre in termini affettuosi, e tutto lascia pensare che l’inviato del sultano sperasse di replicare il successo della sua prima missione veneziana.
Kubad e il Buonrizzo partirono l’11 febbraio da una Costantinopoli flagellata dalla pioggia, e viaggiarono verso Venezia in compagnia del dragomanno Mateca Salvago e del figlio più giovane del Barbaro, che il padre voleva levar dai pericoli. Cavalcarono per via di terra fino a Ragusa, e in quel porto cristiano, ma tributario del sultano, salirono a bordo d’una galera veneziana che era stata mandata a prenderli. Kubad approfittò della sosta per mandare al suo governo tutte le informazioni che aveva potuto raccogliere sui preparativi militari di Venezia; il Buonrizzo si studiò abilmente di agevolarlo, convinto che la Porta, informata di quei preparativi, sarebbe tornata sulle sue decisioni. Sempre a Ragusa, il ciaus fu informato che il comandante della fortezza turca di Castelnuovo aveva arrestato degli inviati di Cattaro in viaggio verso Venezia, e che qualche sangiacco, nonostante i contrordini ricevuti, continuava a molestare il territorio veneziano. Su richiesta del Buonrizzo, Kubad scrisse al gran visir per denunciare quei funzionari, e il dragomanno Mateca, che riuscì a vedere la lettera, confermò che «è stata fatta in così buona forma che non haverebbe potuto desiderar più». Quando il piccolo gruppo, dopo un mese e mezzo di forzata intimità, giunse finalmente al largo del Lido il 26 marzo 1570, domenica di Pasqua, tutti i viaggiatori probabilmente si aspettavano che la guerra potesse essere evitata25.
A Venezia si sapeva già da due settimane che il ciaus stava arrivando, e che veniva a chiedere la cessione di Cipro. Il Buonrizzo era partito da Costantinopoli munito di lettere del bailo che spiegavano i motivi della missione, e aveva avuto modo di spedirle prima ancora d’arrivare a Ragusa. Il governo non ebbe dunque bisogno di aspettare il testo dell’ultimatum per conoscere i termini della richiesta portata da Kubad. Il consiglio del Barbaro, poi reiterato a voce dal segretario, era di tener duro, nella speranza che di fronte a una resistenza inattesa sarebbero stati i turchi a fare un passo indietro. La Serenissima non aveva bisogno di sentirselo dire: già l’11 marzo, sulla base delle ultime lettere arrivate da Costantinopoli, aveva ordinato al provveditore Giacomo Celsi e agli altri comandanti in mare di trattare «li sudditi, et cose turchesche» come nemici dichiarati, ogni volta che si presentasse l’occasione26.
Il 17 marzo in Pregadi, come allora si chiamava il Senato, venne discussa la condotta da tenere coll’ambasciatore; ma non si trattava già più di decidere se dare o meno accoglienza alle sue proposte. L’unica linea ufficialmente ammessa era quella della fermezza: il ciaus avrebbe ricevuto «quella risposta che ricerca una così ingiusta et inhonesta dimanda». Il problema era di stabilire le formalità dell’accoglienza riservata a Kubad, da cui poteva dipendere il mantenimento d’un ultimo spiraglio negoziale: si votò se ascoltarlo in segreto, e la proposta venne bocciata; se rimandarlo indietro senza neppure farlo entrare a Venezia, e anche questa venne bocciata; prevalse infine l’idea di ascoltarlo in un’udienza pubblica. Il nunzio pontificio, che ovviamente premeva per una linea durissima, venne gratificato con l’assicurazione che il Collegio avrebbe ricevuto il ciaus in modo insultante, «facendolo stare abasso in piedi, sì come stanno tutte le persone private, et lo rimanderanno subito indietro». Questa decisione parve così importante alla diplomazia vaticana che il Facchinetti la comunicò immediatamente al cardinale Alessandrino, e questi la trasmise all’inviato straordinario del papa presso Filippo II, don Luis de Torres. Dopodiché, il nunzio attese che la galera mandata a prendere Kubad arrivasse; ma non arrivava mai. Facchinetti finì per sospettare che i veneziani avessero ritardato apposta l’arrivo per guadagnare tempo, calcolando che fino al ritorno dell’inviato i turchi non avrebbero cominciato le operazioni contro Cipro. Finalmente, il giorno di Pasqua si seppe che la galera era in vista27.
Appena arrivato al Lido, Kubad capì che il clima non era più lo stesso del suo primo soggiorno. La galera venne trattenuta in mare; mentre il Buonrizzo e il figlio del bailo erano condotti a terra da una barca del Consiglio dei Dieci, Kubad col suo seguito dovette restare a bordo, dove il sopracomito ebbe ordine di non lasciarlo parlare con nessuno. Quel giorno stesso il grido «guerra, guerra» risuonò in Collegio, mettendo a tacere le voci degli oppositori, e al vespro il doge, recandosi in processione pasquale alla chiesa di San Zaccaria, venne preceduto da stendardi rossi, come si usava fare soltanto in tempo di guerra, suscitando enorme eccitazione in città. Già da qualche giorno si era confermato a uno dei patrizi più ricchi e influenti, Girolamo Zane, l’incarico, cui era stato eletto parecchio tempo prima, di capitano generale da mar, che diventava effettivo solo in tempo di guerra; il bastone del comando gli venne consegnato nella basilica di San Marco il lunedì di Pasqua, lo stesso giorno in cui il segretario Buonrizzo presentò il suo rapporto in Pregadi28.
Venezia, dunque, aveva già dichiarato guerra quando Kubad, dopo essere rimasto due giorni a bordo della galera ancorata in Laguna, venne mandato a prendere martedì 28 e condotto a Palazzo29. Lungo tutto il percorso si era assiepata una folla da cui partivano insulti e forse anche pietre all’indirizzo dell’inviato turco; i sei ufficiali di polizia che lo precedevano fecero fatica a fargli strada attraverso la folla ostile fino all’ingresso del Palazzo. Giunto in Collegio, peraltro, Kubad venne ricevuto assai più onorevolmente di quanto i veneziani non avessero promesso al nunzio. Anziché stare in piedi, venne fatto sedere alla destra del doge Loredan, come si usava con tutti gli ambasciatori; però era stato deciso che nessuno doveva alzarsi al suo ingresso, né fargli cenno col capo in segno di benvenuto. Baciata la veste al doge come richiedeva il protocollo, Kubad si sedette «dopo molte riverenze», poi estrasse dal turbante la borsa intessuta con filo d’oro in cui era contenuta la lettera del sultano, e la presentò al doge. Julián López, segretario dell’ambasciata spagnola a Venezia, riferì al re che Kubad aveva spiegato di cosa si trattava «con voce tremante e borbottando», e «aveva mostrato dispiacere dell’ufficio che gli toccava fare». Il doge fece tradurre la lettera al dragomanno, e questo è ciò che si sentì dire:
Per la Grazia e il Favore Divino, io che sono al presente il sultano dei sultani dell’universo, il primo khagan del secolo, il distributore di corone ai sovrani del globo, sultano Selim khan, figlio di sultan Süleyman, figlio di sultan Selim.
Alla gloria dei principi illustri della Cristianità, l’arbitro dei nobili signori nella religione del Messia, il doge di Venezia, che il suo fine sia felice.
Di continuo, per vostre lettere mandate con vostri uomini alla mia Eccelsa Porta, avete manifestato amicizia. Nondimeno non siete voi contenti dei confini posti presso il sangiaccato di Scutari al tempo di sultan Mehmed et di sultan Bayezid nostri antecessori, né dei confini stabiliti presso il sangiaccato di Clissa al tempo di sultan Süleyman mio padre, tanto che in dispregio agli accordi di pace avete fabbricato castelli e casali nel mio territorio e nonostante le mie sollecitazioni non avete mai mandato risposta. Per di più i corsari cristiani attraccano all’isola di Cipro e là fanno acqua e vengono riforniti di vettovaglie, cosicché quest’estate hanno potuto assalire due vascelli di turchi, che sono stati affondati e, al bey che domandò ragione ai vostri uomini responsabili del fatto, fu risposto che non ne sapevano nulla. Ancora quest’autunno due galeotte di corsari cristiani erano andate a fare acqua a Cipro, e hanno catturato nel Canale di Rosetta un nostro legno, al che il bey li inseguì, riconquistò la nave e liberò i turchi, che, insieme con i Cristiani, confessarono di essere andati a rifornirsi di acqua a Cipro. E tale dichiarazione fu scritta nel registro dal cadì.
Ancora, essendo stabilito negli accordi di pace che quando i vostri vascelli si imbattessero in corsari turchi e si combattesse, di quelli che moriranno nello scontro non si debba domandare il sangue, mentre quelli che sopravviveranno debbano essere mandati alla mia Eccelsa Porta con le loro imbarcazioni e le loro cose per essere da me giudicati; voi invece non osservate questo capitolo e uccidete tutti i corsari, appropriandovi dei legni e dei beni. Di questo si è cercato di discutere col bailo, ma lui si appella alle vostre decisioni e così temporeggia, senza che giunga alcuna risposta e queste questioni possano trovare soluzione. Ancora a Venezia al padre di un mercante suddito ottomano cristiano è stato sequestrato un carico di ferro già imbarcato con la scusa che andava contro le leggi, e la mercanzia è andata persa. Il mercante Hacı Ali ha imbarcato a Cattaro, luogo vostro, stoffe di pelo di cammello e altre mercanzie, rassicurato contro ogni danno dal Rettore di detto luogo, ma presso Zara gli Uscocchi lo hanno derubato del tutto. Tutto questo è in contrasto con gli accordi di pace. Mentre noi li rispettiamo e trattiamo i vostri mercanti come si è reciprocamente stabilito, voi invece permettete che i nostri mercanti siano derubati, così come permettete che i vascelli dei corsari cristiani si riforniscano. Insomma finché l’isola di Cipro sarà soggetta a voi, le questioni non potranno mai quietarsi. Dunque se desiderate continuare a vivere in amicizia con Noi, dovete consegnarci prontamente l’isola di Cipro. Garantiamo che gli abitanti che vorranno continuare ad abitarvi saranno lasciati in pace con tutti i loro averi, mentre quelli che vorranno partire saranno lasciati andare; invece non vi sarà scampo per quelli che faranno resistenza.
Perciò confidando Noi nell’Eccelso Padrone delle vittorie, con il cui aiuto sono state fatte tutte le conquiste dalla Eccelsa mia Porta, così come nel beato Nostro Profeta che per speciale grazia e miracolo concederà al pacifico suo Impero la vittoria, è necessario che a primavera la vittoriosa mia armata salpi per Cipro e che io vada con onore e gloria per terra con tutto l’esercito; spero dunque che in questo principio dell’acquisto così stabilito dai Profeti e dall’Eccelso Dio mi sarà concesso il mio desiderio. Perciò conviene che subito giunto a Voi con la sublime mia lettera il magnifico e onorato Kubad, messaggero della mia Felice Porta, volendo voi per l’avvenire conservare l’amicizia Nostra, spontaneamente ci consegnerete la detta isola con il patto che, come ho detto prima, chi vorrà o restare o partire lo possa fare, e resa salda la Nostra Pace, i confini restino come sono stati stabiliti anticamente, senza che nasca contrarietà ai Nostri Accordi. Se invece rifiuterete, ho deliberato senz’altro di fare salpare la mia Vittoriosa Armata e dall’altra parte la mia Imperiale Maestà andrà per terra; così spero nella Maestà di Dio, che andando si manifesterà esser vero quanto ho scritto, così che a tempo siate preparati e della risoluzione che farete mi darete subito avviso col presente nostro messaggero.
Dato all’inizio della luna del Benedetto Ramadan nell’anno 977, presso Costantinopoli la Protetta.
Dopo che questa lettera venne tradotta, Kubad ne presentò un’altra, firmata da Mehmet pascià. Conteneva gli stessi riferimenti alle violazioni dei capitoli di pace da parte dei veneziani, ma anche un insistito richiamo all’amicizia che il gran visir aveva sempre cercato di mantenere fra i due paesi, e un’esortazione a cedere alle richieste del sultano, anziché affidarsi alla guerra. «Et se voi confidate nella quantità del vostro tesoro, et delli vostri vicini, vi dico che quanto tesoro haverite acquistato in vita vostra se ne andrà come l’acqua del torrente; et si sa l’agiuto che potrete havere dalli amici acquistati con denari», concludeva Mehmet, con un ammonimento che si sarebbe dimostrato profetico soltanto per metà30.
Presentate le sue lettere, Kubad credeva che si sarebbe aperto un negoziato. In caso di rifiuto, aveva ordine di proporre un accordo segreto che avrebbe permesso alla Repubblica di salvare la faccia: il sultano avrebbe comunque mandato la flotta in vista di Cipro, e solo a quel punto i veneziani avrebbero ceduto l’isola31. I turchi, evidentemente, erano persuasi che a Venezia la guerra non conveniva in nessun modo, e che solo per puntiglio gli infedeli avrebbero potuto rifiutare l’ultimatum. Ma la Signoria non aveva voluto concedersi spazio per ripensamenti: ormai le cose erano andate troppo in là. A Kubad venne letta una risposta già pronta, in cui con tono molto secco e altezzoso ci si stupiva che il sultano avesse potuto infrangere a quel modo la sua parola, e lo si avvertiva che Venezia avrebbe saputo difendere i suoi diritti. Kubad capì che non gli restava se non congedarsi; chiese di essere fatto uscire da una porta segreta del palazzo e ricondotto di nascosto alla galera, per non dover affrontare di nuovo la folla, ma gli dissero che poteva tornarsene per la stessa strada da cui era venuto. Gli toccò ripassare in mezzo agli insulti della folla fino alla gondola che lo riportò alla galera; e il giorno seguente, mercoledì 29 marzo, salpò per Costantinopoli.
I veneziani avevano almeno un mese di tempo prima che la notizia dell’accoglienza riservata al suo inviato giungesse fino al sultano: tutto stava nel farne buon uso. Astorre Baglioni, governatore militare di Cipro, era stato informato dal Barbaro che un ciaus era in viaggio per Venezia; fra i capitani italiani in servizio sull’isola circolava addirittura una versione dell’ultimatum mandato dal sultano, che riprendeva quasi alla lettera una delle espressioni usate dal gran visir («e non vi confidate nel vostro tesoro, che ve lo faremo correre come un torrente»). Non c’era bisogno di attendere istruzioni da Venezia per sapere che Cipro era in pericolo; e il Baglioni si mise immediatamente al lavoro per rafforzare le fortificazioni di Nicosia, Famagosta e Cerines, i tre principali centri dell’isola. Si spinse, anzi, anche oltre: per suo ordine i sopracomiti Niccolò Donà e Francesco Tron, le cui galere erano basate a Famagosta, fecero un’incursione nel porto siriano di Tripoli, catturando una nave carica di sapone, olio e uva passa, e ripartirono indisturbati dopo aver cannoneggiato i magazzini del porto. Era una provocazione che in un altro momento avrebbe potuto avere conseguenze gravi, ma i fatti diedero ragione al Baglioni: il 4 maggio, in seguito alle notizie giunte da Venezia, «fu sfidata la guerra per tutti i lochi dell’isola tra il Gran Turco et la Signoria di Venetia»32.