8. Dove papa Pio V sogna un’alleanza, un uomotroppo ottimista va a sondare Filippo II,si discutono pregi e difetti della flottaspagnola, Gian Andrea Doria riceve un ordineambiguo, e a Roma ci si culla nelle illusioni

Non appena in Occidente si sparse la voce della prossima uscita della flotta turca, papa Pio V decise che quella era l’occasione buona per realizzare un progetto che sognava da tempo: l’unione delle potenze cristiane per affrontare gli infedeli in mare con forze schiaccianti, e mettere fine una volta per tutte alla minaccia che gravava sulla Cristianità. Quando divenne sempre più evidente che la tempesta era destinata a scaricarsi su Cipro, il vecchio inquisitore lombardo divenuto pontefice, persecutore accanito di ebrei ed eretici, volle affrettare i tempi, persuaso com’era che i veneziani, nonostante i loro ostentati preparativi bellici, avrebbero finito per cedere al sultano se fossero stati lasciati soli. Già intorno alla metà di febbraio 1570 il nunzio Facchinetti accennò al doge l’opportunità di stringere una Lega con gli altri principi cristiani; ma in quei giorni i veneziani si stavano di nuovo illudendo che l’obiettivo dell’armata fossero i possedimenti del Re Cattolico, e reagirono freddamente, non avendo nessuna voglia di essere costretti a rompere la pace col sultano per correre in soccorso di Filippo II. Ma già pochi giorni dopo le illusioni erano cadute, e quando il papa ne riparlò all’ambasciatore veneziano Michele Suriano, quest’ultimo il giorno stesso comunicò la proposta a Venezia; il Collegio fece sapere di essere interessato e che si rimetteva alla mediazione del pontefice, e lo fece con tanta fretta che la risposta giunse a Roma il 4 marzo, in meno di una settimana1.

Per capire quanto fosse eccezionale questa disponibilità, bisogna ricordare che fino ad allora spagnoli e veneziani s’erano trattati poco meno che da nemici, specialmente in mare. Non erano passati molti anni da quando dei soldati del Re Cattolico, catturati su un legno che aveva osato darsi alla pirateria nell’Adriatico, erano stati impiccati sull’isola di Lesina; molti altri prigionieri erano stati incatenati al remo sulle galere della Repubblica, e gli ufficiali, quando passavano al largo di Lesina, li chiamavano sarcasticamente e indicavano le forche, dicendo che quella doveva essere la fine di tutti i “ponentini” che osavano entrare nelle acque veneziane. Ma in quella primavera del 1570 Venezia, nel pieno degli affannosi e costosissimi provvedimenti per armare la flotta e spedire truppe in Levante, abbracciò senza esitazioni la proposta di un’alleanza. Il papa, che da tempo incoraggiava i veneziani a riavvicinarsi al re Filippo per far fronte comune contro gli infedeli, confessò che non li aveva mai trovati così entusiasti: il cardinal Mula, veneziano, vantava in Concistoro i vantaggi della Lega, «e com’era facile con essa disfare in poco tempo il potere del Turco»2.

Tanto entusiasmo nascondeva però una riserva: a Venezia si sperava che i turchi, sapendo di dover affrontare oltre alle galere della Repubblica anche quelle del re di Spagna, avrebbero potuto rinunciare alle loro pretese. L’ambasciatore Sigismondo di Cavalli ebbe ordine di spiegare al re che la flotta del sultano sarebbe uscita «molto per tempo, et molto potente»; che le voci la dicevano diretta a Cipro, ma poteva anche darsi che intendesse invece soccorrere i moriscos; che tutti i principi cristiani dovevano stare ben attenti a non permettere che quella flotta, la più numerosa mai uscita da Costantinopoli, si sentisse «libera padrona del mare, senza sospetto delle forze d’altri»; perciò tutti dovevano fare la loro parte, e come i veneziani stavano allestendo «la maggior armata che habbiamo fatto in altro tempo», così doveva fare il Re Cattolico. Il Senato si spingeva fino a suggerire al Cavalli le precise parole che doveva sussurrare all’orecchio del re: e cioè che le flotte cristiane, «stando vicine l’una all’altra, è cosa credibile che siano per tener la turchesca in gelosia» e disturbare i suoi disegni. Si trattava insomma di vincere una guerra psicologica, per non essere costretti a fare quella vera: non per nulla il segretario Buonrizzo, arrivando a Ragusa insieme a Kubad, e trovando lì i primi avvisi delle trattative in corso, fece tutto il possibile per impressionare il ciaus, magnificando la flotta che le potenze alleate avrebbero messo in mare3.

A loro volta, gli spagnoli continuavano ad essere preoccupati per La Goletta e per Malta, ed erano interessati a un accordo che permettesse loro di avvalersi della flotta di Venezia. L’ambasciatore a Roma, don Juan de Zúñiga, ammise che non ci si poteva fidare troppo dei veneziani, i quali adesso avevano paura per Cipro, ma se poi il nemico avesse attaccato Malta «farebbero quello che gli pare»; ma in realtà tanto lui quanto il cardinale di Granvelle, vecchio consigliere di Filippo II, guardavano al progetto con grande favore. Se il sultano avesse veramente preteso Cipro, continuava lo Zúñiga contagiato dall’ottimismo generale, la Repubblica seppur controvoglia avrebbe dovuto dichiarargli guerra «e procurare la sua rovina, che si potrebbe sperare in pochi giorni, unite le forze di Vostra Maestà con quelle dei veneziani». Naturalmente i rappresentanti spagnoli si guardarono bene dal far sapere in giro la loro opinione, in modo che il re fosse libero di far pagare caro l’eventuale consenso. Filippo II, meno facile all’entusiasmo, osservò che l’alleanza conveniva soprattutto alla Repubblica, ma che comunque era interessato a discuterne4.

Appena ricevuta la risposta veneziana, Pio V scrisse al re una magnifica lettera latina per esortarlo ad aderire alla Lega, poi decise di mandargli un inviato straordinario per spiegare tutta l’urgenza della situazione. Don Luis de Torres, alto funzionario della Camera Apostolica, venne scelto per la missione in segno di cortesia, in quanto spagnolo, anche se la corte di Madrid non apprezzò, «tenendolo de razza non molto antica» e insomma non abbastanza nobile, come osservò malignamente l’ambasciatore toscano. Il Torres partì da Roma in gran fretta il 16 marzo; il tenore delle istruzioni che aveva ricevuto da Pio V in persona è indicativo dell’attenzione con cui il papa seguiva la situazione strategica, e dell’urgenza che il problema militare rivestiva in quel momento ai suoi occhi, tanto da avere la precedenza sul dettaglio diplomatico. Don Luis doveva innanzitutto convincere il re a «inviare le sue galere verso Sicilia in quel più numero che si può»; per rafforzare la richiesta, l’inviato doveva ricordare al re che per concessione papale il clero spagnolo gli pagava un’imposta, il cui scopo almeno in teoria era di tenere in mare 60 galere in servizio della Cristianità. In secondo luogo, il Torres doveva persuadere Filippo a negoziare un trattato di alleanza con Venezia; e finalmente, a concedere l’esportazione di grano dal Mezzogiorno per nutrire la flotta veneziana. Ulteriori e più delicate istruzioni vennero trasmesse soltanto a voce: il papa raccomandò a don Luis di assicurare al re «che si poteva fidar di lui, che in ogni cosa inclinaria a favor suo, tenendo così poco obligo a Venetiani», per cui Filippo non doveva temere di restare incastrato in un trattato troppo favorevole alla Repubblica5.

Per almeno un paio di mesi dopo la partenza dell’inviato, in Italia dominò l’ottimismo: l’unione delle due flotte pareva cosa fatta e la punizione del Turco inevitabile. «Io penso che per il servizio di Vostra Maestà conviene mandare in Sicilia tutte le galere che si potessero riunire», scriveva lo Zúñiga, completamente guadagnato al progetto; «a tutti quanti i servitori che Vostra Maestà tiene qui a Roma pare che convenga al Suo servizio fare questa unione, perché nessuno guadagnerebbe più di Vostra Maestà dal danno che si potrebbe fare al Turco, che non sarebbe piccolo». Il papa assicurava a Filippo che «se Vostra Maestà vuol soccorrere i veneziani, la Cristianità ha da avere una grandissima vittoria sul Turco»; in perfetta sintonia il nunzio in Spagna, monsignor Castagna, si rallegrava coll’Alessandrino: «potrebbe essere che si dasse tal rotta all’armata del Turco che ne seguisse la quiete per molti anni». A Venezia si sognava di riunire nella Lega anche l’imperatore, il re di Polonia, «et il Moscovito, et forsi anco il persiano», e si stampavano orazioni e profezie sulla «futura et sperata vittoria contro il Turco»6.

Ben istruito dell’importanza del problema militare, il Torres durante il suo viaggio approfittò di una sosta a Genova per fare il conto dettagliato di tutte le galere di cui il re disponeva in Italia. Il duca di Savoia, suo fedele alleato, ne aveva 2, altre 3 la Repubblica di Genova, una delle quali doveva portare a Madrid il Torres; con quelle degli armatori genovesi, che lì, diversamente da Venezia, erano molto più numerose di quelle statali, dal porto di Genova potevano uscire 23 galere. Il re ne aveva 15 a Napoli e 10 in Sicilia; aggiungendo le quattro dei cavalieri di Malta, le otto del granduca di Toscana, «e tornata questa nostra [...] verrebbero a far la somma di sessanta galere». Qualche giorno dopo, arrivato a Barcellona, il Torres aggiornò il conto a beneficio del cardinale Alessandrino: «ho trovato tre galere de’ Lomellini, che passano in Italia [...]. Farà lor compagnia questa, in che son venuto io, e faranno cinque con la Capitana di Savoia, che fanno più numero di quello di cui scrissi a Vostra Signoria Illustrissima da Genova». In Spagna, proseguiva, ce n’erano venticinque armate, e circa trenta si trovavano smontate nell’Arsenale di Barcellona, «sebben di queste se ne può far poco disegno per quest’anno»7.

Il 21 aprile, a Cordova, monsignor Torres ebbe il suo primo incontro col re, che era in viaggio per Siviglia. Dato il modo in cui aveva inteso la sua missione, non stupisce che l’inviato abbia insistito soprattutto sull’urgenza dell’intervento militare, presentando a Filippo un quadro circostanziato della situazione strategica: il papa lo pregava di «mandar quanto prima la sua armata in Sicilia, in quel maggior numero di galere disponibile, ordinando il medesimo ai suoi confederati, perché i Veneziani terranno la sua di cento quaranta galere e dodici galeazzi, senza li navigli grossi, in Corfù». Il Re Cattolico, che notoriamente non amava decidere in fretta, replicò che la cosa era seria e che ci avrebbe pensato; ma don Luis si permise di insistere, recitandogli l’elenco completo delle galere di cui lui, Filippo, poteva comodamente disporre per la bisogna. Il re dovette rimanere alquanto scosso, e quando riuscì a liberarsi del Torres mise in movimento i suoi segretari per verificare l’elenco; ma la corte era in viaggio, le carte erano rimaste indietro, e di lì a poco il Torres ebbe la sorpresa d’essere visitato dal più potente e temuto di quei segretari, Antonio Pérez, venuto «a saper da me il numero delle galere, che io avevo detto a Sua Maestà, perché non lo trovavano»8.

Sigismondo di Cavalli era anch’egli molto interessato al colloquio del Torres col re, e ne informò minutamente il suo governo: da quel che aveva saputo, Filippo voleva riflettere bene sulla Lega e sull’invio delle galere in Sicilia, ma quanto al grano aveva già promesso di concederne il più possibile. Nei giorni seguenti il Torres continuò a far propaganda per guadagnare i grandi della corte di Spagna al progetto del papa: a pranzo col cardinale Espinosa, arrivò a dire che coll’alleanza fra il re e la Repubblica «si metteranno insieme più di duecentocinquanta galere, al qual numero, si sa, il Turco non può arrivare». Contrariamente al suo solito, il rey prudente non lo fece attendere a lungo, e il 24 aprile un Torres esultante poté informare Roma d’aver appreso, proprio per bocca del cardinale Espinosa, che la più importante delle sue richieste era stata accettata: il re era disposto a concentrare le sue galere a Messina, per unirsi alla flotta veneziana, e avrebbe dato ordine al loro comandante, Gian Andrea Doria, «che in tutto e per tutto obedisca i commandamenti et gli ordini di Nostro Signore», cioè del papa9.

Benché considerevole, la potenza navale del Re Cattolico era di gran lunga inferiore a quella veneziana o turca. Due anni prima, nominando capitano generale del mare il suo giovanissimo fratellastro don Juan de Austria, Filippo II aveva annunciato di voler accrescere il numero delle sue galere fino ad averne in mare almeno cento, ma il progetto era ancora lontano dall’essere realizzato. È vero che alle risorse della Spagna si univano quelle dei regni di Napoli e di Sicilia, oltre che dell’alleata Genova e dei suoi ricchi armatori; ma anche le zone di operazione in cui le galere del re dovevano far sentire la loro presenza, per proteggere le popolazioni costiere dai pirati barbareschi, erano molte e lontane l’una dall’altra, il che rendeva tutt’altro che facile unificare le diverse squadre, separate anche dal punto di vista amministrativo, in un’unica grande flotta10.

La squadra di Spagna contava allora 26 galere, al comando di don Sancho de Leyva. La loro base di operazioni era Cartagena, nell’Andalusia esposta alle incursioni musulmane, ma l’arsenale era a Barcellona. Il re aveva tentato più volte di farne un impianto di prim’ordine, facendo venire maestranze specializzate da Venezia e da Genova, e vi aveva costituito una riserva di ben trenta scafi. Ma i veneziani che avevano avuto occasione di vederlo ne parlavano con la solita sufficienza: era un «arsenalotto [...] mal provveduto, non avendo né artiglieria, né sartiami fatti, né deposito di legnami»; contava in tutto ventiquattro capannoni, «benissimo fabbricati», è vero, ma le galere costruite lì «non sono di bel sesto né molto ben tenute», anzi sono «le peggio tenute» di tutta la flotta del re. Il Torres non le aveva neppure calcolate, perché, con la rivolta dei moriscos non ancora domata e la perdurante minaccia dei corsari, non era affatto ovvio che il re potesse privarsene per mandarle verso Levante. Già prima di arrivare a Cordova, però, l’inviato del papa aveva escogitato un piano mirabolante, per cui il re avrebbe potuto mandarle se il re di Portogallo, sacrificandosi per la causa comune, gli avesse prestato le sue11.

Seconda per importanza era la squadra di Napoli, comandata da uno dei più esperti uomini di mare spagnoli, don Álvaro de Bazán marchese di Santa Cruz; ed è anche quella che era cresciuta più in fretta, perché dopo che Pialì pascià l’aveva sbaragliata a Gerba nel 1560 era stato approvato un ambizioso piano di ampliamento. Nell’estate del 1570 il marchese era in grado di mettere in mare 21 galere, e nell’arsenale napoletano si continuava a lavorare a pieno ritmo, perché l’ordine perentorio del re era di «costruire più galere». Alla squadra napoletana erano aggregate anche 3 galere appartenenti ad armatori genovesi con forti interessi a Napoli, Stefano de Mari e Bendinello Sauli. La Sicilia, che costituiva un regno a sé stante con un proprio viceré e un bilancio separato, manteneva una squadra più modesta, agli ordini di don Juan de Cardona, con base e arsenale a Messina: 10 galere in tutto, di cui 6 costruite sul posto, e 4 degli armatori genovesi Davide Imperiale e Niccolò Doria12.

Per portare la sua flotta mediterranea al livello d’una vera grande potenza Filippo II doveva utilizzare le risorse dell’altro porto italiano, da sempre rivale di Venezia. Fin dal tempo di Carlo V e Andrea Doria Genova si era alleata così strettamente ai Re Cattolici che pur conservando la sua indipendenza repubblicana costituiva a tutti gli effetti uno snodo cruciale dell’impero spagnolo, cui forniva tra l’altro gran parte del credito. A differenza di Venezia, la Repubblica genovese non manteneva una flotta: nel 1570, come abbiamo visto, armava appena 3 galere, una delle quali condusse don Luis de Torres a Barcellona. Pio V, ansioso di contribuire all’uscita in mare della grande flotta che doveva assestare un colpo mortale ai turchi, contattò il governo genovese proponendo di armare 12 galere a sue spese, ma l’ambasciatore spagnolo a Genova dubitava che ci si riuscisse:

Ad alcuni pare che avrebbero difficoltà ad armare questo numero. Ora ne hanno tre armate e su di esse ciurma per quattro galere, nell’arsenale ci sono sei scafi, quattro con gli armeggi e che si potrebbero mettere in ordine per entrare in acqua in quindici giorni, e gli altri due in un mese. Non mi risulta che abbiano abbastanza artiglieria per tutte se non la toglieranno dai forti.

Alla fine non se ne fece niente; del resto l’arsenale genovese negli ultimi tempi aveva lavorato soprattutto per la committenza spagnola, e solo l’anno prima aveva consegnato cinque galere per la squadra di Napoli, sicché si trovava piuttosto sfornito13.

La vera forza navale di Genova era in mano agli armatori privati. Abbiamo già visto che 7 delle loro galere erano aggregate alle squadre del Santa Cruz e del Cardona, ma una squadra molto più numerosa, basata a Genova, era a disposizione del re. Al comando c’era il nipote del grande Andrea Doria, Gian Andrea, familiarmente noto come “Andreetta” ai marinai di mezzo Mediterraneo: figura controversa, su cui ritorneremo ancora a lungo, ma comunque senza discussione l’uomo più ricco e potente della Repubblica, padrone di 11 galere. Altre 4 appartenevano ai suoi parenti, i Centurioni, e ai loro soci, i Negroni, quattro ai Lomellini e due ai Grimaldi: in tutto 21 galere, a disposizione del re in base a un dettagliato contratto di noleggio, l’asiento.

Mentre le galere delle tre squadre reali appartenevano al re, e toccava ai suoi ministri armarle e rifornirle di tutto il necessario, in questo caso i vascelli erano di proprietà degli armatori genovesi, che li mettevano a disposizione del re14. L’asientista forniva le galere armate di tutto punto, compresi i rematori «et gente da cavo a sufficienza» (dove la “gente da cavo”, nel gergo delle flotte d’allora, erano i marinai addetti a maneggiare le corde delle vele); il re faceva da garante con i banchieri che anticipavano al proprietario il denaro occorrente per armare la galera, e pagava per ognuna 6000 ducati all’anno («benché nel riscuoter si duri molta fatica»). Come ogni grosso affare tra lo Stato e un privato, l’asiento delle galere rappresentava un rischio per l’imprenditore, che oltretutto metteva a repentaglio sui mari il suo capitale; ma nelle pieghe dei contratti, degli anticipi e delle forniture, nella libertà di navigare protetti dalla bandiera del re e con amplissimi privilegi commerciali, gli uomini d’affari genovesi trovavano comunque i loro profitti. È pur vero che il Doria, scadendo il suo contratto triennale alla fine del 1570, si lamentò d’essere in passivo e per un po’ accarezzò l’idea di vendere al re tutte le sue galere; ma Gian Andrea era un depresso, continuamente incline a preoccuparsi per le difficoltà economiche e i problemi familiari, oltre che per la difficoltà di servire un padrone così imperscrutabile15.

La debolezza degli impianti industriali era certamente una ragione per cui la flotta del Re Cattolico rimaneva di dimensioni così modeste, nonostante da un decennio si fosse proclamata l’intenzione politica di ampliarla. L’arsenale di Napoli era la metà di quello, già insufficiente, di Barcellona: appena 12 arcate, in parte occupate dai materiali, per cui da tempo si parlava di mettere mano al suo ampliamento. Quello di Messina, edificato da poco, era stato previsto per la costruzione di 12 galere in contemporanea, ma di fatto «per la trascuraggine de ministri è piutosto rovinato che in alcuna parte cresciuto, né in esso si fabricano galere che alcuna volta una o due, ma anco queste di raro». L’arsenale di Genova contava arcate per non più di quindici scafi, non aveva manodopera permanente e nei momenti di piena attività dava lavoro al massimo a cento o duecento operai. L’arsenale di Barcellona era più imponente, ma quando giunse l’ordine di mettere in mare alcuni scafi si scoprì che mancavano le alberature, sicché bisognò mandar denaro in Provenza per comprarle; quanto ai remi, bisognava farli venire da Napoli. All’insufficienza degli impianti corrispondeva la scarsità di manodopera qualificata: a Genova le corporazioni dei maestri d’ascia e dei calafati contavano poche decine di membri ciascuna, anche se molti altri erano dispersi negli scali della Riviera, dov’era decentrata parte dell’attività di costruzione; quanto al re Filippo, come osservò dopo Lepanto un inviato veneziano, «di maestranza et d’arsenali non ha molta commodità; onde quando si trattasse di far molto maggior numero d’armata, o quando si perdesse questa, che Dio guardi, di riffarne un’altra darebbe a mio giudicio grandissima fatica»16.

Altro punto debole era un sistema di fabbricazione che almeno nel regno di Napoli consentiva agli appaltatori troppo facili profitti. Una volta stanziati i fondi per costruire una galera, infatti, i funzionari incaricati dal tesoriere erano liberi di concludere contratti privati per l’acquisto dei materiali, con i risultati che si possono immaginare: secondo il Bazán le galere costruite a Napoli duravano non più di sette-otto anni, secondo altri appena sei, mentre quelle costruite in Spagna, a Genova e anche in Sicilia avevano una vita media di dieci. Peraltro, se a Napoli si costruiva male, a Messina era impossibile conservare: un desolante rapporto dell’ottobre 1568 riferiva che la galera Real, trasferita lì dopo essere stata fabbricata a Barcellona e «la quale mi dicono che costò gran somma [...] per la molta bruma che c’è in quel porto non si può difendere dai vermi, benché già due volte con fuoco e bitume abbiano cercato di ripararla», tanto che ormai si giudicava più conveniente demolirla per recuperare almeno il legname e le ferramenta17.

Ma c’era anche una strozzatura oggettiva che limitava l’espansione delle squadre spagnole, ed era la mancanza di legname. In un mondo mediterraneo dove gli effetti della deforestazione cominciavano già a farsi sentire, i regni di Filippo II erano sfavoriti rispetto a Venezia – che poteva ancora contare sulle grandi foreste dell’Istria e del Cadore, riservate per legge all’uso dell’Arsenale – e al sultano, che disponeva di legname in abbondanza sulle coste del Mar Nero. I boschi della Calabria erano l’unica fonte di legname non ancora esaurita nell’impero spagnolo, il che spiega perché il governo del rey prudente abbia deciso di concentrare a Napoli e a Messina gli investimenti per l’ampliamento della flotta. Non si risparmiarono gli sforzi perché quella risorsa troppo scarsa fosse interamente riservata alle costruzioni navali: già a inizio Cinquecento ordinanze vietavano ai privati il taglio degli alberi d’alto fusto nella Sila, e nel 1569 il viceré proibì del tutto l’esportazione di legname da costruzione. Ma anche così, i 180 carri di legname necessari per costruire una sola galera, che le comunità erano tenute a trasportare a loro spese fino al cantiere, limitavano drasticamente le potenzialità degli arsenali meridionali18.

Costruite in quattro arsenali diversi e amministrate secondo due modalità alternative, le galere del Re Cattolico erano accomunate da diverse caratteristiche tecniche che le distinguevano dalle veneziane. Al pari di quelle turche, pescavano di più ed erano più alte a prua e a poppa: una differenza che qualcuno considerava un difetto, perché così offrivano un maggior bersaglio all’artiglieria nemica, ma che le rendeva più stabili in navigazione, anche se meno eleganti. Le loro vele, fabbricate in tela, erano più pratiche di quelle veneziane fatte di fustagno, che si imbevevano d’acqua con la pioggia o il mare grosso, appesantendosi e squilibrando pericolosamente la galera. Dotate di un trinchetto più alto e di una velatura più abbondante, le galere del Re Cattolico, al pari delle altre “ponentine” dei cavalieri di Malta, del duca di Savoia o del granduca di Toscana, non potevano forse competere con le veneziane per la velocità massima sotto sforzo, ma complessivamente tenevano meglio il mare nei lunghi trasferimenti in cui si risparmiavano le ciurme navigando a vela. Gli stessi marinai della Serenissima proposero più volte di imitare questo o quell’accorgimento dei concorrenti ponentini, e anche se le autorità vi si opposero sempre, sembra lecito concludere che le galere ponentine nel complesso erano leggermente superiori; del resto non è un caso che i turchi, nel fabbricare le proprie, si ispirassero al loro modello anziché a quello veneziano19.

Ad accomunare le galere del Re Cattolico era anche il reclutamento degli ufficiali. Il capitano era di solito un gentiluomo, suddito del re, e in realtà quasi sempre uno spagnolo, anche sulle galere di Napoli e di Sicilia; solo quelle genovesi erano comandate da patrizi locali, fra cui in genere l’armatore in persona che salpava sulla propria Capitana, affidando gli altri comandi a parenti e uomini di fiducia. Ma l’ufficiale che gestiva davvero la manovra, il comito, era quasi sempre ligure, non solo sulle galere armate a Genova, ma anche su quelle spagnole, napoletane e siciliane; i liguri dominavano egualmente su quelle savoiarde, armate a Villafranca di Nizza, e perfino sulle toscane armate a Pisa. Gli uomini di mare esperti erano merce rara, «e per questo bisogna fare molta attenzione a pagarli e trattarli bene», avvertiva re Filippo, «perché questo è un genere di gente e di ufficiali di cui c’è molta mancanza»; e si capisce che i genovesi con la loro esperienza accumulata da secoli fossero indispensabili. L’origine locale diventava prevalente soltanto scendendo nella gerarchia, fra i cinquanta ufficiali e marinai previsti dagli asientos20.

Ma la caratteristica principale che accomunava le galere ponentine, contrapponendole alle levantine, era il reclutamento delle ciurme. Nei regni del Re Cattolico come negli Stati italiani, all’infuori di Venezia, non esisteva per i sudditi l’obbligo di servire in galera, e c’era anzi l’opinione che quest’uso, non per nulla praticato dai turchi e dagli infidi veneziani, fosse sostanzialmente immorale. «Nei regni di Sua Maestà non si costuma di sforzar nessuno per farlo servire in galera, come hanno usato nel lor Dominio di fare cotesti signori», scriveva seccamente il cardinal Bonelli al nunzio Facchinetti, in risposta alle insistenze veneziane perché il re affrettasse l’armamento delle sue galere. Pio V, che nell’estate del 1570 si lasciò convincere a proclamare la coscrizione nello Stato pontificio per poter armare anche lui qualche galera, più tardi se ne pentì, «e disse che neanche a lui pareva che si dovesse forzare la gente per questo, e ancora adesso gli dispiaceva quello che si era fatto l’anno passato per armare le sue galere»21.

Il problema non era soltanto morale, anche se è incoraggiante constatare che le massime autorità del mondo cattolico se lo ponevano in questi termini; era anche un problema di diritti che non si potevano violare, in regni come quelli del Re Cattolico che erano ancora ben lontani dal trasformarsi in una monarchia assoluta. «Se ben si volesse introdur questa usanza saria difficilissimo», spiegava al doge un inviato veneziano, perché i sudditi del re, in Spagna come a Napoli e in Sicilia, non potevano essere gravati di nessuna imposizione straordinaria in virtù dei loro privilegi, «li quali sono inviolabilmente osservati da Sua Maestà». Anche più tardi, nell’affannoso inverno 1570-71, quando pareva che nessuno sforzo fosse bastante per arrestare l’avanzata turca e i ministri del re in Italia cercavano disperatamente uomini per reintegrare le ciurme, il motivo dominante nei carteggi è sempre lo stesso: non si può obbligare la gente, «perché forzare i sudditi e farli venire contro la loro volontà, nella situazione in cui si trova il regno di Napoli, non converrebbe né Sua Maestà lo farebbe»22.

Reclutare dei volontari, dei “buonavoglia”, come si diceva in tutto il Ponente, era quasi altrettanto difficile. Secondo i veneziani non c’era da stupirsene: sulle galere del Re Cattolico i galeotti erano trattati male, la mortalità a bordo altissima, e non c’era nemmeno l’uso di offrire premi di arruolamento. Ma altri ribattevano che nessun incentivo economico bastava per convincere gli uomini a “vendersi” spontaneamente in galera, a meno che non si trattasse di rifiuti della società, e perciò i sovrani avevano il diritto di ricorrere ad altri metodi per reclutare le loro ciurme, a costo di farsi criticare «da quelli che [...] hanno il gusto delicato». Nell’Italia meridionale era invalso un sistema tutt’altro che pulito, che consisteva nell’indurre i miserabili a giocarsi ai dadi l’alternativa fra un guadagno e la galera. Commissari appositamente deputati «mettono banco in diversi luochi pubblici, con danari carte e dadi, quivi concorrono diversi sviati et vagabondi, che non mancano»; a ciascuno si davano 12 ducati, pari a tre mensilità, «et li nomi loro si scrivono», dopodiché i giocatori si affrontavano a coppie. Il perdente doveva dare i suoi 12 ducati al vincitore, e a questo punto, avendo ricevuto il denaro del re e non essendo in grado di restituirlo, era costretto a imbarcarsi e remare gratuitamente fino all’esaurimento del debito, mentre il vincitore, ritrovandosi a questo punto in mano 24 ducati, «restituisce li 12 et se ne va con gli altri 12 guadagnati per li fatti suoi, onde si può dir che l’huomo giochi se medesimo alla galera»23.

I buonavoglia reclutati in questo modo erano considerati tutt’altro che affidabili, tant’è che venivano tenuti alla catena, cosa che sarebbe stata impensabile a Venezia. In una città marittima come Genova, col peggiorare della congiuntura e il diffondersi della miseria, si trovavano nonostante tutto dei poveracci disposti a mettersi al remo; anche se è significativo che gli armatori li considerassero un capitale prezioso, ricorrendo a ogni mezzo, compreso l’imbroglio, per costringerli a indebitarsi e restare in galera a tempo indefinito24. Ma nei paesi del Re Cattolico, dove c’era meno familiarità col mare, i volontari non erano abbastanza numerosi per armare la flotta. I veneziani non volevano capire questi problemi, e continuavano a offrire di fornire galere già pronte se il re avesse provveduto le ciurme; i ministri spagnoli si trovarono più volte a ragionare con loro su come incentivare l’arruolamento volontario. «Era da molto tempo» – ammisero – «che si trattava per istituire nei regni di Sua Maestà questa maniera di armare di buonavoglia», ma fino a quel momento la soluzione non si era trovata. In verità le statistiche ci dicono che negli anni di Lepanto i volontari, sulle galere armate nel Mezzogiorno, erano presenti in discreto numero, ma senza comunque arrivare neppure a metà del fabbisogno25.

Per armare le proprie galere, il Re Cattolico era dunque costretto a ricorrere ai forzati, in misura assai più ampia di quanto non facessero turchi e veneziani. La pena della galera era comminata con grande liberalità in tutti gli Stati cristiani dell’epoca, compresi quelli che non possedevano una flotta, perché la richiesta di forzati sul mercato era costante e un sovrano poteva tranquillamente vendere i propri ad un altro. Nei regni di Filippo II si potevano prendere cinque anni di galera anche soltanto per vagabondaggio; il re aveva abbassato da venti a diciassette anni l’età minima per la condanna al remo, e la magistratura subiva forti pressioni perché dai tribunali uscisse un rifornimento di galeotti adeguato ai bisogni della flotta. Il viceré di Napoli, duca di Alcalá, chiese ai giudici di aumentare il più possibile le condanne alla galera, e il comandante della squadra di Sicilia, don Juan de Cardona, propose seriamente di abolire l’uso dei tratti di corda in sede di inchiesta, che rischiavano di storpiare i condannati rendendoli inadatti al remo26.

I convogli di forzati avviati ai porti erano parte del paesaggio nella Spagna e nell’Italia dell’epoca, tanto che Cervantes ne fa incontrare uno a Don Chisciotte: «dodici uomini infilati come conterie, per il collo, a una gran catena di ferro, e tutti quanti con le manette ai polsi», scortati da quattro archibugieri. «Sancio Panza, come li vide, disse: ‘Quella è la catena dei galeotti, forzati del Re, che vanno a servire alle galere’». L’interrogatorio dei poveracci da parte d’uno stralunato Don Chisciotte porta alla luce una varietà di storie personali, dal ladro che per aver rubato una cesta di biancheria ha preso cento frustate «e per giunta tre esatti di gurapa, e festa finita» (dove il gurapa è il galeotto nel gergo della malavita), al ladro di bestiame che di anni ne ha presi sei; dallo studente che sa il latino e accetta con filosofia i suoi sei anni per immoralità commesse con quattro donne diverse al brigante recidivo che «ci va per dieci anni, che è come una morte civile», ma dichiara spavaldamente di infischiarsene («Per servire Dio e il re, vi ho già passati quattro anni l’altra volta e so cosa significa la galletta e la sferza»). Un campionario che riflette abbastanza fedelmente i dati offerti dalle statistiche, per cui i condannati alle galere provenivano in misura sproporzionata dal mondo urbano (il 37%, contro il 13% della popolazione complessiva), ed erano condannati in maggioranza per furto o rapina. I contratti d’asiento prevedevano che il re fornisse agli armatori, al debito prezzo, forzati provenienti dai suoi regni, e le galere genovesi si recavano a imbarcarli a Napoli direttamente alle carceri della Vicaria; ma dovevano essere, si precisava, forzati «di buona condanna», abbastanza lunga, cioè, da permettere loro di avvezzarsi al mestiere27.

C’era ancora un’ultima risorsa per armare i vascelli del re: ed erano gli schiavi, costosi, ma quasi sempre indispensabili per completare le ciurme. La Chiesa non aveva mai abolito la schiavitù, ma proibiva di ridurre in quello stato dei cristiani, sicché gli schiavi a bordo delle galere erano tutti musulmani o ebrei, o per lo meno sudditi del sultano; che è il motivo per cui Venezia, essendo in pace col Gran Signore dal 1540 e non avendo nessuna intenzione di provocarlo, non poteva impiegarne sui propri legni. Il Re Cattolico, che col Turco si considerava in guerra permanente, li utilizzava invece senza risparmio, anche se il mercato, alimentato dalle scorrerie dei corsari cristiani ai danni del traffico commerciale turco e delle popolazioni magrebine, faticava a soddisfare la domanda. Filippo II stabilì per legge che tutti gli uomini catturati sulle galeotte dei corsari barbareschi, compresi i minorenni, dovevano essergli ceduti al prezzo politico di 30 ducati; perfino i rais, che secondo un editto precedente dovevano essere impiccati sul posto, ora si dovevano tenere in vita per consegnarli al re. Nella primavera del 1570 il marchese di Santa Cruz, comandante delle galere di Napoli, andò a rifornirsi a Malta, dove il re gli aveva ordinato «di comprare il maggior numero di schiavi che potrà»; più tardi, rientrato a Napoli, comunicò di aver ulteriormente infoltito i galeotti con centotrenta condannati dalla Vicaria, e più di cento schiavi comprati a Messina, «e con questi aiuti tengo per certo che le galere a me affidate saranno le migliori della flotta»28.

Gli armatori genovesi, cui il re lasciava maggiore iniziativa, quando avevano bisogno di rematori uscivano in mare a caccia di schiavi; in alternativa li noleggiavano o li compravano sul mercato, dando dettagliate istruzioni ai propri agenti perché spuntassero un buon prezzo e non si facessero rifilare merce scadente. L’ideale, scrisse Bendinello Sauli, erano uomini fra i 18 e i 25 anni, già avvezzi al remo, e «soprattutto che non siano negri», perché i neri d’Africa avevano fama di non reggere la fatica e lasciarsi morire di malinconia. Ma l’offerta era in declino, perché le razzie sulle coste di Barberia, difese dalle galeotte di Uluç Alì, erano diventate pericolose. Solo dopo Lepanto gli schiavi furono di nuovo abbondanti, per qualche anno, sulle galere cristiane, ma sempre a prezzi assai più alti di quelli imposti dagli editti: il viceré di Sicilia ne acquistò 365 da don Juan de Austria a 100 ducati l’uno29.

I rematori sulle galere del Re Cattolico erano dunque in maggioranza forzati, in secondo luogo buonavoglia, e infine schiavi. Nel 1571 le galere di Napoli avevano a bordo il 47% di forzati, il 42% di buonavoglia, il 10,5% di schiavi (su quelle toscane, a titolo di confronto, le percentuali erano del 57% di forzati, 18% di buonavoglia e 25% di schiavi)30. Quale che fosse la loro condizione giuridica, tutti quanti erano rasati e incatenati, sia pure con sottili differenze: i buonavoglia avevano il diritto di portare i baffi, di giorno erano tolti dai ferri e potevano essere mandati a lavorare in Terraferma, insieme agli schiavi, mentre i forzati erano controllati molto più rigorosamente e non erano mai tolti dalla catena. E proprio questo sferragliare di catene, in fondo, è la vera caratteristica comune delle galere ponentine, in assenza di quei rematori liberi – arruolati per lo più per obbligo di leva, ma regolarmente pagati e certi di ritornare alle proprie case col disarmo invernale – che costituivano la maggioranza delle ciurme tanto sulle galere veneziane quanto su quelle turche.

Il Re Cattolico non era ignaro dell’umanità dolente che faticava a bordo delle sue galere, e sapeva che era suo preciso dovere trattarla con giustizia. La commissione indirizzata da Filippo a don Juan de Austria contiene istruzioni dettagliate in proposito, che peraltro rispecchiano tutti gli abusi correnti, sulle sue come su qualunque altra galera31. Era importante che la ciurma fosse ben nutrita e ben coperta, «perché tenga forza e salute per servire»; in passato non era stato sempre così, ma don Juan doveva provvedere, anche per «scarico della nostra coscienza e della vostra». Durante l’inverno, o comunque quando non si navigava, non bisognava permettere che la ciurma fosse impiegata in altri lavori, a meno che non fosse per il servizio del re, negli arsenali o al taglio della legna. I forzati arrivavano alle galere con i registri su cui era annotata la loro sentenza, e bisognava farla trascrivere dagli scrivani, e controllare che non fossero trattenuti oltre la scadenza della condanna; ma allo stesso modo non dovevano essere liberati in anticipo, «perché oltre al servizio delle dette galere questo tocca all’esecuzione della giustizia», e ne andava, ancora una volta, della coscienza di entrambi. Quanto ai buonavoglia, «bisogna fare particolare attenzione che non gli si faccia forza e si paghi il loro soldo, e che finito il tempo per cui si sono impegnati a servire, se vogliono andarsene li lascino andare liberamente senza impedirglielo», che è un’altra chiara denuncia degli abusi cui erano comunemente soggetti i galeotti.

Il re si preoccupava anche che le ciurme «vivano bene e cristianamente, e che in nessun modo rinneghino o bestemmino, che è cosa da cui Dio Nostro Signore è tanto offeso», e che in ogni galera ci fosse un cappellano. Ma oltre all’anima dei galeotti bisognava curare i corpi, preoccupandosi di imbarcare medicinali e di trattar bene i malati; con ogni squadra doveva salpare almeno un medico che fosse anche chirurgo, «e si potrà raccomandare ai cappellani che si occupino dei malati, perché è proprio del loro ufficio e professione, e che aiutino a ben morire quelli che lì moriranno, alla cui roba e proprietà si deve fare grande attenzione, perché si dia a chi la dovrà avere e come avranno disposto per testamento». Per quanto dura fosse stata la sua vita e frequenti gli abusi subiti, anche il più umile dei sudditi del re recuperava i suoi diritti di cristiano davanti alla morte.

Ma il re sapeva anche che le ciurme, reclutate nel modo che sappiamo, non erano affidabili, e i comandanti delle sue squadre dovevano organizzarsi per ridurre al minimo i pericoli. In ogni ciurma bisognava bilanciare i forzati e gli schiavi, «per evitare gli inconvenienti che si avrebbero se gli schiavi fossero molti»; i forzati potevano evadere, ma gli schiavi musulmani potevano rivoltarsi e questo era il pericolo più grave. Infine, bisognava distribuire oculatamente i rematori, non badando solo al numero ma anche alla qualità, in modo che le galere avessero tutte la stessa forza motrice. Via via che le sue navi da guerra diventavano più numerose, il re avvertiva la necessità di standardizzarle, e nell’estate del 1569 emanò in proposito ordini molto dettagliati: su ogni legno doveva essere imbarcata una quantità fissa di archibugi, picche e corsaletti, e i comandanti delle squadre ebbero ordine di procurarsi le armi «a Milano o dove si troverà più a buon prezzo, e che si carichino le dette armi molto pulite e pronte su ogni galera». Quanto alla ciurma, soltanto la galera del comandante di squadra, la Capitana, e quella del suo vice, la Patrona, che di solito erano bastarde con un maggior numero di banchi e con quattro rematori a banco, potevano averla più numerosa, mentre fra tutte le altre galere bisognava ridistribuire le ciurme in modo da pareggiarle: «in ognuna di esse devono esserci 164 rematori»32.

In un insolito momento di entusiasmo, Gian Andrea Doria nel marzo 1570 aveva detto all’ambasciatore veneziano Lunardo Donà, in viaggio per la Spagna, «che il re hoggi dì potrebbe mettere insieme omnibus computatis settanta cinque galere», ma che in pochi giorni, se avesse voluto armare gli scafi conservati negli arsenali di Barcellona e di Messina, «potria accrescere l’armata sua sino alla summa di cento e vinti galee». Era una vanteria, perché sottovalutava un problema in realtà insormontabile come quello delle ciurme, ma testimoniava la chiara volontà del re di Spagna e dei suoi servitori di costruire una potenza navale che non fosse seconda a nessuno nel Mediterraneo33.

Era dunque una flotta in via di potenziamento, sostenuta da un robusto commitment politico, quella che il Re Cattolico, venendo incontro alla pressante richiesta del papa, si impegnò a concentrare a Messina dopo averne parlato con don Luis de Torres, alla fine di aprile del 1570. Ma vale la pena di esaminare da vicino i tempi e i modi con cui quell’ordine venne inviato, perché in essi si celavano le radici di un equivoco che ebbe conseguenze deplorevoli. All’inizio dell’anno, quando i comandanti delle squadre cominciarono a reclutar gente per completare ciurme ed equipaggi, i loro ordini non prevedevano naturalmente nulla del genere. La squadra di Spagna era impegnata nelle acque di casa, per impedire che dalla Barberia giungessero aiuti ai moriscos ribelli. Le squadre italiane dovevano portare viveri e fanteria alla Goletta, per la cui sorte tutti erano molto preoccupati dopo che Uluç Alì si era impadronito di Tunisi, e che si temeva fosse l’obiettivo della grande flotta in preparazione a Costantinopoli. Il Torres, passando da Genova a marzo, aveva trovato il Doria impegnato appunto nei preparativi di quella spedizione: «Il signor Gio. Andrea spalma a furia le sue galere e, giunte le due di Savoia che si aspettano, partirà alla volta della Goletta»34.

Ancor prima di salpare per il Nordafrica, Gian Andrea sapeva che sarebbe dovuto tornare il più presto possibile per un secondo trasporto di truppe. Data l’intraprendenza della squadra di Algeri e la prossima uscita in forze della flotta turca, il re era preoccupato di non avere abbastanza soldati per difendere le coste del regno di Napoli e aveva deciso di reclutare 3000 fanti nel Tirolo; i tedeschi dovevano trovarsi alla Spezia prima della fine di aprile per imbarcarsi sulle galere del Doria ed essere trasportati fino a Napoli35. Il 25 aprile l’ammiraglio genovese, rientrato dal viaggio alla Goletta e sul punto di ripartire per La Spezia, scrisse al re una lettera cifrata, in cui delineava le prospettive per la campagna estiva. Per fronteggiare la flotta del Turco, Gian Andrea consigliava di radunare il maggior numero possibile di galere in Sicilia, da dove avrebbero potuto sorvegliare la costa tunisina. Se il kapudan pascià intendeva spingersi fino in quelle acque, era impensabile affrontarlo apertamente, «essendo la flotta del nemico maggiore di quanto non fosse contro Malta e anche di quante ne abbia mai inviate», ma con un numero adeguato di galere si poteva disturbarlo, vuoi operando sulle sue linee di rifornimento, vuoi attaccando in Levante, ad esempio in Morea. Secondo i calcoli del Doria, unendo quelle del re, di Savoia, di Genova e di Malta si potevano radunare a questo scopo 55 galere36.

È possibile che Gian Andrea abbia immaginato questa concentrazione in Sicilia sapendo che essa andava incontro ai desideri del papa, di cui don Luis de Torres gli avrà senz’altro parlato durante la sua sosta a Genova. In ogni caso il Doria, mentre cifrava la sua lettera per il re, non poteva sapere che il giorno prima, a Cordova, Filippo II aveva deciso di accettare la richiesta di Pio V. L’ordine che il re mandò a Gian Andrea, però, era formulato con la solita cautela e necessitava d’essere ben interpretato. Monsignor de Torres – scriveva il re – mi ha chiesto da parte del papa di radunare in Sicilia il maggior numero possibile di galere in vista della venuta della flotta turca «che si tiene per certa». Perciò il Doria doveva portarsi laggiù con tutti i suoi vascelli, e i generali delle galere di Napoli e Sicilia avevano l’ordine di fare lo stesso e mettersi ai suoi ordini; se le galere di Spagna si fossero liberate in tempo dai loro impegni, anche ad esse si sarebbe potuto ordinare di congiungersi con le altre. In calce il re aggiunse di suo pugno: «questo s’intende avendo prima provveduto La Goletta e le altre piazze che ne avessero bisogno, prima che venga l’armata del Turco»37.

Il re, in pratica, ordinava al Doria di fare ciò che quest’ultimo aveva già suggerito per conto suo, considerando unicamente gli interessi strategici dell’impero spagnolo, ma proprio questa convergenza dimostra che la concentrazione della flotta in Sicilia, nonostante le apparenze, non corrispondeva pienamente alle aspettative del papa. A Roma si dava per scontato che se le galere del Re Cattolico fossero venute a Messina, lo avrebbero fatto per appoggiare quelle di Venezia, e per riunirsi con esse quando il papa lo avesse giudicato opportuno. Appena giunto il corriere del Torres, dopo la metà di maggio, il cardinale Alessandrino scrisse lietamente al nunzio Facchinetti che il re aveva ordinato a 50 galere di andare in Sicilia per congiungersi con quelle dei veneziani. Il papa, che aveva molta fretta, scrisse subito al Doria «acciò che si contentasse unirsi con quelle de Signori Venetiani»; e il Senato veneziano, informato da Roma, comunicò ufficialmente allo Zane che il Doria aveva ordine di raggiungerlo a Corfù con ben 55 galere. Ma di questa unione non c’era traccia negli ordini che Filippo spedì a Gian Andrea; e ancor meno dell’impegno di obbedire ai comandi del papa, che il Torres era sicuro di aver ascoltato dalla bocca del cardinale Espinosa. Le galere del Doria dovevano concentrarsi a Messina, ma lo avrebbero fatto anche senza le pressioni romane e veneziane, perché quella era la base migliore da cui seguire i progressi della flotta turca e badare alla difesa di Malta e La Goletta, che restava la preoccupazione principale. Al di là di questo il re non aveva preso nessun impegno e Gian Andrea non aveva ricevuto nessun ordine, anche se la diplomazia pontificia credeva di sì; e le conseguenze di questo equivoco non avrebbero tardato a farsi sentire38.