32. Dove i cristiani realizzano l’ampiezza della vittoria, ma anche la gravità delle perdite, e tornano a casalitigando per la spartizione del bottino. Intanto i feriti muoiono come mosche, e ai turchi prigionieri toccano sorti diverse: chi è liberato dietro riscatto, e chi finisce al rogo
Fin dal primo momento i comandanti cristiani si resero conto d’aver ottenuto una vittoria senza precedenti. Non c’era quasi galera che non ne rimorchiasse una nemica, e quelle scampate erano molto poche, anche se sui numeri non c’era alcun accordo, né c’è mai più stato da allora. Il 9 ottobre il Caetani scrive che «le galere prese sono da centocinquanta, e da quaranta affondate ed abbrugiate. Tutti li corsari ed uomini famosi sono morti». L’11 Marcantonio Colonna annota: «restorno prese di conto centosessanta galere inimiche, senza le brugiate e messe al fondo». Giambattista Contarini, che le contò insieme a Pompeo Colonna e al Romegas, conferma: «numerassemo le galee prese 161, galeote grandi 6, et 30 in 35 possono esser le brusate, et andate a traverso». I rapporti dei generali calcarono un po’ la mano. Nella relazione che don Juan inviò al re si annuncia la cattura di 170 galere e 20 galeotte, mentre altre 25 «si vedono bruciate e annegate nella riva di questo mare». Il Facchinetti, che lesse il rapporto del Venier, spedito a caldo dopo la battaglia e giunto a Venezia già il 19 ottobre, riferisce «che, di 200 galere turchesche, cento ottanta, dico 180, sono state prese et si trovano in poter de’ christiani»; 35 erano affondate, solo 5 fuggite1.
Gli autori che scrissero in seguito danno valutazioni altrettanto diseguali. Il Sereno scrive che quella sera la flotta cristiana rientrò in porto «rimburchiando le prese galee, che non erano meno di centoquaranta, e sapendosi certo che da circa a cinquanta in poi, che con la fuga s’eran salvate, tutte l’altre s’erano affondate, o brugiate». Il Caracciolo, che segue la relazione di don Juan, parla di 170 galere e 20 galeotte catturate, e circa 25 bruciate o affondate «tra grandi e piccole», e calcola 32 vascelli scampati, di cui 7 con Uluç Alì. Il Contarini si basa sulla ripartizione ufficiale del bottino fatta più tardi, dopo che molti dei vascelli catturati erano stati distrutti perché troppo malconci per essere presi a rimorchio, e riferisce la presa di 117 galere e 13 galeotte, «la maggior parte cariche di pane, pegole, sevi, butiri, risi, fave»; ne calcola, non si sa come, altre 80 affondate, «le fuggite si giudica 40 in circa». Ad accrescere l’incertezza sui numeri sta il fatto, riferito dal Requesens, che nei giorni successivi alla battaglia si continuò a imbattersi in galere e galeotte spiaggiate, che gli equipaggi avevano abbandonato per salvarsi a terra, soprattutto durante la violenta tempesta che infuriò la notte del 7.
Le altre cifre che testimoniavano le dimensioni della vittoria erano quelle relative ai morti, ai prigionieri e agli schiavi cristiani liberati. La relazione di don Juan parla di più di 30.000 nemici uccisi, e 12.000 cristiani liberati; quella del Venier annuncia la vittoria «con morte di XX mila turchi et fatto grandissimo numero di prigioni e liberati da XV mila schiavi christiani». Un’altra relazione, anonima e più scettica, osserva che «il numero dei morti nell’armata del Turco non si può sapere per certo; fu grande il numero di quelli che annegarono o che furono sgozzati e fatti a pezzi; qualcuno bravo a contare dice che sono più di 20.000 e che gli schiavi non sono la quinta parte dei morti». Dopo le prime cifre date a caldo si procedette all’interrogatorio dei prigionieri, per arrivare a risultati più sicuri; e si cominciò a stilare elenchi dei caduti di maggiore importanza, storpiandone inevitabilmente i nomi, ma non l’incarico: il sangiacco di Mitilene, morto; il sangiacco di Chio, morto; il sangiacco di Rodi, morto; il sangiacco di Kavala, morto; il sangiacco di Nauplia, morto...2
La liberazione di un gran numero di schiavi cristiani, fra cui molte donne, era motivo di orgoglio per i vincitori, ed è credibile se si pensa all’enorme quantità di prigionieri che la flotta turca aveva catturato nelle isole ionie e sulla costa adriatica nel corso dell’estate. Solo a Cefalonia, un rapporto del rettore veneziano riferiva che erano state prese 2500 persone, abbastanza da spopolare l’isola «se non succedeva la felice vittoria, con la quale si liberarono quasi tutti». Sulle due galere catturate da Marco Quirini c’erano molti uomini e donne presi a Dulcigno e Antivari, «parte soldati et parte del paese». Sulle tre galere prese dalla spagnola Granada vennero liberati 227 schiavi cristiani al remo e «ventisette donne greche e veneziane che i turchi avevano catturato in terra dei veneziani». Onorato Caetani liberò addirittura alcune gentildonne fatte schiave un anno prima a Nicosia, che i loro padroni avevano portato con sé in galera, e lo scrisse orgogliosamente alla madre, che poteva apprezzare una notizia del genere più che non il conto delle galere catturate e dei nemici sgozzati3.
Dopo l’entusiasmo delle prime ore, i comandanti cristiani cominciarono a realizzare anche l’enormità delle proprie perdite, e questa scoperta raffreddò non poco l’entusiasmo. Pochissime galere erano andate perdute, ma a bordo il numero dei morti e dei feriti era pauroso, a testimonianza dell’accanimento dello scontro. Il primo rapporto giunto a Venezia riferiva «ch’era morto il proveditor Barbarigo con 6 over 8 sopracomiti vinitiani»; in seguito la cifra salì fino a 17 comandanti di galera, un sesto del totale. Per le galere ponentine non disponiamo d’un dato comparabile, e i cronisti veneziani perpetuarono la leggenda che fossero stati gli equipaggi della Serenissima a subire la quasi totalità delle perdite; in realtà basta un documento sopravvissuto casualmente come la lettera del segretario di Gian Andrea per scoprire che solo sulle 11 galere del Doria erano morti due comandanti, Giacomo da Casale, capitano della Doria e Santo Pietra, capitano della Marchesa4.
Anche la valutazione complessiva dei morti e dei feriti crebbe col tempo, rispetto all’ottimismo iniziale. All’indomani della battaglia, il Caetani valutava in tutto «morti da tremila, feriti da ottomila»; più tardi i veneziani, le cui fonti amministrative sono d’una precisione soprannaturale, arrivarono a calcolare d’aver perduto 324 ufficiali e marinai, 925 scapoli, 2274 galeotti e 1333 soldati, per un totale di 4856 morti. Ad essi si aggiunsero 4551 feriti, cioè 294 ufficiali e marinai, 680 scapoli, 2490 galeotti, 1087 soldati. Se i calcoli che abbiamo fatto fin qui sono credibili, i veneziani persero, tra morti e feriti, il 56% dei soldati, il 40% degli scapoli, il 30% dei galeotti, il 18% dei marinai: che sarebbe, fra l’altro, un bell’indizio dell’intensità decrescente con cui ciascuna categoria partecipò al combattimento, ed è comunque una testimonianza dello sforzo enorme con cui i veneziani, che godevano di una superiorità numerica meno schiacciante, strapparono la loro vittoria5.
In proporzione, le galere spagnole e pontificie ebbero davvero perdite minori. I dati più sorprendenti riguardano i legni genovesi: sulle 11 galere di Gian Andrea Doria caddero appena 74 rematori; sulle 3 della Repubblica di Genova ne morì uno solo. Lo Spinola, dopo aver affermato drammaticamente che sulla sua galera, alla fine dello scontro, «trovai da popa a prora che ogn’uno correva sangue», deve precisare che «de morti non ve ne fu allora, solo un capitanio et un cavagliere spagnuolo, però altri feriti malamente che morirono». Il bilancio definitivo per le tre galere parla solo di feriti: «della nostra chiusma non vi è morto niuno, sopra la Capitana feriti li marinari assai, però tutto di poca importantia, nella Patrona vi sono feriti assai marinari, et de la ciurma nessuno; su la Diana pur marinari assai, de la chiusma uno». Le galere del Santa Cruz, che intervennero quando la mischia era già cominciata, subirono anch’esse pochi danni: uno spagnolo imbarcato su una di esse, che aveva partecipato alla presa della bastarda del kapudan pascià, riferisce che «in tutta la galera non abbiamo avuto sei feriti e nessun morto».
Le perdite furono molto più gravi sulle bastarde dei generali, impegnate nello scontro principale al centro della linea di battaglia, e su quelle della squadra di Sicilia, coinvolte nell’azione di Uluç Alì. Il Caetani scrive che sulla Real «son morti infiniti uomini», e settanta sulla Capitana del Colonna. Don Juan de Cardona conferma, scrivendo l’8 al re: «le galere di Vostra Maestà hanno combattuto in modo che si vede dai morti, e ci sono galere di Sicilia a cui non sono rimasti dieci uomini vivi [...]. Dei soldati del tercio di Sicilia credo per certo che più di seicento siano morti o feriti», cioè un terzo degli effettivi. Requesens confermò che «della fanteria del tercio di Sicilia ne resta molto poca e di alcune compagnie non è scampato nessun soldato». Queste testimonianze frammentarie non consentono però di arrivare a un totale. L’unica fonte ufficiale, una relazione oggi conservata nell’Archivio Vaticano, subito circolata all’epoca e mai smentita, dà in tutto 800 morti e 1000 feriti sulle galere del papa, 2000 morti e 2200 feriti sulle galere del re. Su questa base si avrebbero 25 morti per ogni galera spagnola, contro 46 per ogni galera veneziana; il tributo più alto fu quello pagato dalle galere del papa, con 66 morti ciascuna, anche se in questo caso la statistica è alterata dal fatto che ben due di quei legni, su un totale di dodici, vennero tagliati a pezzi da Uluç Alì6.
Prima di rendersi conto dell’entità delle perdite subite, i comandanti cristiani s’erano illusi di poter fare grandi cose. Don Juan propose in consiglio di andare ad attaccare i forti che difendevano l’accesso del golfo di Lepanto, la cui caduta avrebbe rappresentato uno straordinario successo strategico. Il Venier voleva spingersi nell’Arcipelago, «prender di quel paese, et asediar Cipro, et nel camino andar prendendo et brusando quanto porgerà l’occasione». Altri accarezzavano sogni ancora più grandiosi, cui dovettero rinunciare con riluttanza, via via che ci si rendeva conto della situazione. «Credo ci troveremo tanti feriti che non andremo avanti verso Costantinopoli, come si pensava di fare» scrisse il Caetani il 9 ottobre; ci accontenteremo – proseguiva con ottimismo – di prendere Valona, Durazzo, Castelnuovo e tutti gli altri possessi turchi nell’Adriatico. Il giorno dopo, l’allarme di fronte all’inattesa entità delle perdite affiora per la prima volta anche nella corrispondenza di don Juan: «Ogni giorno si scopre maggior danno», scrive al re7.
Come se non bastasse, la flotta era a corto di viveri, e la stagione era già molto avanzata. Perciò i comandanti, passata l’ebbrezza iniziale, decisero che era meglio accontentarsi di portare in salvo tutto quel che potevano delle loro forze malconce e del bottino. Il 13 la flotta era riunita a Santa Maura, dove don Juan ebbe un estremo ripensamento, e mandò Ascanio della Cornia, Gabrio Serbelloni e altri veterani a riconoscere le fortificazioni; di ritorno, essi riferirono che la piazzaforte sorgeva in terreno paludoso, per cui ci sarebbero voluti almeno dieci giorni per mettere in posizione l’artiglieria. Questo chiuse la discussione, e dopo qualche giorno, impiegato a fare l’inventario del bottino, la flotta ripartì alla volta di Corfù, dove arrivò il 23 ottobre. Da qui, don Luis de Requesens scrisse a Venezia per giustificare la decisione di ritornare:
il signor Don Juan desiderava infinitamente andare avanti e tentare la conquista di Lepanto, ma dopo aver ispezionato la sua armata, ha trovato una gran quantità di feriti e di malati, e molti di quelli che erano in buona salute erano mal equipaggiati d’armi, perché dopo la vittoria c’è stato un enorme saccheggio e disordine.
Il Caetani conferma: «si sono trovati di molto più feriti delli nostri di quello che si credeva [...] ed oltre a questo si aveva pochissimo biscotto», per cui non si poteva fare nient’altro che tornare a casa. Questa unanime sorpresa nello scoprire il numero dei feriti è particolarmente interessante, perché dimostra che durante la battaglia, nonostante la violenza dello scontro, tutti avevano avuto fin dall’inizio la sensazione che le cose andavano bene e che si stava vincendo8.
Prendendo la decisione di tornare indietro, i comandanti della Lega sapevano di sfidare le critiche dell’opinione pubblica. A suo tempo, don Garcia de Toledo aveva avvertito don Juan, con acuta preveggenza, che non si riesce mai ad accontentare tutti: «arriverà al punto che se avrà preso la metà dell’armata nemica, grideranno perché non l’ha presa tutta, e se l’ha fatto si lamenteranno perché non ha preso Costantinopoli». È proprio quello che accadde: anni dopo il Sereno, scrivendo i suoi ricordi, non dissimula il risentimento per gli strateghi da tavolino, che standosene in ozio criticavano i comandanti vittoriosi per non aver conquistato il Peloponneso e l’Eubea, l’Arcipelago e Costantinopoli. Se questi valorosi chiacchieroni fossero stati lì, «se avesser veduto lo stato delle galee da poi d’aver combattuto, ed avesser provato il male e ’l periglio, che per ridurle a Messina provossi; se avesser provato la fame, che fin che a Corfù si tornasse nell’armata sentissi», anche loro sarebbero stati d’accordo con la decisione presa da tanti bravi capitani.
In realtà, don Juan, Venier e Colonna non potevano fare nient’altro. Le scorte di biscotto erano finite, e la gente viveva delle fave e del riso trovati a bordo dei vascelli nemici. Le galere avevano perduto gran parte dei remi, spezzati o finiti in acqua durante il combattimento, e molte facevano acqua; la Grifona ne imbarcava così tanta che rischiò di affondare durante la traversata per Corfù, trascinando con sé il Caetani e il Sereno. Il Provana, a letto con la febbre e «la testa tutta intronata» per la botta, scrisse al duca che era indispensabile utilizzare una delle galere turche catturate per sostituire la Margarita, «la quale non può più». La Real era così malconcia che all’arrivo a Napoli si decise di demolirla, tranne la poppa che don Juan volle tenere per ricordo. Quattro delle sei galeazze dovettero essere rimandate addirittura a Venezia per riparazioni, «ché n’havevano molto bisogno». Benché la flotta vittoriosa avesse perduto nello scontro pochissimi vascelli, i danni subiti e soprattutto le perdite umane l’avevano pressoché dimezzata. Il provveditore del Golfo, Filippo Bragadin, che raggiunse la flotta a Corfù portando 11 galere nuove, comunicò che ora il Venier ne aveva in tutto 119, ma che c’erano rematori, marinai e soldati per armarne a mala pena 70 o 75, «per il gran numero de morti così nella battaglia come doppo per le ferite et infirmità et per il grande numero d’amalati».
Gran parte dei forzati liberati all’inizio della battaglia, non fidandosi troppo delle promesse ricevute, avevano trovato il modo di far perdere le loro tracce. Avevano fatto bene, perché l’unico di cui abbiamo la testimonianza diretta, il toscano Scetti, tornato alla sua galera venne rimesso ai ferri, e ci restò ancora parecchi anni; ma non tutti erano stati così ingenui. Il Venier mantenne la promessa di cancellare le condanne dei suoi forzati, ma a condizione che restassero in servizio come rematori liberi e salariati; di lì a poco, però, constatò che la maggior parte erano spariti, e ordinò che se ripresi fossero condannati a dieci anni al remo. Requesens ammise che i forzati «combatterono maravigliosamente, et non è ragionevole ritornarli alla catena»; per di più, erano sparsi dappertutto e non si riusciva a scovarli. A novembre don Juan dovette scrivere al re che gli mandasse tutti i forzati su cui poteva mettere le mani, perché fra gli sferrati e i morti le sue galere erano a corto di rematori. Perfino le armi mancavano: il Comendador mayor chiese di fabbricarne d’urgenza a Milano, «perché il giorno della battaglia se ne persero molte, perché oltre al fatto che molti archibugi sono scoppiati, si persero tutti quelli dei morti e dei feriti, e di quelli che restano vivi e sani molte armi finirono in mare, e altre furono rubate»9.
La situazione più tragica era quella dei feriti, che morivano come mosche. Durante la sosta a Santa Maura ne morirono moltissimi, e i cadaveri, gettati a mare, erano sospinti verso terra dalla risacca, mentre qua e là le disastrose condizioni igieniche provocavano infezioni. Il 7 novembre Sebastiano Venier scrive da Corfù che i feriti continuano a morire in gran numero, e che a bordo rischia di scatenarsi un’epidemia. Pochi giorni dopo il Requesens scrive a Filippo II proponendo di riservare delle sinecure nei castelli dei regni di Napoli e Sicilia per i soldati che sono rimasti mutilati o storpiati, senza braccia e senza gambe, ma gli assicura che «non saranno molti, perché sono più quelli che sono morti dopo la battaglia di quelli che sono rimasti». Non morivano soltanto i poveracci: il Sereno cita Orazio Orsini di Bomarzo, comandante della Capitana del Colonna, e Virginio Orsini di Vicovaro, feriti il primo da due archibugiate alla coscia, e l’altro da un’archibugiata in un braccio, e morti entrambi poco dopo10.
A Corfù si scoprì che il castello, troppo piccolo, e il borgo, devastato e bruciato dai turchi poche settimane prima, non erano in grado di ricoverare così tanti ammalati e feriti; perciò il Venier fece disarmare quattro galere, tirò in terra gli scafi coperti da tendoni di canapa, e improvvisò un ospedale. Per ogni cinque degenti si doveva distaccare un uomo d’equipaggio che attendesse ai loro bisogni; i barbieri delle galere ebbero ordine di visitarli, e il Venier mandò il suo medico personale e il suo cerusico; i sopracomiti dovevano provvedere alle spese («chi fece bene, chi meglio, et chi brontolando»)11. Le galere ponentine ripartirono ben presto alla volta di Messina, ancora cariche di feriti, e lì sbarcarono gran parte di quelli ancora vivi: l’ospedale messinese della Pietà risulta pieno di feriti dal novembre 1571 al febbraio 1572, tanto che i reggenti dovevano tenere le loro riunioni nel convento di San Domenico, perché tutti i locali dell’ospedale erano pieni di ricoverati; nei conti del municipio figurano importanti spese «per sottirari li morti soldati di l’armata chi morsino in quista cità»12.
Ma nemmeno lì c’era spazio per tutti, per cui gli ultimi feriti rimasti a bordo delle galere spagnole e genovesi dovettero affrontare ancora una traversata, fino ad approdare all’ospedale maggiore di Genova. Anche in questo caso l’afflusso improvviso provocò grosse difficoltà: il 12 dicembre l’ambasciatore Padilla scrisse al re che don Juan aveva dovuto usare la sua autorità per convincere i governatori dell’ospedale ad accogliere tutti i feriti, promettendo che il re avrebbe rimborsato le spese; ma l’ospedale non aveva mezzi e bisognava che dalla Spagna si mandasse con urgenza del denaro, «perché non si vedano morire per la strada vassalli di Vostra Maestà, come è già successo a qualcuno». In tutto, calcola il Padilla, sono ricoverati a Genova 190 spagnoli e 250 fra tedeschi e italiani, «e se si fossero accolti tutti quelli che ne avevano bisogno sarebbero molti di più». Qualcuno, per fortuna, guariva, e Padilla chiese al re i fondi per provvederli di scarpe, una camicia e qualche moneta, e avviarli verso la Lombardia13.
Marcantonio Colonna gongolava. L’esito trionfale della battaglia gli dava ragione, e giustificava retrospettivamente anche la strategia che aveva seguito l’anno prima, quando era lui a comandare la flotta. Il 9 ottobre scriveva da Petalà: «si è chiarito che i Venetiani sono quei d’altro tempo, e che i Turchi sono homini come l’altri [...]. E che io l’anno passato e questo ero ben ispirato, e non era illusione diabolica né temerità la mia». Le critiche che gli erano piovute addosso a suo tempo erano clamorosamente smentite dai fatti. «Sua Maestà» – scrisse al cardinale Espinosa – «vedrà che l’anno passato non sono stato pazzo del tutto, poiché avevamo quaranta vascelli di vantaggio sul nemico, e ora abbiamo vinto alla pari»14.
Altri erano meno di buon umore, nonostante il trionfo. Gian Andrea Doria, che per carattere era poco portato all’entusiasmo, scrisse a casa solo per raccomandare ai suoi agenti di non rinnovare l’assicurazione delle galere per il mese di novembre, visto che di pericoli non ce n’erano più. Don Juan mandò al re il comandante del tercio reclutato a Granada, don Lope de Figueroa, con una relazione della battaglia stilata in gran fretta dal suo segretario Juan de Soto. Nel testo, che circolò subito largamente e venne anche stampato, il principe si sforzò di nominare individualmente quei gentiluomini che avevano compiuto atti di valore, ma com’era inevitabile non poté menzionare tutti, e quelli che non trovarono il proprio nome si ritennero in diritto di offendersi. Quel che è peggio, nella relazione c’era scritto che all’avvicinarsi della battaglia don Juan era molto preoccupato per l’assenza del marchese di Santa Cruz e di don Juan de Cardona: i due gentiluomini ci rimasero malissimo e lo fecero sapere, costringendo il Requesens a un faticoso lavoro di rappacificazione15.
La relazione offrì anche l’occasione per un ennesimo litigio fra don Juan e Sebastiano Venier il quale, secondo una voce sentita dal Caracciolo, avrebbe rifiutato di firmarla perché era scritta in spagnolo. Il generale veneziano mandò invece in patria un suo rapporto coll’annuncio della vittoria, senza preoccuparsi di concordarlo con don Juan: il principe si risentì, e minacciò di far frugare i legni veneziani che avessero lasciato la flotta senza il suo permesso. I rapporti fra i due non si erano mai ristabiliti dopo le impiccagioni di Igumenitza, e il Venier era furioso perché dopo la morte del Barbarigo, che aveva preso il suo posto nel consiglio di guerra, don Juan e il Colonna continuavano a riunirsi e a prendere decisioni senza invitarlo16.
Altri attriti ebbero risultati più tragici. Due dei colonnelli della fanteria veneziana, entrambi gentiluomini romani, Prospero Colonna e Pompeo Giustini da Castello, erano da tempo in pessimi rapporti; all’arrivo a Corfù Prospero attese Pompeo che sbarcava dalla galera, e quando quello fece mostra di passargli davanti senza salutarlo gli intimò di togliersi il berretto. L’altro mise mano alla spada, ma prima che potesse sguainarla, il Colonna gli tirò una pugnalata alla testa e lo ammazzò. Subito dopo, il principe assassino s’imbarcò su una fregata e se ne andò come se niente fosse; poi mandò il conte di Sarno e Lelio de’ Massimi a raccontare al Venier la sua versione dell’accaduto. Al vecchio e iracondo generale toccò ascoltare il loro racconto, «con parole tanto alte per non dir superbe, o meglio insolenti in essaltatione della casa Colonna et depressione di quella del Castello, che fu miracolo che mi potessi tenere di non rispondere per le rime». Ma Prospero era un gentiluomo di sangue troppo illustre perché la giustizia veneziana avesse voglia di corrergli dietro, per cui il Venier tenne per sé i propri commenti, e la faccenda fu dimenticata17.
Ma la più grande occasione di litigio fu il bottino. Durante la sosta a Santa Maura, i comandanti avevano provveduto a farne l’inventario e ad accordarsi per la spartizione. Come in qualsiasi combattimento, all’epoca e non solo, il bottino era stato anche a Lepanto la maggiore preoccupazione dei soldati, dopo quella di salvare la pelle. Fin dal momento in cui si erano resi conto di aver vinto, «erano i Christiani più solleciti al bottinare e legare l’inimico, che al combattere e ammazzare». Monsignor Grimaldi, commissario papale, che aveva partecipato alla battaglia con celata e corsaletto e «nel conflitto onoratamente menò le mani», vide tre o quattro soldati della sua galera che si disputavano un prigioniero e stavano per ammazzarsi a vicenda; intervenne a dividerli, ma perse l’equilibrio e cadde in mare, trascinando con sé il turco. Il peso dell’armatura l’avrebbe certamente affogato se il prigioniero, buon nuotatore, non l’avesse sostenuto finché dalla galera non li tirarono su entrambi. Anche il giorno dopo la battaglia fu trascorso in gran parte a far bottino, spogliando i morti che il mare ributtava a galla. Il Sereno ci ha lasciato un’immagine memorabile dei cadaveri sospinti in massa dal vento verso la costa, così fitti che lo sguardo non vedeva altro che corpi a perdita d’occhio, e di tutti i marinai e i forzati intenti a ripescarli con uncini e spogliarli di quello che avevano ancora addosso, «borse con buoni danari, giubbe, turbanti, tappeti di cuoio, cassette piene di molte curiosità», per poi ributtarli nudi nell’acqua18.
Ogni soldato, marinaio o galeotto dell’armata cristiana sperava di far fortuna, e non si saprà mai quanto denaro o quanti gioielli siano spariti nelle loro tasche; don Juan fu abbastanza malaccorto da proclamare che chiunque avesse preso più di cento scudi doveva consegnare l’eccedenza, e a partire da quel momento ciascuno si guardò bene dall’aprir bocca. Qua e là affiora la notizia d’un bottino stravagante, come i quattro falchi e i quattro levrieri trovati sulla Capitana del sangiacco di Rodi, o i libri preziosi razziati su altre galere, fra cui almeno un Corano. Più d’un capitano, buon cristiano, si gloriò d’aver recuperato le campane che i turchi, per spregio, avevano portato via dalle isole saccheggiate: la spagnola Granada ne recuperò quattro, e il palermitano Cesare Rizzo, padrone di una fregata da nove banchi, offrì in voto alla Vergine delle Grazie, nella parrocchia della Kalsa, una campana proveniente da Cipro, che «prisi di potiri di li Turchi». Chi non riuscì a far di meglio arraffò turbanti e vestiti, spogliando i nemici uccisi o catturati; un poemetto in dialetto padovano celebra la vittoria dichiarando «che non se farà fiera o marcao / che non se venda più de un Dulipan / e più de un Giamberluco insanguinato»19.
Se dobbiamo dar retta al Sereno, a riempirsi le tasche furono soprattutto quelli che avevano combattuto di meno. Su tre delle galere catturate, quella del kapudan pascià, la Capitana di Rodi e soprattutto quella di Mustafà Çelebi, pagatore generale dell’armata, s’era trovata gran quantità d’oro e d’argento, e tutti quelli che avevano spogliato i morti avevano trovato qualcosa, perché era abitudine dei turchi cucirsi qualche zecchino nel fondo del turbante. All’arrivo a Messina i soldati con le tasche piene d’oro cominciarono a spenderlo senza criterio, con grande irritazione del Sereno: «essendo genti basse, tanto poco usi ad aver denari che non sapevano che farne», compravano senza tirare sul prezzo e ostentavano di pagare tutto in monete d’oro, «come coloro a’ quali gli aspri d’argento erano venuti in puzza». Molti altri, che avevano badato più a combattere che a far bottino, si trovarono nei guai quando vennero congedati. La fanteria imbarcata sulle galere del papa venne licenziata a Napoli, dove gli scrivani fecero i conti dei soldati con minuziosa precisione, addebitando loro perfino le munizioni che avevano usato, mentre un’amministrazione particolarmente spilorcia non concesse il donativo che di solito si distribuiva dopo le vittorie; sicché la maggior parte si ritrovò senza un soldo in tasca, e per poter tornare a casa dovette vendere le armi e chiedere l’elemosina20.
A Lepanto, più che in altre battaglie, la preoccupazione del bottino era condivisa anche dai comandanti. Si trattava, innanzitutto, di poter ostentare i trofei della vittoria: don Lope de Figueroa, mandato a Roma e poi a Madrid con la prima relazione della battaglia, portò con sé lo stendardo candido del kapudan pascià, dov’era ricamato 28.900 volte il nome di Dio. Filippo, riferì,
lo ricevette con la maggior allegria che si può immaginare. Voleva sapere cosa dicono quelle lettere; io ho risposto che non le abbiamo lette, ma che c’è il registro nella moschea della Mecca, dove è stato benedetto dai loro prelati, perché mancano molte lettere a causa delle archibugiate.
Don Lope aveva ragione d’essere allegro anche lui, perché in premio di quello stendardo il re gli concesse l’abito di cavaliere di Santiago e mille scudi di rendita. Altri si portarono i trofei a casa, come Alvise Cippico, comandante della galera Nostra Donna di Traù, che collocò nel vestibolo del palazzo di famiglia l’insegna della galera ottomana da lui catturata21.
I trofei più importanti erano appunto le galere, la loro artiglieria e i nemici fatti schiavi. Erano la prova tangibile della vastità della vittoria, rappresentavano un valore economico colossale, e una risorsa immediatamente reimpiegabile sul piano militare; perciò la loro spartizione era una questione politica della massima importanza. Il trattato della Lega stabiliva che il bottino fosse diviso in proporzione all’impegno di spesa dei tre alleati: e dunque metà al re, un terzo a Venezia e un sesto al papa. Ma le leggi di guerra stabilivano che il comandante in capo aveva diritto a trattenere per sé un decimo della preda, e a distribuire premi e gratifiche prima della spartizione; tutte usanze radicate fra i soldati, che però non erano state considerate nel trattato. Perciò gli animi si surriscaldarono. Il Venier era furibondo con don Juan, che secondo lui al momento di dividere il bottino si era comportato con arroganza e insolenza insopportabili; secondo il Requesens, invece, la spartizione era stata fatta soprattutto a vantaggio dei veneziani, «per farla finita e non scontentarli», e il re ci aveva perduto. Come scrisse il Colonna al doge, l’ostilità reciproca fra gli alleati era tale già prima che «per vero miracolo, et gran bontà di Dio si poté venir ad una battaglia tale; et poi fatta, per il guadagno et avaritia universale fu l’istesso miracolo che non se ne facesse una tra noi»22.
Il verbale della spartizione, redatto a Santa Maura il 18 ottobre, contiene l’elenco dettagliato del bottino catturato a Lepanto, sopravvissuto alla confusione dei giorni successivi e ufficialmente dichiarato. Come abbiamo visto, la stima delle galere e galeotte prese in battaglia oscillava, a seconda dei testimoni, fra le centoquaranta e le centottanta. Parecchie, però, erano così malandate che non valeva la pena di rimorchiarle fino all’Italia attraverso un mare agitato, per cui al momento dell’inventario si decise di bruciarle e colarle a picco. Rimasero da spartire 117 galere e 13 galeotte, 117 cannoni di corsia, 256 pezzi d’artiglieria di medio e piccolo calibro e 17 petriere, oltre a 3486 schiavi; per fortuna, all’incirca la metà della preda era già in mano agli spagnoli, e l’altra metà ai veneziani e ai pontifici, per cui furono necessari solo piccoli aggiustamenti per completare la divisione. Ciascuno si sforzò di rimorchiare in patria le galere che gli erano state assegnate, non senza pericoli, perché col maltempo quegli scafi vuoti erano difficili da controllare, e urtavano disastrosamente la poppa dei vascelli cui erano attaccate; più d’una preda dovette essere abbandonata alla deriva per evitare il peggio23.
Problemi più gravi nacquero quando don Juan pretese per sé la decima che la consuetudine riservava al comandante in capo. Il Venier si oppose con tutte le forze, e rifiutò di dare la sua parte, chiedendo di rimettersi al parere del papa, ma don Juan procedette a impadronirsi di 6 galere e 174 schiavi in possesso dei veneziani, lasciando in deposito a Marcantonio Colonna, in attesa della decisione di Pio V, soltanto la sua parte dei pezzi d’artiglieria. Fuori di sé, il Venier scrisse al doge che era meglio richiamarlo in patria e nominare un generale più prudente e più paziente di lui, perché non sopportava più l’insolenza degli spagnoli, e non voleva essere la causa della dissoluzione della Lega. Non aveva tutti i torti, perché don Juan lo considerava un «vecchio rimbambito et furioso», e tollerava che il suo segretario Juan de Soto lo chiamasse così in pubblico; persino il diplomatico Colonna scrisse in un parere ufficiale che se voleva proseguire la guerra, Venezia doveva destituire il Venier e nominare un generale più savio, abituato a trattare coi principi24.
La cifra degli schiavi dichiarati era parsa a tutti troppo bassa; di qui il diffuso sospetto che ne fossero stati nascosti moltissimi. Al momento di fare l’inventario don Juan offese gli altri generali pubblicando, senza chiedere il loro parere, un proclama in cui imponeva di consegnare immediatamente l’elenco degli schiavi presenti su ogni galera, minacciando ammende anche ai sopracomiti veneziani se li avessero tenuti nascosti; ma le minacce ebbero ben poco esito. «I schiavi spartiti sono stati poco più di tremila, benché si dubita non siano stati accusati tutti, ancorché, per dire il vero, furono quasi tutti morti, e non si attese a far prigioni», osserva conciliante il Caetani. Sui 3486 dichiarati, 348 spettavano a don Juan; alla fine gliene rimase in mano qualcuno in più, e il principe ne trasse un profitto non indifferente, giacché l’anno dopo ne vendette in tutto 365 al viceré di Sicilia al prezzo di 100 ducati l’uno25.
Ma il bottino attribuito a ciascuno dei sovrani doveva poi, in qualche misura, essere spartito fra i loro capitani. Da Corfù, il 26 ottobre, il Caetani metteva le mani avanti: «qua ognuno che ha servito in questa giornata Sua Santità pretende rimunerazione»; c’era «chi fa disegno sopra galere, chi sopra schiavi, chi nelle artiglierie e chi sopra altro, e già credo che questi precursori abbiano fatto delle domande». Virtuosamente, il Caetani sottolineò che «il signor Marcantonio ed io non avemo voluto pur toccare un quattrino né uno schiavo», e tuttavia gli parve bene far sapere che anche lui aveva delle modeste aspettative: se gli avessero dato un paio delle ventun galere toccate al papa, con le loro artiglierie e qualche schiavo, lui poi sarebbe stato contento di armarle a sue spese per la guerra da corsa26.
I risentimenti peggiori nacquero quando si trattò di spartire la quota di bottino spettante al re di Spagna. Nessuno discuteva che le galere dovessero rimanere di proprietà di Filippo, ma Gian Andrea Doria e altri capitani asientistas rivendicavano, in base alle consuetudini di guerra, una quota proporzionale dei pezzi d’artiglieria e degli schiavi. Don Juan, anziché cercare l’accordo, li provocò sostenendo che nei loro contratti non era previsto niente del genere; mentre lui, dopo aver prelevato la sua decima del bottino in quanto comandante in capo della Lega, pretendeva anche la decima della quota spettante al re, in quanto comandante in capo delle galere spagnole. Per fortuna il rey prudente aveva inviato precise istruzioni sulla spartizione del bottino, e consultandole si scoprì che l’artiglieria era riservata a lui; quanto agli schiavi, dovevano effettivamente essere distribuiti ai comandanti delle galere, ma il re aveva il diritto di trattenerli per sé pagandoli al prezzo politico di trenta ducati ciascuno.
Mentre si discuteva, don Juan creò un nuovo scandalo procedendo senz’altro a prelevare i suoi schiavi, che scelse ad uno ad uno anziché tirare a sorte. Poi rivendicò il diritto di distribuirne un certo numero in premio, prendendoli non fra i suoi, ma nella massa comune: ne regalò ai principi di Parma e di Urbino, all’Orsini, al Santafiora, al della Cornia, al Serbelloni, ai colonnelli della fanteria tedesca, italiana e spagnola, e a molti altri ancora, fino a un totale di 315. Il Doria e gli altri capitani di galera erano furiosi, e perfino il Requesens non poté fare a meno di ammettere «che questi cavalieri un po’ di ragione ce l’avevano».
Ma l’aspetto più scandaloso dell’intera faccenda è che mentre la decima era stata calcolata sul totale inventariato a Santa Maura il 18 ottobre, gli schiavi vennero effettivamente tirati a sorte solo il 7 novembre a Messina. Questo significa che la flotta, carica com’era di feriti e di moribondi, a corto di vettovaglie e con un clima avverso, fece la traversata fino a Corfù, e poi quella fino al porto siciliano, con a bordo una moltitudine di schiavi incatenati che individualmente non appartenevano a nessuno, e di cui nessuno era particolarmente interessato a prendersi cura. Il risultato, come ammette il Requesens, fu catastrofico: «in questo tempo è morta gran quantità di schiavi, perché ce n’erano molti feriti o malati, e come nessuno sapeva qual era il suo e le galere erano molto imbarazzate, non hanno avuto il trattamento conveniente». Sono parole pudiche, sotto le quali si cela l’orrore che possiamo facilmente immaginare. Don Juan accrebbe il malumore generale decidendo di prelevare lo stesso la decima in base alla cifra stabilita a Santa Maura, senza tener conto dei morti né di quelli che lui stesso aveva regalato. «Certo non può essere stata l’avidità a muovere Sua Eccellenza», cercava di giustificarlo il Requesens, «perché degli schiavi della sua decima ne ha regalati e ne sta regalando molti»27.
Alla fine, la spartizione lasciò un profitto colossale a don Juan, profitti minori agli altri personaggi di spicco, e una scia di rancori che faticò molto ad estinguersi. L’intera faccenda non parve edificante a nessuno, e vale il commento disgustato del Caracciolo: «Si partì la preda con gran sottilità, più alla usanza de mercatanti, che da principi». Chi ne ricavò poco o nulla ci scherzò in tono un po’ agro, come Francisco de Murillo che scrisse al segretario Antonio Pérez per dargli notizia di sé e di Juan Rubio, capitano della Luna di Napoli: «lui e io abbiamo avuto la fortuna di non aver guadagnato un solo maravedì; che con tanta contentezza non sarebbe stato male inciampare in qualche buona borsa di denari». Anche il Venier spedì al suo governo un ironico rendiconto, dichiarando che da tutti quei litigi lui si chiamava fuori: «che io Signori di tanta vittoria ho guadagnato ducati cinquecentocinque, lire due, soldi sei, alcuni cortelli, una filza de coralli, et doi negri, non buoni appena da vogare in mezo di una gondola, et se quelli la Serenità Vostra li vuole, sono a sua richiesta»28.
Un problema a sé stante era quello dei cosiddetti “schiavi da riscatto”, cioè di quei prigionieri abbastanza importanti perché si potesse negoziare con la Porta la loro liberazione, magari scambiandoli con i capitani cristiani prigionieri a Costantinopoli. In linea di principio tutti erano d’accordo che bisognava metterli in comune e gestirli separatamente dagli altri, anche se fin dove si spingesse questa categoria non era affatto cosa chiara. Fra le molte lagnanze dell’iracondo Venier c’è anche quella che a Santa Maura don Juan «mandò sopra la mia galea uno spagnuolo, che era stato longamente a Costantinopoli, a tuor li schiavi di riscatto, et tolse chi li piacque, fin li spahi; ben con una copertina, che anch’io mandassi sopra le sue». Che un qualunque sipahi fosse considerato degno di riscatto e perciò messo da parte sembrava illogico al generale, ma in proposito non c’era stato nessun accordo ed era difficile impedire a don Juan di fare quello che voleva29.
Alla fine, bene o male, i prigionieri di spicco vennero inventariati e messi da parte, e si decise di darli in custodia al papa, in attesa di aprire il negoziato col sultano, ma non erano molti. Shuluq Mehmet, già corsaro famoso, poi bey di Alessandria, comandante dell’ala destra a Lepanto, era stato ripescato in mare dai veneziani mentre la sua galera colava a picco demolita dall’artiglieria di Antonio da Canal, ma era gravemente ferito e morì poco dopo. Secondo parecchie testimonianze, fra cui quella dello stesso Venier, i suoi catturatori pensarono bene di abbreviargli l’agonia tagliandogli la testa. Don Luis de Requesens pensava che «questi Signori Veneziani» non stessero affatto collaborando alla ricerca degli schiavi da riscatto, ed è difficile dargli torto. Già all’indomani della battaglia il Venier, spedendo a Venezia la galera di ser Onfré Giustinian per portare il primo annuncio della vittoria all’insaputa di don Juan, vi aveva caricato parecchi ufficiali catturati sulle galere nemiche, «Zapher da Costantinopoli, che era comito di galia, Ibraym paron di galia, Mehemet paron di galia, Dervis comito et calafado et provisionato del Signor Turco», tutti spariti nelle prigioni dei Dieci senza che gli alleati ne sapessero nulla30.
Alla fine, i prigionieri di riguardo risultarono una quarantina; don Juan li portò con sé a Messina e poi a Napoli, in attesa di consegnarli al papa. Tre sangiacchi erano stati catturati vivi: Mehmet detto Salipas¸azade, ovvero figlio di Sali pascià, sangiacco di Negroponte; Giaur Alì, sangiacco di Modone, e Ahmet, sangiacco di Sarkikarahisar in Anatolia. Un «Memento dei turchi prigionieri et la qualità loro» attribuisce ai tre riscatti di 20.000, 10.000 e 6000 scudi; seguono dieci sipahi, fra cui almeno un greco, con riscatti da 180 a 1200 scudi; due rais, da 600 a 1200 scudi, tre comiti e sei marinai di galera, quasi tutti di Pera, da 240 a 480 scudi, e altri 16 uomini, in gran parte «furfantissimi et plebei». Fra questi ultimi il più importante è Mahmut subas¸ı, ovvero capitano dei giannizzeri, valutato 1200 scudi; seguono Dervis¸, segretario dell’Arsenale, con riscatto di 600 scudi, e altri fra cui un paio di «vogador al remo» con riscatto di 240 scudi, a conferma che si era adottato un criterio piuttosto ampio per l’inclusione nella lista. Ad essa è allegato un commento piuttosto istruttivo: del bey di Negroponte si dice che è ricco e «si faccia pagare più si può», anche perché «del resto non vale nulla». Il giudizio riguarda il valore come rematore, e si estende ai sipahi, «che si scorchino di denari; del resto non son buoni da nulla». C’è da pensare che avessero ragione quegli osservatori veneziani che sostenevano che i timarioti, in particolare quelli scelti per servire sulle galere, erano gente di scarsissimo valore31.
In realtà c’erano altri due prigionieri di spicco, i figli del kapudan pascià, Mehmet bey, diciassettenne, e Mahmut bey, quattordicenne, che avevano una propria galera, ed erano stati presi vivi insieme al loro precettore Lala Mehmet. Don Juan, cavallerescamente, li aveva fatti rivestire fin dal primo momento con i più sontuosi abiti turchi che aveva potuto comprare dai soldati, e volle trattare egli stesso la loro liberazione: già a Corfù lasciò andare il precettore, mandandolo a Costantinopoli perché prendesse contatti con la famiglia. Nel gruppo che il 10 marzo 1572 venne finalmente consegnato al papa c’era solo il fratello minore, perché il maggiore era morto a Napoli durante il viaggio, ma don Juan insisté con gli alleati e ottenne che il ragazzo gli fosse riconsegnato. La sorella dei due, Fatima, aveva nel frattempo avviato le trattative, e dopo un cortesissimo scambio di corrispondenza col principe il 15 maggio 1573 ottenne la restituzione del fratello superstite. Don Juan lo liberò gratuitamente insieme a quattro servitori, fra cui un muto: con grande disgusto del Vaticano, che nel conteggio finale dei riscatti volle mettere in conto al principe spendaccione «il putto figliuolo del Bassà, che importava più lui solo che tutti quanti insieme»32.
Dal gruppo era stato escluso anche il rinnegato genovese Gregorio Bregante, alias Mustafà, partito da Costantinopoli quell’estate con la squadra di Hasan pascià. Dopo essere «statto pigliato et fatto schiavo in la felicissima vittoria», il Bregante scrisse da Messina al governo della Repubblica di Genova, ricordando che finché si trovava in Turchia aveva sempre fatto quel che poteva «in servicio della christianità», per cui pregava di raccomandarlo al papa e a don Juan. Effettivamente l’uomo era sul libro paga dello spionaggio spagnolo: al pari di un altro capitano di galera, Ahmet rais, e di un colonnello dei giannizzeri, Murat agà, riceveva centinaia di ducati all’anno da un mercante veneziano residente a Costantinopoli e incaricato di fare da tramite fra il re e le sue spie, Aurelio Santa Croce. La supplica ebbe successo, perché Mustafà, incluso inizialmente nel gruppo da consegnare al papa, venne trattenuto a Napoli dal cardinale di Granvelle «per servizio della Santa Lega». Più di un anno dopo, però, un religioso cattolico residente a Costantinopoli intercettò alcune lettere in cui il rinnegato, che si trovava ancora a Napoli, prometteva di vendicarsi sui cristiani dei maltrattamenti subiti in prigionia, non appena fosse riuscito a tornare nella capitale ottomana. Il religioso si affrettò ad avvertire il re di Spagna, esortando a non credere al pentimento del Bregante e a non rimetterlo in libertà; a quello lì, disse, non importava nulla della Cristianità, ma solo «del suo proprio interesse»33.
I 40 prigionieri portati a Roma vennero ospitati onorevolmente prima in Borgo e poi in Castel Sant’Angelo, e il papa avviò le trattative col sultano. Selim fece sapere che era disposto a scambiarli con altrettanti prigionieri cristiani, detenuti a Costantinopoli nella Torre del Mar Nero, e che non avrebbe accettato di negoziare se non per l’intero blocco. Il problema è che sebbene affidati al papa, i prigionieri spettavano ancor sempre per metà al re e per un terzo a Venezia, per cui la diplomazia vaticana dovette attivarsi e ottenere il consenso degli alleati. Ci vollero tre anni per mettere tutti d’accordo, mentre i negoziatori papali diventavano sempre più nervosi, facendo notare «che si sono già spesi molte migliara di scudi per le spese di questi prigioni», tutti a carico di Sua Santità. Finalmente nel 1575 si arrivò all’accordo, e i prigionieri vennero trasferiti a Fermo, da dove dovevano proseguire alla volta di Ragusa, per essere scambiati con 39 prigionieri cristiani.
Mehmet, bey di Negroponte, indicato nei rapporti dei carcerieri come «il sr. Negroponte», in quanto prigioniero più alto in grado aveva partecipato personalmente ai negoziati, scrivendo ai visir della Porta e facendo venire a Ragusa il suo chiecaia. Un altro dei prigionieri, Dervis¸, segretario dell’Arsenale e ricco uomo d’affari, s’era dato ancora più da fare e riuscì ad essere liberato prima degli altri, offrendo un bell’esempio dell’intreccio fra politica e interessi economici nel Mediterraneo del Cinquecento. Certe balle di tessuto di proprietà di Dervis¸ e del valore di ben 1700 ducati vennero trattenute ad Ancona come garanzia per la liberazione di un prigioniero cristiano, rilasciando a Dervis¸ regolare ricevuta; e in qualche modo nell’affare rientrarono anche tre balle di kermes, la spezia colorante, appartenenti al padre di Dervis¸, e depositate come garanzia alla dogana di Ragusa. Poi un fideiussore di Dervis¸ arrivò nella città adriatica con 900 ducati per il pagamento del riscatto; e il gran visir scrisse al governo raguseo avvertendo che giacché erano arrivati i contanti, prima di lasciar andare il cristiano bisognava recuperare la merce sequestrata ad Ancona e consegnarla all’agente di Dervis¸, che sarebbe arrivato con la ricevuta, in caso contrario i ragusei avrebbero dovuto pagarne il valore.
Chi trovò il modo di impiegare utilmente il tempo anche in prigionia fu Mahmud müteferriqa, segretario e tesoriere del sultano Selim, con cui scambiava poesie con lo pseudonimo di Hindi, «l’Indiano». In un suo poema, scritto dopo il ritorno a Costantinopoli, racconta d’essere stato fatto prigioniero in mare, mentre combatteva da gazi per la Fede, e prosegue accennando a un altro poema che scrisse durante la lunga detenzione a Roma: «Alla Mela d’Oro, nelle mani del papa, rimasi quattro anni nelle mani di quegli infedeli. / Eravamo quaranta musulmani, praticanti della nostra fede... / Là scrissi tutte le nostre avventure. Ero traboccante di dolore e ribollente come il mare! / Scrissi il mio libro in ottomila versi», dei quali, purtroppo, non ne è sopravvissuto nemmeno uno.
Fra gli altri prigionieri, la detenzione aveva inasprito gli animi: a Fermo, un tale Gazi Mustafà, detto anche Mihalici, evidentemente un sipahi di origine serba, litigò col subas¸ı Mahmud per l’attribuzione dei letti l’ufficiale dei giannizzeri gli diede uno schiaffo e l’altro rispose con una coltellata. Il barbiere che visitò il ferito disse che non c’era pericolo, «per esser andata la botta in sguiscio»; ma sei giorni dopo l’ufficiale morì. Alla fine, come Dio volle, giunse l’ordine d’imbarco per Ragusa, e i superstiti partirono per tornare in patria; per fortuna il sultano aveva ordinato espressamente che al loro arrivo tutti i cristiani compresi nell’accordo dovevano essere liberati, «anche se qualcuno fosse morto nel frattempo»34.
I quaranta non lo sapevano, ma la loro vita era stata appesa a un filo. Appena ricevuto il rapporto della vittoria, il Consiglio dei Dieci aveva scritto al Venier sottolineando che la cosa più importante, adesso, era d’impedire al Turco di allestire una nuova flotta. Al sultano non mancavano legname e denaro, ma era a corto di uomini: perciò bisognava evitare a tutti i costi che i rais, i corsari, i marinai e gli specialisti potessero tornare in libertà pagando un riscatto. Il generale doveva interrogare i prigionieri, costringendo ciascuno, sotto pena della testa, a rivelare l’esatta condizione di tutti gli altri, e stilare un elenco degli ufficiali catturati; dopodiché «li farete morir con quel cauto et secreto modo che vi parerà, mandando de qui la nota di quelli che havereti fatti morir», a cominciare da Shuluq Mehmet, che il primo rapporto dava ancora come vivente35.
Poiché molti prigionieri erano nelle mani di don Juan e di Marcantonio Colonna, i Dieci scrissero al papa e al re Filippo per convincerli a procedere nello stesso modo. Il nunzio apostolico venne convocato dal doge, e informato in tutta segretezza del desiderio dei veneziani «che a nessun marinaro prigione si desse riscatto, ma si facessero tutti morire». Facchinetti riferì a Roma in cifra; ma il giorno dopo fu preso da scrupoli. «L’occasione di questa guerra apporta alle volte che si parla di far morire huomini, come accadé nel caso di ch’io scrissi hieri nella cifra a Vostra Signoria Illustrissima; et io non vorrei cadere in qualche irregolarità», scriveva preoccupato al cardinal Rusticucci. Il papa, comprensivo, gli rispose assolvendolo da qualunque peccato potesse aver commesso facendosi tramite di un simile negoziato36.
Gli ambasciatori della Serenissima a Roma e in Spagna riferirono che tanto il papa quanto il re erano d’accordo, in linea di principio, con la proposta veneziana. Ma quando i prigionieri più importanti giunsero a Roma, i Dieci appresero con estremo malumore che si facevano preparativi per alloggiarli. «Ne siamo molto meravigliati», scrissero all’ambasciatore Soranzo, ordinando di insistere col papa perché li facesse subito uccidere; inoltre bisognava fare lo stesso con quelli «che sono restati in mano de regii, per conto dell’inquisitione o d’altro, perché a ponto questi meritano la morte». Può darsi che gli ambasciatori fossero stati troppo ottimisti, o che il re e il papa abbiano poi riflettuto meglio sulla faccenda, perché nessuno dei due volle dar corso alla proposta. Filippo II diede istruzioni ai suoi ministri in Italia perché nessuna tra le «persone principali o rais che si sono presi in questa vittoria» fosse liberata dietro riscatto, ma non fece parola d’altro; il papa andò anche oltre, informando l’ambasciatore Soranzo che la richiesta era irricevibile. I Dieci, malcontenti, proposero che poiché «vien abhorrito il farli morir a sangue freddo», si tornasse almeno a dividere i prigionieri tra i collegati, «accioché cadauno possa far delli soi quel che li piacerà», ma nemmeno questa proposta venne accettata, e i quaranta alla fine vennero liberati. Il Consiglio dei Dieci dovette accontentarsi di liquidare i prigionieri portati a Venezia da Onfré Giustinian e quelli ancora detenuti a Corfù, e il 29 febbraio 1572 ordinò che «siano fatti anegare, sicché muorino con quella maggior secretezza che sarà possibile»37.
Non tutti i prigionieri di spicco vennero consegnati al papa o fatti sparire nelle segrete veneziane; ancora per una decina d’anni dopo la battaglia capitò che il governo ottomano venisse a sapere, in un modo o nell’altro, di funzionari o sipahi catturati «nella recente battaglia navale» e tenuti schiavi da privati a Corfù, posto di frontiera dove i contatti erano più frequenti, e in questi casi la Porta interveniva ufficialmente per il loro rilascio. Ma si tratta di esempi isolati; in maggioranza, le migliaia di schiavi catturati a Lepanto non ritornarono mai più a casa. Quelli che spettavano al papa vennero portati a Roma e messi a lavorare come muratori, con la catena al piede, alla costruzione delle mura vaticane. I più fortunati furono quelli che rimasero al servizio personale di chi li aveva catturati, come i due che lavoravano come manovali in casa del conte Silvio da Porcia, nobile friulano e comandante d’una compagnia di fanteria sulla galera del provveditore Barbarigo. Il conte li portò con sé a Bergamo, dove li fece andare a scuola ogni giorno da un prete che li istruì nella fede cristiana, e alla fine li fece battezzare fra il tripudio collettivo, festeggiando l’evento con un pranzo di quaranta invitati («è vero ch’io farò una spesa di venticinque a trenta ducati, ma con onor mio non posso certo far di mancho»). Non si sa che fine fece, invece, il «Papasso dell’armata, huomo dottissimo et di molte lingue», cioè probabilmente il cadì della flotta; Paolo Giordano Orsini, che l’aveva catturato, lo portò a Roma, dove il personaggio piacque, sicché l’Orsini lo regalò al cardinale de’ Medici, il quale meditava a sua volta di regalarlo al papa. A bordo delle galere turche erano state catturate anche molte donne musulmane, di cui le fonti parlano pochissimo, giacché ognuno se le tenne per sé; solo il Caetani scrisse alla madre che tornando a Roma le avrebbe portato in regalo «le più belle schiave turche che si possano vedere»: andarono tutte ad aggiungersi al gran numero di schiave turche, tartare o “more” che vivevano nelle case dei principi e degli uomini d’affari italiani38.
Pochi dei prigionieri scapparono. A qualcuno andò bene, come quell’Hüseyn che dopo sei anni a Madrid e a Napoli come schiavo di un nobile spagnolo riuscì a fuggire, tornò a Costantinopoli e fece carriera, diventando ciaus; qualcun altro ci andò vicino, come Mustafà Baliraj, che dopo aver rifiutato ostinatamente la conversione si fece cristiano per amore di una ragazza genovese, ma nel 1586 scappò a Venezia, si travestì nel Fondaco dei Turchi e venne ripreso mentre cercava di imbarcarsi per il Levante. La grande maggioranza degli schiavi sopravvissuti passarono la vita incatenati sulle galere, finché la vecchiaia non li convinse a convertirsi al cristianesimo per morire almeno da uomini liberi. I primi di cui abbiamo notizia si fecero cristiani nel novembre 1600, dopo trent’anni al remo, ottenendo dal Senato il ricovero vitalizio in ospedale, e lo stesso avvenne ad altri piccoli gruppi, a più riprese, fino al 161639.
Ma il destino più tragico fu quello dei non pochi rinnegati che dopo essere stati catturati a Lepanto vennero riconosciuti e consegnati al Sant’Uffizio, e che diversamente da Gregorio Bregante non potevano vantare anni di onorato doppio gioco. Erano italiani presi in mare e poi convertiti all’Islam, come Giovanni da Vieste, o Murat, e il genovese Stefano de Vento, o Mahmud, entrambi catturati da bambini, castrati e allevati come eunuchi del Serraglio, e poi diventati comandanti di galera grazie al favore del sultano; oppure moriscos fuggiti dalla Spagna in fiamme e imbarcati in cerca di fortuna sulla flotta del sultano. Identificati da una rigorosa indagine e traditi dalla circoncisione, cinquantadue di loro vennero condannati a pene variabili dall’Inquisizione di Sicilia e da Hierónimo Manrique, inquisitore generale della flotta. La maggior parte “uscirono”, come si diceva in gergo, negli autodafé organizzati a Messina e a Palermo fra l’aprile e il luglio 1572; il più imponente fu celebrato sulla spiaggia messinese alla presenza dello stesso don Juan de Austria. In tutto vi presero parte ben 37 rinnegati, in maggioranza italiani; quattro di loro finirono sul rogo, per aver rifiutato ostinatamente di abbandonare l’Islam e tornare al cristianesimo.
Erano il veneziano Matteo Curto, il calabrese Giuseppe, o Ahmet rais, il corso Pietro, o Giafer, e il morisco Francisco Pérez. Quest’ultimo, discendente da ebrei e musulmani, un tempo era medico sulle galere spagnole ed era stato catturato a Gerba nel 1560, dopodiché aveva abbandonato il cristianesimo e si era sposato in Algeria; nella primavera 1571, quando si sparse la voce che la flotta della Lega minacciava il paese dell’Islam, si arruolò volontario come medico sulle galere del sultano. Catturato a Lepanto, durante il viaggio verso Messina disputò con i cappellani della flotta, cercando di convincerli della superiorità dell’Islam, incitò i marinai cristiani a convertirsi e i rinnegati prigionieri a tener duro, e anche durante il processo continuò fino all’ultimo a discutere con gli inquisitori sostenendo «che i sacramenti della Chiesa erano cose da burla»; dopodiché salì volontariamente sul rogo per non rinnegare la sua fede.
Molti altri moriscos catturati a Lepanto preferirono salvare la pelle dichiarando di voler tornare al cristianesimo; ma per parecchi anni l’Inquisizione di Sicilia e quella di Napoli continuarono a tenerli d’occhio per verificare l’attendibilità della loro conversione. Tre di loro, servi in casa d’un nobile siciliano, vennero denunziati dagli altri domestici: benché pretendessero di aver abiurato l’Islam, continuavano a non mangiare il maiale e quel che è peggio si lavavano le mani più volte al giorno, segno sicuro che erano rimasti musulmani. Che cosa sia stato di loro non si sa. Si sa, invece, che don Hierónimo Manrique ebbe dei guai con i suoi superiori, che gli rimproverarono un eccesso di zelo. Alcuni dei rinnegati pubblicamente riammessi alla fede cristiana in occasione degli autodafé di Messina, come i due favoriti diventati rais, avevano a Costantinopoli grossi patrimoni, che si sarebbero potuti incamerare sotto forma di riscatto se il loro ritorno alla fede fosse rimasto segreto; ora, invece, il sultano li aveva certamente confiscati e l’occasione era perduta. Perciò la Suprema ordinò a Manrique di evitare per il futuro gli eccessi di pubblicità, e rifiutò di rimborsargli il denaro speso di tasca sua per organizzare gli autodafé40.