10
Egitto. 1816
La carriera di Bernardino Drovetti nei ranghi dell’esercito napoleonico era stata folgorante: grazie alle sue capacità sul campo, il volontario sabaudo aveva scalato gradi e incarichi, diventando capo di Stato maggiore delle truppe piemontesi nel marzo del 1801.
La catastrofica Campagna d’Oriente di Napoleone era stato il primo presagio della capitolazione del borioso imperatore corso. Ma l’invasione francese in Egitto aveva contribuito a risvegliare la curiosità verso l’antica, evoluta e misteriosa civiltà dei faraoni. Ciò era avvenuto grazie ai poco più di centocinquanta scienziati, i savants, che per primi avevano studiato gli egizi con metodi moderni.
Bernardino Drovetti, amante dell’arte e persona dalle indubbie capacità, era rimasto ammaliato dalle meraviglie del Paese e aveva intravisto, per la passione che andava dilagando in Europa, una notevole opportunità economica nel commercio delle abbondanti antichità egizie. Nel 1803 era già viceconsole di Parigi al Cairo e la caduta in disgrazia di Bonaparte non aveva intaccato le sue ottime relazioni col viceré Mehmet Alì. In Francia, e anche altrove in Europa, erano in molti a essere convinti che Drovetti fosse l’unica persona in grado di dialogare con il reggente albanese. Questo, almeno, sino a quando all’orizzonte dei deserti d’Egitto non si era profilato Belzoni.
Il quartiere dell’Okel, nel cuore d’Alessandria, era simile a una cittadella fortificata: una sola via d’accesso presidiata giorno e notte da una nutrita guarnigione e vicoli stretti che impedivano il passaggio di più di due persone alla volta. Lì, Bernardino Drovetti aveva stabilito il suo quartier generale. Nell’eleggere a residenza quella zona della caotica città portuale egiziana, il piemontese era stato un precursore: dopo di lui avevano scelto l’Okel buona parte dei possidenti stranieri che avevano interessi economici o politici in Egitto.
L’arabo si avvicinò al posto di blocco. «Altolà!» intimò la sentinella turca, un giovane soldato alle prime armi.
«Abbassa quel fucile, cretino!» rispose l’arabo senza ridurre il passo.
«Ho detto di fermarvi, signore! Non costringetemi a usare la forza», disse allora il militare, alzando il tono di una voce rotta dall’emozione.
«Fai chiamare l’ufficiale di turno, soldato», ribatté l’arabo dopo essersi arrestato a distanza di sicurezza. La baionetta spianata lo puntava minacciosa.
«Voi, effendi?» chiese il capitano quando lo riconobbe. «Sono desolato per l’incidente. Ma, capite, questi sono gli ordini che i militari devono osservare per garantire la sicurezza all’interno dell’Okel.»
«Capisco, capisco», rispose l’arabo, spiccio. «Portatemi da sua eccellenza. Mi sta aspettando.»
La casa di Drovetti era ampia e arredata con grande gusto. Meravigliosi reperti antichi spuntavano a ogni angolo. L’arabo fu accompagnato da un servitore nel salone dove, su un tavolino, era disposta una grande teiera turca d’argento.
Drovetti non si fece attendere. Salutò cordialmente il suo ospite, offrì una tazza di tè caldo, quindi sollecitò l’altro a venire al dunque.
«Quel gigante fra i piedi non ci voleva, eccellenza», disse l’arabo.
«Lo so. Abbiamo provato a fermarlo. Ma sembra che Belzoni quasi non s’accorga delle difficoltà che predisponiamo per sbarrargli il passo», constatò Drovetti. «A che punto è con il busto del giovane Memnone?»
«La statua è a pochi passi dalla sponda del fiume. Lì dovranno aspettare un’imbarcazione in grado di trasportarla. Nell’attesa, Belzoni ha espresso l’intenzione di compiere una spedizione nella vicina Nubia per raccogliere altri reperti. Compreso il sarcofago che gli avete donato voi stesso. Perdonatemi, ma l’unico intralcio andato a buon fine è stato il sabotaggio alla macchina idrica», disse l’arabo.
«Vedete bene, però, che a nulla è valso quel fallimento, se non a rafforzare il legame con il pascià. Anche io mi sono illuso che un dono, pur di valore, fosse sufficiente a toglierlo di mezzo. Pare, invece, che la febbre egizia abbia contagiato anche il padovano. Sarebbe stato meglio se il pascià dopo il disastro della pompa lo avesse allontanato dall’Egitto come persona indesiderata.»
«Credete che non ci abbia provato? Mehmet Alì sembra stregato da Belzoni. Vi immaginate che cosa sarebbe accaduto se davvero fossero state impiantate macchine in grado di soppiantare le braccia di centinaia di uomini? Le province egiziane sarebbero insorte e la situazione politica, già delicata, avrebbe finito per precipitare. Per fortuna siamo riusciti a fermarlo. Ma quel gigante s’insinua nella vita dell’Egitto con la forza di una malattia contagiosa. Conquista spazi ora dopo ora. Adesso credo si debba agire nuovamente: finirà anche per rubarvi il lavoro, eccellenza.»
«Come ben sapete», mentì Drovetti, «non si tratta di un lavoro, bensì di irresistibile passione. Dalla ricerca e vendita dei reperti ricavo a malapena le spese e, se va bene, utili irrisori. I miei proventi derivano ancora dal mio ruolo di funzionario della Francia.»
«Certo, certo, eccellenza. Ma pensate a cosa accadrebbe se quest’uomo riuscisse a scalzare il regime di monopolio nel quale operate. Il pascià sembra ben disposto nei suoi riguardi e gli concede autorizzazioni allo scavo ogni volta che ne fa richiesta.»
«Credo però», aggiunse Drovetti, «che la cosa che più v’impaurisce sia la possibilità che Belzoni si rimetta ad armeggiare con le macchine idrauliche.»
«Non lo nego, effendi. Sarebbe una catastrofe capace di mettere a repentaglio persino l’attuale viceregno: se dovessero togliere ai capitribù locali il potere che deriva loro dalla gestione dell’acqua, l’Egitto salterebbe in aria come una polveriera.»
«Che cosa pensate di fare?» chiese Drovetti.
«A mali estremi, estremi rimedi. Conosco almeno mille modi per togliere di mezzo Belzoni e far apparire la sua morte come un banale incidente.»
Drovetti si alzò accigliato: «Ascoltatemi bene, visir Hadi: una cosa è fare pressioni su un governatore perché allontani la manodopera necessaria al trasporto di una statua o sabotare un ingranaggio di una macchina. Altra cosa è uccidere un uomo a sangue freddo. Io sono un militare, visir. Non un assassino. Mi sono sempre battuto con onore. Non condivido la scelta drastica che mi state proponendo».
«Potreste pentirvene.»
«È probabile, visir. Ma è anche vero che tra macchiarmi di un omicidio e combattere commercialmente contro un tenace concorrente, scelgo la seconda strada senza esitazione alcuna.»
Pochi istanti più tardi, il visir Bahir Hadi, consigliere personale del pascià, abbandonava l’Okel con incedere rapido e nervoso. Sul volto un’espressione feroce. Anche quel maledetto francese che aveva osato scaricarlo in un momento così difficile l’avrebbe pagata, prima o poi.
Giovanni Battista Belzoni diede a voce l’ultimo incitamento agli uomini. Poi si avvicinò alla statua e l’accarezzò. In diciassette giorni avevano percorso quasi tre chilometri e mezzo, alla ragguardevole media di duecento metri al giorno. Adesso mancava soltanto l’ultima fatica: quella di caricare il busto su una nave idonea. Ma il più era fatto. Si era trattato di una prova che nessun altro era mai riuscito a superare.
La mano di Belzoni, sin dal primo contatto con la testa di granito del faraone, aveva percepito la vita in quella roccia inanimata. Nel medesimo istante Giovanni aveva capito che i mille misteri dell’Antico Egitto sarebbero stati la linfa stessa della sua esistenza. E, cosa da non sottovalutare, il mezzo di sostentamento suo e di Sarah.
James, che risentiva ancora degli acciacchi dovuti all’incidente, era stato rimandato al Cairo a comunicare al console Salt il successo della missione. Altri uomini erano stati invece sguinzagliati lungo il fiume per trovare una nave idonea a caricare il colosso e trasportarlo sino ad Alessandria, dove sarebbe stato imbarcato per l’Inghilterra.
«Quanta fatica», disse Giovanni rivolto alla scultura.
«Il sole ti ha dato alla testa, Giovanni?» chiese Sarah sorridendo, mentre si sventolava il viso con un ventaglio da viaggio. «Ti sei messo a parlare con le rocce?»
«Chissà quali altri reperti si possono trovare esplorando i dintorni», disse il gigante.
«Tieni a freno la tua esuberanza. Godiamoci qualche giorno di riposo», lo rimbrottò Sarah, anche se sapeva bene che non sarebbe stato facile far desistere il marito dal riprendere il largo. Forse anche quell’invito al riposo era solo una provocazione: le condizioni estreme nelle quali Sarah conduceva la propria esistenza, una vita che le sue conterranee avrebbero bollato come insopportabile, per lei erano linfa vitale. Senza il sole incandescente che si tuffava tra le dune al tramonto, senza i graniti scolpiti con maestria millenaria, senza le meraviglie di quel passato così remoto, si sarebbe probabilmente spenta come una debole fiammella. Ma a regalare luce e brillantezza a ogni sua giornata era soprattutto il gigantesco Giovanni. Non aveva sposato soltanto l’intrepido avventuriero, ma anche il suo modo di vivere, la sua curiosità e il suo coraggio. In ogni istante della loro comune vita, Sarah era al suo fianco indossando con discrezione le vesti dell’indomita condottiera o quelle della semplice spalla cui appoggiarsi.
Giovanni non aveva mai smesso di ascoltare i suggerimenti di sua moglie: grazie alla sua lungimiranza molti pericoli erano stati scongiurati. Forse era lei a guidare la loro carovana.
«Hai visto come ci guardavano i locali, Giovanni?» proseguì la donna. «Non vorrei che ci giocassero qualche brutto tiro e facessero sparire il busto in nostra assenza.»
«Non posso darti torto. Troverò un modo per rendere difficile la vita al ladro.»
Il giorno seguente gli uomini incominciarono a erigere una palizzata attorno al blocco di granito e, dopo averlo recintato, scavarono trincee e avvallamenti che rendessero impossibile spostare il masso in tempi brevi.
A fine lavori Giovanni Battista elargì a ciascuno degli operai il premio di una piastra e offrì loro una cena compatibile con i tempi e la dieta da osservare durante il Ramadan. Quindi si congedò tra gli applausi di tutti i suoi: il giorno seguente avrebbe valutato la possibilità di prelevare dalla tomba in cui si trovava anche il sarcofago che Drovetti gli aveva offerto in dono. Dalla descrizione che il piemontese gli aveva fatto doveva trattarsi di un manufatto assai prezioso. Belzoni lo avrebbe caricato assieme al busto all’arrivo della nave, se fosse riuscito a portarlo fuori dal suo sepolcro millenario.
Le due guide arabe, illuminate dalla luce radente dell’alba, avevano un aspetto ancor più inquietante. Tra i due, uno sembrava più sveglio, mentre l’altro lo seguiva a ruota. Entrambi tenevano lo sguardo basso e parlavano poco. Ma sembrava, almeno così assicurava l’interprete Shomu, che conoscessero a menadito il labirinto di cunicoli, gallerie e caverne della tomba.
«Consigliano di spogliarci il più possibile: i passaggi saranno angusti e là dentro fa molto caldo», disse l’interprete indicando l’ingresso di una galleria ai piedi dei monti di Gurnah.
Belzoni si tolse di dosso quanti più abiti poteva e, ormai seminudo, s’infilò a stento nel passaggio.
Il percorso, illuminato solo dalle candele che ciascuno dei quattro teneva in mano, era accidentato e difficile. Le gallerie si restringevano al punto di costringere gli uomini ad avanzare carponi o addirittura sdraiati e, per un fisico come quello del padovano, era davvero arduo tenere dietro alle guide e all’interprete.
Finalmente raggiunsero uno spiazzo sotterraneo ampio e alto, da cui si dipartiva una serie di passaggi. Prima che imboccassero il canale indicato dalle guide, Belzoni espresse al copto il dubbio che aveva in mente da quando si erano calati in quell’avventura: «Chiedete come accidenti hanno fatto a condurre per questi pertugi un sarcofago di pietra di grandi dimensioni».
«Dicono», rispose l’interprete dopo aver interpellato gli arabi, «che se fosse stato semplice prelevare il reperto, ci avrebbe già pensato Drovetti. Dicono anche che i misteri che avvolgono l’antica civiltà sono infiniti.»
«Bella risposta, esauriente», commentò Giovanni sarcastico e s’infilò nel nuovo passaggio non senza preoccupazione.
Belzoni avanzava con fatica nel cunicolo che si faceva sempre più stretto. Quando giunsero a un bivio, uno degli arabi indicò con sicurezza una nuova galleria ancora più angusta.
Giovanni cercò di entrarvi in ogni modo, ma dovette desistere. Ci riuscirono invece l’interprete e uno dei due arabi.
«Voi andate avanti e trovate il sarcofago, io resto qui con l’altra guida. Quando tornerete valuteremo il da farsi. Se non troveremo una strada alternativa mi pare impossibile riuscire a riportare il reperto alla luce del giorno.»
Belzoni era spossato e si accasciò nel piccolo antro dinanzi all’ingresso del nuovo passaggio. Non era trascorsa una manciata di secondi che dalla galleria provenne un grido agghiacciante: «Mio Dio, mio Dio! Sono perduto», la voce dell’interprete che pronunciava quelle parole giunse distinta alle orecchie del padovano e del suo accompagnatore.
Belzoni s’insinuò nel varco sino a quanto poteva, mise le mani a conca davanti alla bocca e ripeté il nome dell’interprete e dell’arabo diverse volte con tutto il fiato che aveva in corpo. Dopo qualche minuto si ritirò in preda all’apprensione, senza aver ottenuto alcuna risposta.
Si rivolse allora alla guida rimasta, mimando la domanda a gesti: «Tu conosci queste gallerie? Portami fuori di qui!»
La risposta gettò Giovanni ancor più nello sconforto: «Non sono mai stato qui dentro, effendi», rispose l’arabo con la sua aria tonta. «Era mio fratello a conoscere questi sotterranei.»
Belzoni scosse il capo: il peggiore dei suoi presentimenti si era avverato e adesso era prigioniero nel labirinto.
Attese ancora qualche tempo. Poi decise che era inutile aspettare notizie all’ingresso della galleria. Se era successo qualche cosa di grave, meglio correre al più presto alla ricerca di soccorsi.
Già, ma come fare?
Il padovano osservò preoccupato le candele: si erano ormai dimezzate. Ordinò all’arabo di spegnere la sua per tenerla di riserva. Gli fece quindi cenno di seguirlo e s’avventurò a ritroso. Raggiunsero con difficoltà la sala da cui si dipartivano le molte gallerie.
«Seguimi!» disse inforcando un percorso che gli pareva familiare. «Proviamo con questa.»
Ma, fatti un centinaio di metri, i due trovarono la strada sbarrata e furono costretti a tornare indietro. Ritentarono allora con una seconda galleria, poi con una terza.
Fu a quel punto che, tornando nello spiazzo sotterraneo, Belzoni si rese conto di aver perso il contatto con l’arabo.
Adesso era solo, la candela ridotta a un mozzicone e la stanchezza che incominciava a farsi sentire anche sul suo fisico massiccio. Calcolò che ormai era dentro quella trappola da una dozzina di ore.
«Calma, Giovanni», si disse. «Mantieni la calma. Hai già inforcato almeno tre gallerie per un paio di volte. Devi segnare sull’ingresso quelle che hai già percorso, altrimenti morirai qui dentro.»
E così fece apponendo una croce con un sasso a punta prima di esplorare un nuovo tunnel.
L’arabo era rimasto in silenzio ogni volta che il padovano aveva chiamato il suo nome. Si trovava molto più vicino di quanto Belzoni potesse pensare e aveva cancellato dal suo volto l’aria da tonto. L’uomo era rimasto accucciato in un antro scuro anche quando l’infedele gli era transitato accanto nella sua spasmodica ricerca dell’uscita. Aveva stretto l’elsa del pugnale, pronto a tagliargli la gola assalendolo alle spalle. A un certo punto, nel controluce della candela, valutò le dimensioni del gigante, esitando quell’istante sufficiente a perdere il tempo propizio per vibrare il colpo. Ma forse era meglio così: prima o poi la stanchezza avrebbe costretto Belzoni a fermarsi per riposare. Una volta a terra sarebbe stato più facile assalirlo. Così sarebbe tornato dal visir che avrebbe ricompensato lui e il fratello coprendoli d’oro.
Il padovano si volse di scatto: gli era sembrato di percepire un rumore alle sue spalle.
«Chi va là?» chiese Belzoni, la voce amplificata dalla volta della galleria, bassissima in quel punto. Dall’oscurità non provenne alcuna risposta.
«C’è qualcuno, laggiù?» chiese ancora Belzoni.
Il labirinto era un luogo di sepoltura e spesso, a terra, si rischiava d’inciampare su ossa e crani umani che si sbriciolavano appena calpestati.
L’arabo si muoveva al buio. In realtà conosceva quell’antro a memoria. Quello era il primo notevole vantaggio che aveva rispetto alla sua preda. Il secondo era che la candela di Belzoni gli rischiarava il percorso e rendeva visibile la sagoma dell’infedele che avrebbe ucciso di lì a poco.
Il suo piede urtò contro alcune ossa che si spezzarono all’impatto, producendo uno scricchiolio. L’arabo si nascose in un angolo buio, mentre Belzoni si voltava. La guida non abbandonò il suo rifugio neppure quando il padovano gridò nella sua direzione.
Oltre all’angoscia per essersi cacciato in quel guaio senza uscita, adesso Belzoni aveva maturato l’inquietante sensazione che qualcuno lo stesse seguendo. Vagliò ancora alcune gallerie, ma l’esito fu identico. Si fece forza e provò ancora e, ogni volta che ritentava, gli pareva di aver già percorso il cunicolo appena imboccato. Giunto in uno slargo, decise di riposarsi per qualche minuto. Era madido di sudore, le rocce avevano provocato sul suo corpo una serie di ferite, alcune anche di una certa gravità. Sedette stanco e adoperò un lembo della biancheria per detergersi la fronte.
L’egiziano serrò l’elsa in pugno. La preda si trovava adesso a pochi passi. Era spossata.
La guida sguainò il pugnale e si mosse rapida. Avrebbe sistemato il gigante in una frazione di secondo, recidendogli la gola. Poi avrebbe nascosto il corpo da qualche parte e sarebbe tornato all’esterno per denunciarne la scomparsa nelle viscere della montagna. Alzò il braccio preparandosi a colpire.
La candela, in quell’istante, si spense. Belzoni si mosse e imprecò. Si rese conto di un movimento accanto a lui e ancora gridò: «Chi va là?»
L’arabo, vistosi ormai scoperto, nascose il pugnale dietro la schiena e disse: «Sono io, effendi. Per fortuna vi ho ritrovato!»
Stava per dire ancora qualche frase per giustificarsi, quando Giovanni lo zittì: «Silenzio, ascolta: sono delle voci!»
I rumori provenivano dall’esterno e adesso, senza il riverbero della candela, Belzoni poteva distinguere nell’oscurità più fitta un chiarore alla fine della galleria che aveva imboccato.
«Forza, in marcia!» ordinò all’arabo. «Siamo ormai vicini all’uscita.»
La guida ripose il pugnale nel fodero e, riassunta l’espressione beota, si mise sulle orme dell’infedele.
Sarah aveva atteso invano sullo spiazzo esterno, davanti all’imboccatura della galleria. Tutti quelli che erano rimasti fuori cercavano di rassicurarla, ma lei era sempre più nervosa col passare delle ore.
«Tranquilla, signora», le aveva suggerito un arabo dall’aspetto poco raccomandabile che parlava un inglese approssimativo. «I miei cugini sono le migliori guide della regione. E adesso sono lì assieme a tuo marito. Avranno trovato qualche impedimento. Tra poco saranno tutti fuori sani e salvi.»
Ma il tempo passava e dal cunicolo non usciva nessuno. E il sole stava tramontando. Sarah era rimasta in piedi vicino al fuoco, lo sguardo fisso nel punto in cui Giovanni le aveva rivolto un affettuoso saluto prima di infilarsi nelle viscere della montagna.
A notte fonda, Sarah ruppe gli indugi e raggiunse un villaggio poco distante per chiedere aiuto. La disperazione non era riuscita a intaccare la sua ferrea volontà.
Per sua fortuna si imbatté in un ex ufficiale francese, uno dei tanti che avevano deciso di rimanere in Egitto dopo la fallimentare campagna napoleonica, e l’ex militare tradusse per i locali le sue accorate richieste.
La donna si rimise in marcia alle prime luci dell’alba con un gruppetto di soccorritori capitanato proprio dal francese che pareva aver preso a cuore la sua disperata situazione.
Erano giunti nei pressi della galleria, quando l’interprete seminudo e spossato corse loro incontro.
«Aiuto! Aiuto!» gridava l’interprete copto agitando le braccia. «Sono tutti prigionieri lì dentro! Io mi ero allontanato con una delle guide, quando l’arabo che era con me ha messo un piede in fallo ed è caduto in un precipizio. Così sono tornato sui miei passi, ma di Belzoni e dell’altro non ho trovato traccia. Dobbiamo tirarli fuori, aiutatemi!» gridava l’interprete disperato, quando il francese, che lo osservava con espressione attenta, parve avere un’illuminazione.
«Vi conosco», disse l’ex ufficiale. «Voi eravate inquadrato nell’Armée d’Orient... addestratore di piccioni viaggiatori. Mi ricordo di voi.»
«Non addestro più animali da molto tempo», rispose l’uomo con un certo imbarazzo.
«Poco importa. Dobbiamo tirare fuori il marito della signora Sarah e l’altra guida», disse il francese impartendo una serie di ordini agli egiziani. «Diamoci da fare, forza!»
Tutto era pronto quando l’attenzione dei soccorritori fu attirata da alcune pietre che stavano franando lungo il costone.
Giovanni aveva raccolto le forze e si era diretto verso lo spiraglio luminoso. Le luci – e il vociare – provenivano da un ammasso di terra e sassi realizzato di fresco. Belzoni prese a spostare alcune pietre con grande foga. Quando, all’esterno, gli altri si resero conto che qualcuno stava cercando una via per sbucare alla luce, corsero a dare manforte per aprire una breccia.
Qualche minuto più tardi Belzoni e la guida superstite erano di nuovo all’aria aperta e il padovano poté finalmente abbracciare l’amata moglie.
Il francese, invece, non appena era caduta l’ultima pietra, aveva ordinato agli altri di tenere sotto stretta sorveglianza la guida e di non lasciare che si allontanasse per nessuna ragione. L’ex ufficiale voleva sapere chi avesse ostruito l’accesso principale alla necropoli sotterranea e per quale motivo.
Messa alle strette, la guida confessò che lui e il fratello avevano architettato quello stratagemma per rendere più difficile l’impresa e scucire a Belzoni un importo maggiore. In quel modo, un arabo dall’aria poco sveglia se la sarebbe cavata con un rimbrotto e, forse, un paio di frustate.
Ma la verità, che nessuno o quasi conosceva, era diversa: le due guide avevano ricevuto la promessa di una consistente ricompensa se Belzoni fosse rimasto nel cuore delle montagne di Gurnah per sempre.
Poche ore più tardi il piccione raggiunse la gabbia a chilometri di distanza dalle montagne. L’animale si lasciò afferrare dalla stretta delicata delle mani amiche. Le dita, febbrili, aprirono il bussolotto d’ottone ed estrassero il messaggio: quel dannato gigante era riuscito ancora una volta a scampare alla morte. Ma aveva solo rimandato l’appuntamento col destino.