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A bordo del Pharaon King, al largo di Alessandria d’Egitto. Aprile 2021

Isam al Akim entrò di slancio nel laboratorio. Con modi perentori chiese a Sara di abbandonare la sua postazione e prese a leggere quanto da lei tradotto e riportato in calce alla biografia stilata da Teie secoli prima.

«Tutto qui?» chiese l’egiziano. «Vorrei sapere se e quando sarà possibile iniziare le ricerche della tomba di Cleopatra. Si dia da fare, dottoressa Terracini.» Il tono era tornato formale, gelido, incattivito dagli ultimi accadimenti.

«Casomai lo avesse scordato, sono i ritmi lenti che consentono agli archeologi di raggiungere i risultati migliori», rispose Sara con un tono calmo. «E si tratta di studi che spesso richiedono del tempo.»

«Veda di arrivare alla fine. Non abbiamo tempo da perdere. La sua fortuna è che io sia impegnato altrove, altrimenti risolveremmo la questione nell’arco di qualche giornata. Le ricordo che il suo amato marito è custodito su questa nave e che ogni suo ritardo nel lavoro si ripercuoterà sulla sua incolumità. Dopodomani sera al più tardi voglio la traduzione completa dell’ultimo pannello, altrimenti inizierò a sopprimere Bernstein. Poi toccherà a Breil.»

 

Toba Oshman si destreggiava ormai con sufficiente dimestichezza nel ventre del Pharaon King. Era riuscita a penetrare nelle cucine e fatto scorta di viveri e bevande, quindi aveva ripreso posto nel suo alloggio: la stanza-intercapedine tra i serbatoi e la lavanderia. Aveva osservato con attenzione la valvola per il campionamento del combustibile ed eseguito alcuni calcoli sulla sua portata. La stanza in cui si trovava era dotata di paratie stagne utili in caso di allagamento. La battuta inferiore della pesante porta si trovava a una dozzina di centimetri dal piano di calpestio della stanza. Toba si accertò che non ci fossero altre vie di fuga e calcolò con discreta precisione il volume che l’invaso sarebbe stato in grado di contenere, prima che il liquido riuscisse a tracimare oltre al bordo della battuta. Alla fine aveva un’espressione soddisfatta in volto. Adesso doveva solo pensare a come tirare fuori dai guai il dottor Breil, la signora Sara e Bernstein. Non era certo un’operazione semplice.

La mente di Breil era in fermento. Per quanto si ingegnasse, non riusciva a trovare una via per fuggire. La stanza era piccola e senza alcuna apertura, fatta eccezione per una grata adibita al passaggio dell’aria dove poteva introdurre a malapena un dito. La porta era solida e la serratura di sicurezza non consentiva scasso.

La prigionia di Sara inquietava oltremodo Oswald. Se lui fosse riuscito a fuggire, sua moglie ne avrebbe pagato le conseguenze: i soccorsi, anche se avvertiti tempestivamente, avrebbero impiegato del tempo prima di raggiungere lo yacht in navigazione. Il piccolo uomo continuava a porsi parecchi interrogativi riguardanti il destino di tutti loro. Domande che convergevano verso la medesima risposta: una volta ottenuto da Sara quello che voleva, Isam al Akim li avrebbe trucidati senza pietà. E la certezza di non avere vie di fuga gettava il prigioniero nella frustrazione dell’impotenza.

 

Sara immaginò le torture alle quali avrebbero sottoposto Oswald e Bernstein se non avesse portato a termine la traduzione nei tempi imposti dal suo carceriere. Per un semplice calcolo di convenienza doveva andare avanti, onde evitare ai suoi ulteriori supplizi. Aveva anche capito che immergersi nelle antiche memorie era l’unico modo per allontanare da lei l’angoscia.

«Forza», si disse mentre lo schermo del computer baluginava accendendosi. «Andiamo avanti e speriamo che le avventure di Teie tengano impegnata la mia mente. Forza!»

Egitto. Autunno 724 a.U.c. (30 a.C.)

Avevano lavorato senza sosta dall’alba al tramonto per mesi. Adesso che l’opera era finita, anche gli schiavi avrebbero goduto di una giornata di riposo.

Un primo contingente era stato allontanato dal sito nei giorni precedenti. Ora rimanevano solo una trentina di uomini: i più esperti, quasi tutti fedeli a Fraat.

Anche i militari romani mostravano segni di stanchezza: tenere a bada un centinaio di schiavi e costringerli a lavorare con tempi ristretti e a quelle temperature non era cosa facile neppure per il più esperto dei veterani. Non restava che smistare i forzati verso le loro destinazioni, sovrintendere alle ultime operazioni di tumulazione dei due ospiti della tomba e, soprattutto, mantenere per sempre il segreto su tutto ciò che avevano visto.

Avevano evitato d’incatenare gli schiavi consegnandoli nelle tende e anche i militari, finalmente, si erano rilassati sotto l’ombra di alcuni alberi bassi e scarni che nascevano spontaneamente nei pressi dello scavo ormai ricoperto.

Soltanto un paio di sentinelle, in divisa e armate di tutto punto, tenevano d’occhio le tende rimaste.

 

«Tu non hai uno sposo, dei figli, Teie?» chiese Leir quella sera.

«No!» rispose brusca la guerriera.

«Che cosa ti turba? Mi sembra una domanda normale...» aggiunse il britanno.

«Hai ragione, Leir, scusami», aggiunse Teie. «Il mio ruolo di ufficiale a fianco di Cleopatra mi ha impedito di avere una famiglia.»

«Deve essere stato un compito assai impegnativo. Non capisco però il velo nei tuoi occhi. Perché questa tristezza, Teie?»

Quel giovane riusciva a guardarle dentro. Tanto valeva aprirsi con lui e raccontargli la verità.

«Ho perso il figlio che portavo in grembo. Era il frutto del solo amore della mia vita: un valoroso ufficiale, assassinato durante una congiura. Oggi, mio figlio avrebbe poco più della tua età. Devo essere sincera, Leir: avrei voluto fosse simile a te, animato dalla tua stessa onestà e dal tuo coraggio.» La guerriera si accorse con una punta di vergogna che la sua voce tremava per la commozione.

Leir alzò lo sguardo verso di lei, la sua voce era invece ferma e ancora piena di rancore: «Ho visto un militare romano sgozzare mia madre dopo averle usato violenza», disse Leir. «Ho cercato quell’uomo per buona parte della mia vita e sono riuscito a portare a termine la mia vendetta pochi giorni prima che i romani mi catturassero. Adesso sai perché sono qui.»

Teie osservò il giovane schiavo, le lacrime rigavano ora anche il suo volto. Gliele deterse con un’affettuosa carezza, poi la donna si riscosse: «Andiamo, Leir. Dobbiamo ispezionare il sepolcro e vedere se tutto è a posto».

 

Il caldo era stato insopportabile per l’intera giornata e, tra gli ospiti del campo, la sera era attesa come un salvifico toccasana.

Fraat aveva fatto capolino, si era sincerato della posizione delle sentinelle e aveva tagliato la tela dalla parte non vista dai due militari. Dopo di che aveva fatto la spola più e più volte tra gli alloggi e il ricovero degli attrezzi da scavo, fornendo ai suoi uomini vanghe, coltelli, scalpelli e picconi. Armi improvvisate, certo, ma nelle mani di assassini che non hanno più nulla da perdere risultavano pericolose forse più di un letale arco siriano.

Col calare della sera l’aria si era fatta più fresca e i militari, radunati attorno al fuoco, avevano cucinato carni speziate e si erano abbandonati finalmente ad abbondanti libagioni. Il comandante del drappello aveva mangiato e bevuto avidamente e, alla fine, era crollato addormentato vicino al recinto in cui era tenuto il mulo necessario per muovere le macchine edili. Russava talmente forte da coprire il vocio degli altri militari.

Le sentinelle aspettavano con impazienza il cambio e speravano che i commilitoni avessero lasciato per loro qualche prelibatezza e alcune brocche del buon vino appena arrivato dalla Campania.

Gli uomini di Fraat strusciarono come serpi nelle ombre della notte che avanzava. Si tenevano in contatto visivo e, a un impercettibile segnale, scattarono in piedi all’unisono, afferrarono con le mani il mento dei soldati poco sotto la cinghia dell’elmo e, con le lame sguainate, recisero la gola dei romani senza che i malcapitati potessero lanciare un grido d’allarme.

Quello era il segnale: Fraat e gli altri schiavi ammutinati presero ad avanzare nell’oscurità verso il bivacco dei soldati.

I militari – quelli non sprofondati nel torpore alcolico – erano radunati nei pressi del fuoco. Ridevano di gusto ogni volta che il fragoroso russare del graduato rompeva il silenzio della notte. Poi riprendevano a raccontarsi scene di battaglia o turpi prestazioni sessuali.

Fraat fu il primo a levarsi in piedi. Le vampe del falò lo facevano assomigliare ancor più a una creatura infernale. I suoi lo seguivano. La sorpresa per i romani fu grande: rimasero fermi, senza capacitarsi subito della minaccia che gravava su di loro. Alcuni riuscirono a prendere le armi e difendersi, ma la superiorità numerica degli ammutinati era schiacciante.

 

Teie e Leir camminavano nella penombra del corridoio d’uscita. L’ispezione al sepolcro si era protratta più del previsto. Ora Teie ne era certa: nessun ladro di tombe avrebbe potuto violare il sonno eterno della sua regina.

«Abbiamo fatto un ottimo lavoro. Adesso dobbiamo portare qui Cleopatra e Antonio. E poi sperare che lo scorrere del tempo aiuti il mondo dei malvagi a dimenticarsi di loro. Dobbiamo anche lasciare una traccia per chi volesse coltivarne il culto e rendere il loro sepolcro un luogo sacro: istruzioni che solo i saggi e i devoti agli dei possano interpretare correttamente», disse Teie con una punta di malinconia nella voce.

«Figure come quelle di Cleopatra fanno già parte della leggenda e il tempo può solo aumentare l’interesse sulla loro travagliata vita», argomentò Leir.

«Appunto per questo le abbiamo garantito un’eternità tranquilla, al fianco di Iside, senza che nessun uomo possa disturbare il suo sonno. Poi, se i posteri vorranno, potranno celebrare la gloria della regina. Adesso usciamo da qui: fuori sarà già notte.»

Leir prese la torcia dal braccio di ferro conficcato nel muro e si avviò lungo le scale.

Fraat e un manipolo dei suoi erano ad aspettarlo alla fine della salita. In pugno i ribelli stringevano le armi sottratte ai romani che avevano appena massacrato.

«Ecco qui il capocantiere e la nostra bella guardiana. Portatelo assieme agli altri e liberiamoci di questo traditore una volta per tutte», disse Fraat, un ghigno sul volto.

Due uomini si misero ai lati di Leir e, strattonandolo, lo costrinsero sotto la minaccia delle armi a muoversi verso la zona dietro al recinto del mulo, dove giacevano accatastati i cadaveri dei militari romani.

Lì gli schiavi ribelli avrebbero eseguito la sentenza di morte.

«Inginocchiati!» disse il greco, passando il pollice sul filo della lama.

In quel momento, il graduato romano che era crollato ubriaco si ridestò. Bofonchiò qualche parola, ma subito fu raggiunto dall’altro schiavo che, senza esitazione, lo trafisse al petto con la sua spada.

Leir approfittò dell’attimo di distrazione generato dal risveglio del militare. Scattò in piedi colpendo con la testa il mento del greco.

Quest’ultimo fece un passo indietro, tenendosi la mascella, la bocca piena di sangue e di frammenti di denti. Leir fu lesto nel disarmarlo e si lanciò senza esitazione verso l’altro schiavo che stava accorrendo.

Il britanno conosceva l’arte della guerra. Scansò un primo affondo, parò un secondo, poi avanzò lui stesso, facendo compiere un semicerchio alla spada. La lama incontrò la gola dell’assalitore. Il sangue prese a fluire dalla ferita grande come una mano. Il ribelle cadde in ginocchio, le mani strette al collo nell’inutile tentativo di arrestare l’emorragia. Poi si accasciò.

Leir si volse per valutare la minaccia del greco. Ma anche quello era crollato a terra sopraffatto dal dolore.

Alcuni degli schiavi che, non lontani, avevano assistito alla scena presero a correre verso di lui. Leir aprì il recinto, con un balzo fu in groppa al mulo e, spronando il docile animale al trotto sostenuto, si allontanò dal sito mentre i ribelli cercavano inutilmente di rincorrerlo.

Fraat sembrava una furia. «Sarai tu a pagare per la fuga del tuo pupillo», disse lo schiavo guardando Teie con occhi di fuoco. «Uomini, legatela a terra!»

Teie fu legata in posizione supina. Cercava inutilmente di dibattersi, ma il solo risultato che otteneva era quello di provocarsi profonde piaghe ai polsi e alle caviglie in corrispondenza dei legacci. Fraat si avvicinò, in mano stringeva un pugnale. «Adesso», sibilò, «ti farò conoscere il paradiso.»

Lo schiavo infilò la lama sotto la veste della donna e l’aprì sul davanti denudandola.

«Lo sai da quanto tempo i miei non vedono una donna? Avrai modo di apprezzare la loro astinenza. Dopo questa meravigliosa esperienza, sarai talmente appagata da non cercare nuovi piaceri. Quindi ti accopperemo e ti lasceremo qui per Leir quando ritornerà a salvarti. Penso che il tuo fidato capomastro stia cercando aiuti. Ma ci vorranno dei giorni prima che riesca a trovarli.»

Il corpo di Teie era illuminato dai bagliori del fuoco. Le gocce di sudore riflettevano le vampe sino a far apparire costellata di riflessi la sua carnagione scura. I seni e il sesso erano esposti alla vista di quel branco di assassini. Fraat indicò un giovane dall’aspetto inquietante e lo sguardo torvo.

«Vieni avanti. Toccherà a te aprire la strada ai tuoi compagni.»

Lo schiavo non si fece ripetere l’invito, alzò il gonnellino e compì i pochi passi che lo separavano dalla prigioniera. S’inginocchiò e, grugnendo come un maiale, tentò di cercare la via verso il suo misero piacere.

Leir sbucò dall’oscurità. La spada stretta in pugno. Come una furia si abbatté sullo stupratore. La lama calò riflettendo i bagliori sul capo dello schiavo. Il colpo fu talmente violento che la spada penetrò nel cranio del ribelle quasi sino al collo, dividendo il suo capo in due.

Teie aveva chiuso gli occhi mentre l’uomo si era adagiato sopra di lei ed era rimasta ad aspettare l’umiliante dolore. Invece gli schizzi di sangue la investirono. Riaprì le palpebre e vide Leir che, come una provvidenziale divinità, stava lottando contro gli schiavi.

Un istante dopo i soldati romani invasero il campo. Erano più di cento. La battaglia durò pochi minuti. Poi, di nuovo, sul sito scese il silenzio.

Leir raccolse i brandelli del vestito e coprì la donna, dopo aver reciso i legacci.

Teie tremava ancora quando la cinse in un abbraccio.

«Adesso calmati, è tutto finito. La mia fortuna è stata d’incontrare poco distante da qui un drappello di soldati. I romani hanno vendicato i loro commilitoni orrendamente trucidati dai ribelli.»

«Purtroppo il capo di questi tagliagole è riuscito a sfuggirci», disse l’ufficiale che comandava i legionari. «Approfittando dell’oscurità si è allontanato con un suo scherano nella notte. Gli altri schiavi hanno invece avuto quello che meritavano.»

 

Solo pochi giorni più tardi, Alessandria apparve agli occhi di Teie come la fine di un incubo. Adesso doveva solo organizzare la traslazione delle salme di Cleopatra e di Antonio alla loro ultima dimora. Poi poteva considerare assolto il suo compito.

 

Ottaviano aveva designato Gaio Cornelio Gallo prefetto d’Egitto già da tempo, anche se l’incarico ufficiale sarebbe arrivato entro qualche mese per ragioni di opportunità politica.

L’ordine che Teie aveva ricevuto da Ottaviano era, una volta ultimato il lavoro, di rivolgersi al prefetto per dare corso alle esequie segrete.

Gallo l’accolse quasi senza farle patire anticamera: una persona segnalata da Ottaviano non poteva aspettare.

«Siamo pronti, governatore», disse Teie. «Fammi consegnare i corpi di Cleopatra e Antonio e provvederò a tumularli.»

«Comunicherò immediatamente la buona notizia a Ottaviano. La stava aspettando. I tuoi conterranei sono pronti a infiammarsi per un nonnulla. Per il fatto che la loro regina non fosse ancora sottoterra assieme al suo stallone minacciavano nuove rivolte», disse il governatore ridacchiando. «Mi fa piacere che tu abbia trovato un luogo idoneo... posso chiederti dove?»

Gallo era un politico dotato di una sconfinata ambizione e si dilettava con buoni risultati nella poesia. La sua brama di potere era tale che spesso si arrogava mansioni proprie di un imperatore e non di un suo delegato.

«Ti chiedo perdono, Gaio Cornelio, stai parlando della regina di un regno antichissimo, alleata di Roma, morta suicida per amore di un grande condottiero romano e madre di un erede di Giulio Cesare. Non spetta certo a me richiamarti al rispetto che è dovuto a Cleopatra. Sul sito del sepolcro, invece, Ottaviano mi ha fatto giurare che a nessuno, tranne che a lui stesso, avrei comunicato il luogo di sepoltura. Mi ha anche ordinato di servirmi dei suoi fedelissimi che ha messo a mia disposizione per ultimare il mio lavoro. Ti chiedo se questi uomini sono pronti.»

«Volevo solo valutare la tua riservatezza, Teie. Il tuo comportamento è stato esemplare. Gli uomini sono a tua disposizione. Posso fare qualche altra cosa per te?»

«Certo, una cosa puoi farla», Teie alzò i suoi occhi neri, circondati da rughe d’esperienza maturata nel vivere al fianco dei potenti. «Cedimi uno schiavo. Si chiama Leir: oltre ad avermi salvato la vita, per me è come un figlio.»

«Dove si trova adesso?» chiese il governatore.

«È qui fuori. Ancora non sa nulla.»

Leir aveva atteso Teie all’esterno della sala delle udienze. Quando il militare romano gli ordinò di entrare, temette fosse successo qualcosa di grave. Invece la donna che trattava lui, schiavo e orfano, come una madre, lo accolse sorridendo.

«Cedo Leir, schiavo di Roma, a Teie, la guerriera Cinnane egizia», disse il governatore con modi solenni.

«E io accolgo lo schiavo che mi ha salvato la vita senza riserva alcuna», disse Teie, mentre Leir, al centro della scena, li osservava spaesato. «Entrato Leir nel mio peculium e avendone assunto la proprietà, lo manometto, alla presenza di testimoni, rinunciando alla potestà che ho su di lui», proseguì Teie. «Da oggi sei un uomo libero, Leir.»

Il fabbro armeggiò qualche istante con i suoi arnesi attorno alla catena che Leir portava al collo, poi, quando le maglie cedettero, Cornelio Gallo disse ad alta voce:

«Chiedo che la volontà del patronus sia annotata nel registro degli schiavi», disse il governatore dando ordine a uno scriba di appuntare il trasferimento di proprietà e la disposizione del nuovo padrone di Leir. «Hai altri desideri, Teie?»

«Sì, chiedo all’uomo libero Leir se accetta di diventare mio figlio adottivo. Io sarò per lui la madre che gli è stata rapita troppo presto. Lui, per me, il figlio che non ho mai messo al mondo.»

Il britanno s’inginocchiò e scoppiò in lacrime. Erano troppe le emozioni in così poco tempo. Teie cercò invece di mantenere un certo contegno davanti al governatore.

Il britanno e la Cinnane avevano colmato il vuoto che albergava nelle loro anime.

 

Il drappello di fedelissimi che si sarebbero occupati del trasporto dei sarcofagi di legno e del prezioso corredo funebre si mise in marcia nel massimo segreto: il popolo non avrebbe dovuto sapere nulla di quella operazione.

Dalla cerimonia, Leir non l’aveva mai abbandonata. Teie pensava che fosse una sua fortuna: averlo al fianco le infondeva sicurezza.

 

Venti giorni più tardi, i due erano di nuovo nei pressi del sepolcro.

Introdurre i due sarcofagi in alabastro fu più semplice del previsto. Poi, gli uomini di Ottaviano condussero le due bare di legno riccamente dipinte nel tempio sotterraneo. Teie e Leir sovraintesero personalmente alle ultime operazioni prima della chiusura della tomba.

La guerriera volle rimanere da sola in compagnia della salma della sua regina. In quei minuti le passò davanti la vita meravigliosa che aveva vissuto al fianco di Cleopatra. Aveva le lacrime agli occhi, quando raggiunse Leir all’esterno.

L’uomo, ormai affrancato dalla schiavitù, strinse teneramente la donna che gli aveva restituito la libertà.

«È finita, Teie. Hai prestato fede al giuramento che formulasti quando la regina venne al mondo.»

«Non ancora, Leir. Devo lasciare una traccia per far conoscere ai posteri la vita della mia regina e, in questo, tu mi potrai essere utile. Ti ho mai parlato del diario che sto componendo da molti anni e che mi farà compagnia nel regno dei morti?»

Licenziati i militari, i due chiusero l’unico accesso al sepolcro e rimasero a presidiare il sito.

«Ancora qualche giorno di lavoro e poi potremo lasciar riposare in pace Antonio e Cleopatra», disse la donna soddisfatta.

 

A quel punto, notò Sara, la calligrafia dell’incisore cambiava. Diventava più incerta, meno precisa. Sembrava anzi che fosse stato steso un nuovo strato di argilla per scrivere quelle poche righe. E infatti la linea di frattura del frammento era proprio in corrispondenza di questo cambio di mano.

«Poco male», pensò Sara, ormai travolta dal succedersi degli eventi. «Andrò avanti senza fermarmi. Sono a un passo dalla soluzione.»

 

Le previsioni di Teie si rivelarono ottimistiche. Ultimare il progetto richiese più di dieci giorni. Ma finalmente i due si abbracciarono felici, mentre contemplavano il loro lavoro ultimato.

«Ho sempre sospettato che tra voi ci fosse del tenero», disse una voce cavernosa alle loro spalle.

«Tu?» chiese sorpreso Leir.

«Certo, mio capomastro. Proprio io. E sono qui a prendere il tesoro che è custodito in quella tomba costruita grazie al mio lavoro. Alza le mani!»

Il perfido Fraat premette con la punta della sua spada sulla gola del britanno. «Adesso scenderemo assieme e voi resterete a tenere compagnia alla regina e al romano. Greco, lega la donna!»

Lo scherano uscì allo scoperto e si avvicinò a Teie con la spada sguainata. Nell’altra mano teneva dei legacci di cuoio.

Teie ebbe un guizzo, mettendo in pratica la sua esperienza di guerriera. Si chinò, uscendo dalla portata della spada del greco, e lo caricò al ventre, la testa incassata tra le spalle.

L’uomo barcollò e il fiato gli proruppe dalla bocca con un sibilo.

Fraat volse istintivamente lo sguardo verso i due in lotta. Leir allungò la gamba e colpì il parto con una ginocchiata sull’elsa della spada. L’arma cadde a terra e, mentre Fraat cercava di rimpossessarsene, le mani del britanno, strette in un maglio letale, calarono tra il capo e il collo dell’avversario.

Le vertebre emisero un sinistro scricchiolio, la testa assunse una posizione innaturale e Fraat rovinò a terra privo di vita.

A quel punto Leir si volse verso la guerriera nello stesso istante in cui Teie, impossessatasi dell’arma del greco, gli trafiggeva il torace.

Il britanno si fece vicino alla donna: «Andiamocene, adesso. Ma che succede, Teie? Sei ferita?»

Solo a quel punto Leir s’accorse del sangue che le macchiava le vesti, la sorresse e, disperato, l’adagiò a terra.

«Non è nulla di grave, Teie. Stai tranquilla.»

«So riconoscere la gravità di una ferita, Leir. Non mi rimane molto tempo da vivere. Portami dove tu sai. Lì dormirò in pace.»

«Non dire così... vedrai...» ma di fronte al pallore della donna, le parole gli si spensero in gola.

«Promettimi che mi porterai nella mia tomba, vicino alle memorie della mia vita. L’ombra... sono solo stata l’ombra di una grande regina...»

«Te lo giuro, madre mia. Te lo giuro», disse Leir abbracciandola, mentre le lacrime gli rigavano il volto...

Mediterraneo. Aprile 2021

Toba Oshman posizionò la lavatrice sulla soglia dell’intercapedine. Regolò con cura il timer e si sincerò che, dopo averne manomesso le sicurezze, la macchina potesse operare senza l’oblò che aveva preventivamente rimosso. Armeggiò con il suo smart-watch, dopo averne messo a nudo il meccanismo; predispose la sveglia e uscì dalla stanza tenendo il braccio ripiegato verso l’alto e la Glock in pugno.

Nel corso delle sue incursioni delle ultime ore, Toba era riuscita a identificare tutti i locali della nave in cui erano tenuti prigionieri i suoi compagni. Nel contempo aveva elaborato il suo piano di fuga. Si trattava di un progetto folle e rischioso. Ma non aveva altra scelta: quasi certamente mancava poco all’esecuzione di Breil e dei suoi.

La prima che avrebbe tentato di liberare sarebbe stata Sara: era in una posizione privilegiata rispetto a quella dei due israeliani, la cui prigione si trovava nel cuore della nave, sotto la linea di galleggiamento.

 

La porta del laboratorio si spalancò all’improvviso. Sara si volse in tempo per vedere il corpo senza vita dell’uomo lasciato a guardia dell’accesso rovinare nella stanza con la gola recisa.

Dietro di lui Toba Oshman stringeva ancora in mano il micidiale pugnale degli incursori israeliani affilato come un rasoio.

«Presto, Sara. Mi segua. Abbiamo poco tempo!» disse la giovane.

Sara non se lo fece ripetere, si alzò dalla scrivania e si lasciò guidare da Toba lungo il labirinto di corridoi della nave.

Era notte fonda e i ponti erano deserti. Toba e Sara raggiunsero senza intoppi il ventre del Pharaon King. L’incursore si acquattò dietro a una porta che divideva un corridoio angusto. Lì, nei locali adibiti ai servizi, gli ambienti erano meno ricercati e lussuosi. Toba provò inutilmente a ruotare la maniglia, l’uomo di guardia a Breil e Bernstein l’aveva chiusa dall’interno.

Toba indossava ancora la divisa che aveva sottratto in lavanderia.

Bussò alla porta chiusa. Dall’interno si sentì uno scalpiccio.

«Chi è?» chiese il carceriere.

«Cibo per i prigionieri», rispose Toba in perfetto arabo.

«Possibile che dalle cucine non riescano a rispettare un orario?» si lamentò il secondino aprendo le mandate. «Ieri sei arrivata con venti minuti di ritardo, stasera con quasi quaranta di anti...»

Le parole gli morirono in gola quando si trovò la pistola di Toba piantata in mezzo agli occhi. Ma fu questione di un momento. Toba caricò la mano armata e colpì il marinaio in piena fronte con il calcio della sua pistola. L’uomo si accasciò privo di sensi.

«Così dormirai per un po’», disse Toba infilando la mano nella tasca dell’uomo a terra alla ricerca delle chiavi delle due celle.

Oswald era seduto sulla branda. Il volto recava ancora i segni delle percosse subite.

Quando sentì la chiave nella toppa, pensò a una nuova incursione di Su’ud. La luce penetrò con violenza nella sua stanza. Oswald aprì gli occhi, preparato a ricevere una nuova serie di colpi dall’egiziano. Invece si trovò davanti le espressioni concitate ma felici di sua moglie e di Toba Oshman.

«Fuori, presto, dottor Breil. Non abbiamo tempo. Intanto io libero il signor Bernstein.»

La nave stava navigando a bassa velocità a circa venti miglia dalla città. I bagliori di Alessandria si specchiavano oltre l’orizzonte nel cielo terso egiziano. Sul Pharaon King regnava il silenzio. Nessuno aveva motivo, oltre alle sentinelle, di restare all’erta.

Toba guidò il terzetto sino a un’uscita d’emergenza situata a poppavia del ponte di comando. Lì un sistema di gonfiabili assicurava ai naufraghi, in caso di emergenza, l’abbandono della nave in tutta sicurezza.

«Pronti?» disse la giovane incursore tenendo stretta una cinghia rossa in mano.

Al cenno di assenso dei compagni rimosse l’ultima sicura e tirò con forza la cinghia.

Lo scivolo gonfiabile uscì dal suo alloggiamento con un rumore simile a uno scoppio. Poi il dispositivo si slanciò fuoribordo, come un braccio di colore arancione che si protraeva dal fianco della nave. Nello stesso istante una zattera di salvataggio, assicurata all’estremità dello scivolo, prese a gonfiarsi. In poco meno di un minuto i potenti compressori di sicurezza avevano reso utilizzabile la struttura d’emergenza.

«Avanti, signora Sara!» disse Toba indicando lo scivolo.

La donna si lasciò cadere senza esitazione, seppure si trovassero a una dozzina di metri sul livello del mare. Poi fu la volta di Breil. Soltanto Bernstein ebbe un tentennamento che fu fugato da Toba con un potente spintone. «Mi scusi, signore!» disse la giovane spingendo Bernstein sullo scivolo. In quello stesso istante l’urlo assordante dell’allarme di bordo violò la tranquillità di una calda serata di primavera nordafricana.

Lo scivolo d’emergenza terminava all’interno dell’autogonfiabile. I quattro israeliani si trovarono, dopo qualche carambola, direttamente imbarcati nella zattera.

«Molli gli ormeggi, Sara!» disse concitata Toba porgendo nel contempo una pagaia ciascuno a Breil e Bernstein. «Adesso allontaniamoci il più possibile.»

 

Una nave di novemila tonnellate di dislocamento lunga più di centoventi metri, pur lanciata a bassa velocità, necessita di spazi considerevoli prima d’invertire la rotta. Appena scattato l’allarme, Su’ud salì in plancia.

«Presto, comandante», disse lo scherano di Isam al Akim. «Non vorrei che i fuggitivi si perdessero nel buio della notte.»

«Nessun problema, signore», rispose il comandante indicando la strumentazione davanti a lui: la zattera era ben visibile sullo schermo del radar. «Non li perderemo per nessun motivo.»

Su’ud aveva un’aria soddisfatta: giocare al gatto col topo lo eccitava a dismisura. Soprattutto quando il gatto stava per sferrare l’attacco mortale.

«Dica al pilota di avviare il rotore», disse ancora Su’ud al comandante, prelevando un fucile automatico M16 dalla rastrelliera nell’armeria di bordo.

Pochi istanti più tardi il maestoso elicottero AW 109 era pronto al decollo.

Su’ud salì a bordo, un’espressione omicida in volto.

 

 

Toba Oshman smise di vogare. Il Pharaon King aveva appena invertito la rotta e stava puntando dritto verso di loro, le luci intermittenti dell’elicottero baluginavano a ridosso del ponte di comando. Ancora pochi minuti e li avrebbero ripresi. Eppure la giovane incursore della Shayetet 13 rimaneva come ipnotizzata a guardare le manovre a bordo dello yacht.

L’elicottero si alzò rumorosamente. Era a pochi metri dalla piazzola di decollo quando l’intera nave ebbe un sussulto, parve librarsi in aria e quindi esplose in una gigantesca palla di fuoco dai bagliori azzurrognoli. L’elicottero fu investito dalla gigantesca fiammata della deflagrazione cui seguì una sventagliata di proiettili infuocati.

«Adesso restiamo giù», disse Toba, invitando gli altri a sdraiarsi sul fondo della zattera. L’onda d’urto arrivò sollevando il mezzo di soccorso dalla superficie, poi, per un raggio di qualche centinaio di metri dal tratto dove incrociava il Pharaon King, si abbatté una pioggia incessante di schegge fiammeggianti.

«Tutto bene?» chiese Oswald. Quando i quattro si affacciarono timidamente al bordo dell’autogonfiabile, ebbero modo di vedere ciò che restava dello splendido yacht inabissarsi tra vampe di fuoco e rumori assordanti.

«Ho temuto che il ’ciclo di lavaggio’ non avesse funzionato», disse Toba mentre la nave scompariva negli abissi.

«Spero ci spiegherà come ci è riuscita, signorina Oshman», disse Breil.

«Il carburante dello yacht è gas naturale liquefatto», rispose Toba. «Un combustibile che, se mantenuto in stoccaggio, alla temperatura di liquefazione di -161 gradi, riduce la sua pericolosità. Come molte delle sostanze volatili, però, ha un bassissimo punto d’ebollizione e si satura allo stato gassoso provocando nubi di vapore ad alto rischio detonante. Ho provocato una perdita di gas liquido da una valvola d’ispezione del serbatoio del Pharaon King. Quando sul pavimento dell’intercapedine si è concentrata una discreta quantità di LNG allo stato liquido, una lavatrice opportunamente modificata ha emesso un getto d’acqua calda innescando un’evaporazione repentina. Poi la mia sveglia da polso ha fatto da timer. E bumm!»

«Credo ci sarebbero rimaste poche ore, signorina Oshman», disse Oswald. «Le dobbiamo la vita.»

La luce di un faro squarciò le tenebre.

«Tutto bene là sotto?» disse la voce amica dell’ammiraglio Grandi. Il Williamsburg era fermo nella notte a poche centinaia di metri dai naufraghi.

Le operazioni di recupero durarono alcuni minuti. I quattro, infreddoliti, si radunarono nel salone, accuditi dagli altri membri dell’equipaggio.

Accogliendo i naufraghi a bordo il comandante del Williamsburg, li salutò calorosamente.

«Ma non eravate a Messina per delle riparazioni, ammiraglio Grandi?» disse Oswald tenendo una tazza di caffè caldo tra le mani.

«Appena la signorina Oshman mi ha contattato con il suo telefono riferendomi che cosa stava accadendo, abbiamo mollato gli ormeggi. Ho tirato il collo ai nostri motori, ma questa signora del mare ha risposto prontamente a ogni sollecitazione volando letteralmente sulle onde. Ci siamo tenuti in costante contatto telefonico con Toba e le confesso che eravamo pronti a intervenire con i nostri sistemi missilistici di bordo. Per fortuna non ce n’è stato bisogno. Anche perché il nostro intervento avrebbe quasi certamente pregiudicato la salvezza dei passeggeri. La schermatura Stealth di cui è dotata la nostra nave ci ha reso invisibili al radar dei faraoni. Benvenuto a bordo, signore!»

Sara si sistemò la coperta sulle spalle, sollevò i suoi occhi neri cerchiati da ombre di stanchezza. Si alzò e sedette vicino a Oswald. Lo baciò teneramente sulla bocca e disse: «Avevi ragione, Oswald».

«Ti posso dire, in confidenza, che a me quel cicisbeo egiziano mascherato da archeologo non è mai piaciuto?»

«Ho solo un rammarico, sai, Breil?» disse Sara. «Ormai ero a un passo dalla fine dell’avvincente storia di Teie. Con il Pharaon King in pezzi non sapremo mai la verità sul sepolcro di Antonio e Cleopatra.»

«Ne sei proprio sicura? Signorina Oshman, può mostrare a mia moglie quello che le ho consegnato a Padova, nell’auto dove si era nascosta?» disse Breil.

Toba slacciò un marsupio stagno che portava in vita. Lì custodiva le cose che reputava più utili, come la sua pistola e il suo coltello da incursore, e proprio lì aveva messo i disegni che Breil le aveva passato nelle fessure del sedile sul van che li stava portando dal Caffè Pedrocchi all’elicottero.

Sara osservò sorpresa le carte: esaminò i fogli ingialliti uno a uno, quindi esclamò. «Eccolo! Questo è il disegno dell’ultimo frammento. Sembra abbastanza fedele, almeno da quello che mi ricordo...»

Sara assunse un’aria seria e ripeté le parole con cui aveva concluso la sua traduzione a bordo del Pharaon King. Quindi, a braccio, tradusse le ultime righe.

«’L’ombra... sono solo stata l’ombra di una grande regina...’»

«’Te lo giuro, madre mia. Te lo giuro, disse Leir abbracciandola, mentre le lacrime gli rigavano il volto...’»

Sara esitò un istante, la voce rotta dall’emozione, poi proseguì.

«’Riposa in pace, madre, che la tua vita onesta e coraggiosa ti accompagni quando ti presenterai agli dei dell’aldilà. Riposa come la regina per la quale hai lottato sino all’ultimo respiro, lasciandomi ancora una volta solo in questo mondo. Le stelle dell’universo veglino sul sonno di Antonio e di Cleopatra. Chi plasma l’uovo indicherà il cammino a chi vorrà conoscere il segreto.’»

Il Pharaon King

Il Pharaon King

L'ombra di Iside
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