8

 

Egitto. 1816

Nella capitale egiziana, a seguito delle riforme volute da Mehmet Alì nelle forze armate, erano scoppiati dei sanguinosi tumulti. Come spesso accade nei momenti di tensione, c’era chi approfittava del caos per regolare i propri conti in sospeso. Gli integralisti egiziani si accanivano così con gli infedeli, nella speranza di indurli a lasciare il Paese a suon di attentati e di omicidi efferati.

Belzoni si recò presso il consolato, per siglare ufficialmente il corposo contratto per il trasporto del colosso dai deserti di Tebe sino ad Alessandria e, dal porto sul Mediterraneo, in Inghilterra.

«’Il signor Belzoni avrà i più ampi poteri per scegliere tutti i mezzi che riterrà opportuni, così da poter effettuare lo spostamento del monumento. A lui saranno riconosciute le spese per materiale e manodopera e sarà accompagnato da un soldato che preserverà lui e i componenti della spedizione dai pericoli dovuti a malintenzionati.’»

«Non vi pare eccessivo, console Salt?» chiese Giovanni prima di apporre la propria firma.

«Gli episodi d’intolleranza verso i cittadini europei si ripetono con preoccupante frequenza. Meglio essere prudenti. E, se posso permettermi un consiglio, imparate da Burckhardt: lo sapete che il suo soprannome, ’lo sceicco’, si riferisce al suo modo di vestire e comportarsi da indigeno? Con quella marsina e quel cilindro sul capo, mio buon amico, profumate di infedele lontano chilometri. Abbigliatevi come questa gente e darete meno nell’occhio. Forse sarà sufficiente perché risulti inutile la guardia del corpo che avrete al fianco. Credetemi, Belzoni, non è tempo di farsi notare.»

Giovanni uscì dal consolato, la copia del prezioso contratto in una tasca interna della giacca. Era talmente felice che ogni strada del Cairo gli pareva in festa. Forse per questo motivo non si accorse dell’uomo travestito da militare che lo stava seguendo.

Giovanni avanzava tra la moltitudine di persone che affollavano le vie cittadine in sella al suo fedele asinello, la cavalcatura più usata a quelle latitudini.

Il falso militare valutò la statura: sarebbe stato difficile riuscire a tagliare la gola al gigante mentre stava in groppa all’asino. Chi gli aveva commissionato l’omicidio si era raccomandato che apparisse come una vendetta contro gli infedeli. Doveva trovare un modo per farlo abbassare, pensò l’assassino. E così si fece vicino all’asino, spiccò un salto e menò un pugno a Belzoni alla bocca dello stomaco. Il padovano parve non accusare la percossa e, invece d’inchinarsi, reagì d’istinto allontanando l’assalitore con una manata. L’uomo cadde a terra e, maldestramente, nella furia dell’inaspettata colluttazione perse il coltello.

Belzoni aveva in mano il frustino e menò un colpo al volto dell’egiziano proprio mentre questi accennava ad alzarsi. A quel punto il falso militare estrasse la pistola e prese la mira. Belzoni fu rapido a raggomitolarsi, così il proiettile gli colpì il cappello a cilindro facendolo volare via e gli bruciacchiò una ciocca di capelli.

Il sicario, approfittando del panico tra i presenti, si allontanò coperto dalla folla.

«Non è tempo di farsi notare», ripeté Belzoni raccogliendo da terra il cappello sforacchiato.

Da quel preciso momento ebbe inizio la sua incredibile avventura egiziana.

 

«Come ti sembro, Sarah?» chiese Belzoni entrando d’un balzo nella sala della loro casa.

«Se non fosse per la tua mole e per la tua barba, avrei stentato a riconoscerti. Ma che cosa ti sei messo addosso? Sembri... un mercante turco.»

Belzoni indossava un turbante dai colori accesi e uno scamiciato bianco sopra a un corpetto color sabbia del deserto. I pantaloni, dal cavallo basso, erano realizzati nello stesso lino e colore della casacca.

«Vorrei proprio essere scambiato per un indigeno. Non voglio correre ancora una volta il rischio di essere impallinato da un fanatico.»

«Sei ancora convinto che si sia trattato del gesto isolato di un folle?»

«Continui a vedere complotti ovunque, Sarah?»

«Non vedo complotti, guardo solo molto attentamente le cose. Comunque, cerchiamo di non pensarci.»

«Invece, io penso che sia tempo di levare le tende da questa città caotica e pericolosa. Perché non risaliamo il Nilo sino a Tebe? Potremmo imbarcarci nei prossimi giorni dal porto di Bulaq.»

«Spero non mi lascerete qui. Anche se non sono ancora in piena forma», disse il giovane James entrando nella sala. In mano stringeva una stampella che lo aiutava a camminare ma, tutto sommato, si muoveva abbastanza bene.

 

«Non sono riuscito a trovare di meglio, signor Belzoni», disse il console Salt che era venuto a salutarli prima della partenza, indicando la feluca.

«Ce ne faremo una ragione, eccellenza. L’importante è che, per il ritorno, si possa recuperare una nave in grado di sopportare il peso del busto di Memnone.»

«Intanto preoccupatevi di smuoverlo dal sito ove giace. Non sottovalutate il colosso: sembra che nulla riesca a strapparlo dalle sue radici. Siete riuscito a trovare il materiale che cercavate?»

«Solo una minima parte», rispose Giovanni. «Ho fatto caricare a bordo pali e cime di foglie di palma intrecciate. Spero di riuscire a reperire in loco altri materiali necessari per il trasporto.»

«Vi autorizzo ad acquistare qualsiasi cosa vi sia utile. Eccovi del denaro per farlo, oltre a quello necessario per fronteggiare le spese di trasporto. Me ne renderete conto al vostro ritorno. Fate buon viaggio!»

L’imbarcazione che li attendeva era una feluca di dimensioni ragguardevoli e dotata di due vele latine. Si trattava però di un guscio vecchio e malandato che imbarcava acqua dalla chiglia, tanto da dover tenere un marinaio fisso ad azionare la pompa di sentina a mano e altri, all’occorrenza, a vuotare lo scafo con sassole e secchi. L’equipaggio, poi, sembrava eccitato dalla presenza di una donna bianca a bordo. Così, dopo solo qualche ora, anche Sarah e James indossarono abiti indigeni per non accendere le fantasie dei marinai.

Il 30 giugno 1816 la feluca con a bordo i due coniugi, il loro servitore e Shomu, l’interprete, mollò gli ormeggi dal porto del Cairo.

 

Manfalut distava poco più di trecento chilometri. Non appena la vela gettò le cime a terra, un ufficiale e la sua scorta salirono a bordo.

Il militare parlò brevemente con l’interprete e si rivolse a Belzoni in un inglese stentato: «Siete atteso da Ibrahim pascià, signor Belzoni».

«Siete certo che sia proprio io l’ospite che state aspettando? Noi siamo partiti solo pochi giorni fa dal Cairo...»

«... ma la vostra fama vi ha preceduto, effendi.»

Ibrahim era il governatore dell’Alto Egitto, nonché figlio di Mehmet. Si diceva che, dal padre, avesse ereditato ogni lato negativo e che fosse dotato di una ferocia senza pari. Usava disfarsi dei nemici legandoli alla bocca di un cannone prima di sparare un colpo.

Quando Giovanni giunse nella sala delle udienze, il governatore era a colloquio con un europeo. Il padovano non lo riconobbe subito. S’inchinò davanti al pascià e poi girò la testa, senza riuscire a quel punto a nascondere il proprio stupore.

«Signor Drovetti?» esclamò in italiano. «Questa sì che è una bella sorpresa.»

«Sapevo che le nostre strade si sarebbero di nuovo incrociate. Ho chiesto a sua eccellenza di ospitarmi sino al vostro arrivo ed eccoci qui», rispose l’altro.

Il funzionario francese si alzò educatamente e gli tese la mano. Belzoni percepì in quella stretta una certa distanza, per non dire un impercettibile risentimento.

«Ho saputo di questa vostra missione», disse il piemontese con tono quasi canzonatorio. «Non affaticatevi: la testa di Memnone rimarrà lì dov’è. Nessuno è mai riuscito a smuoverla, e vi assicuro che i tentativi sono stati molti.»

«Vedo che le notizie viaggiano più veloci della più rapida tra le feluche», disse Belzoni accarezzandosi la barba che si era lasciato crescere all’orientale. «Neppure chilometri e chilometri di deserto riescono a custodire i segreti.»

«L’incarico che avete ricevuto dal console Salt non è certo riservato. Solo che si tratta di un trasporto assai difficile, quasi impossibile. Mi pare normale che, all’interno di certi ambienti, se ne parli. Permettetemi d’insistere: lasciate perdere.»

Ibrahim restava in silenzio e assisteva alla conversazione come l’arbitro di una tenzone. L’interprete traduceva per lui ogni parola.

«Avrò modo e tempo per dichiarare il mio fallimento, signor Drovetti. Per ora mi sento motivato dal più intenso entusiasmo per questa nuova sfida. Ditemi di voi, piuttosto.»

«Rientro da una proficua spedizione in quel di Tebe. Ho raccolto opere di grande valore che credo finiranno a Parigi: la sconfitta dell’impero di Francia sta facendo sentire i suoi effetti ovunque. Almeno cinquemila capolavori d’arte, razziati nel corso delle campagne napoleoniche, verranno restituiti ai loro proprietari. Per questo motivo è in atto una vera e propria corsa per riempire nuovamente le sale del Louvre – e non solo quelle – con opere d’origine ’legale’. Non vorrete farmi concorrenza sul campo? Vi ricordo che si tratta di un terreno insidioso.»

Drovetti pronunciò le ultime parole con un tono perentorio. Il piemontese era un navigato uomo di mondo e, come tale, ben conosceva ogni metodo per dissuadere i potenziali rivali. Lasciò trascorrere qualche istante e continuò: «La manovalanza locale vi provocherà non pochi grattacapi. I fellah tebani sono i peggiori scansafatiche che si possano trovare nel territorio egiziano. Volete una prova? Ho rinvenuto il prezioso coperchio di un sarcofago in una tomba e si son rifiutati di trasportarlo. È vostro, Belzoni. Ve lo regalo. In questa maniera spero di riuscire ad alleviare la vostra delusione quando non riuscirete a rimuovere il busto. Mi auguro anche», lo sguardo del piemontese si fece profondo e minaccioso, «di farvi così desistere dall’intraprendere un commercio difficile e pericoloso».

Belzoni finse di accettare il suggerimento. Ma ci voleva ben altro per intimorire il Sansone di Patagonia.

Giovanni si rivolse a Ibrahim consegnandogli i firmami, i permessi necessari per effettuare scavi e asportare materiale archeologico. «Il console Salt mi ha chiesto di presentarvi queste carte, eccellenza. Sono a firma di vostro padre Mehmet Alì pascià.»

Il governatore scorse le carte e le convalidò scrivendo di suo pugno gli ordini per il cacheff, il capopopolo della provincia di Tebe.

Si stavano accomiatando e Giovanni voleva rivolgere al governatore dell’Alto Egitto alcune parole di stima. Ma il suo ridotto vocabolario non gli consentiva di esprimersi come avrebbe voluto. Si volse allora alla sua destra, dove Shomu, l’interprete, era rimasto per tutta la durata della riunione. Non trovandolo nella sua postazione, lo sguardo del padovano spaziò nella grande sala. Dopo pochi minuti, lo vide rientrare e rimettersi subito al suo fianco.

 

Luxor li accolse dopo ventidue giorni di navigazione. L’interno della bagnarola era tutto uno sciabordare d’acqua, tanto che gli europei erano stati costretti a sollevare dal paiolato dei loro alloggi tutto ciò che fosse di valore o temesse l’umidità.

Lo sbarco avvenne come una liberazione.

«Vieni, Sarah», disse Giovanni in preda a un’esuberanza infantile. «Andiamo a visitare le meraviglie della civiltà egizia a Tebe.»

Non appena raggiunto il sito archeologico, Sarah capì il motivo di quell’entusiasmo. Belzoni aveva avuto modo di vedere i disegni dei viaggiatori che ritraevano con fedeltà assoluta i templi e i colonnati. Il gigante si aggirava tra i monumenti abbandonati accanto a montagne di sabbia. Due obelischi alti più di venti metri erano posti a guardia della grande via che s’inoltrava, tra colonne colossali e statue alte come torri, nei meandri di una Storia millenaria. L’animo da pioniere di Giovanni Battista ebbe un sussulto: «Guarda qui, Sarah», disse varcate le mura dell’antica città. «Non ti sembra di entrare in un mondo costruito da inauditi giganti? Tutto è così sproporzionato e sembra impossibile che una civiltà antica di millenni sia riuscita a innalzare opere di tale imponenza.»

Sarah sorrise: persino un omone come suo marito sembrava una miniatura in quella scenografia.

«Anche io ho già detto qualche cosa di simile, Giovanni... Solo che quando è successo davanti alle piramidi hai risposto con la tua solita tracotanza!» scherzò Sarah. «Comunque hai ragione: spesso la logica non riesce a dare spiegazioni plausibili a quello che incontriamo.»

La donna alzò lo sguardo. Il sole cocente dei deserti aveva inscurito persino la sua pelle così chiara segnando i suoi lineamenti. Il vento caldo s’insinuava tra le vestigia abbandonate scompigliandole i capelli: quell’inguaribile testardo di Giovanni era andato a cacciarsi in una nuova e difficile prova. Le premesse non erano incoraggianti: per riuscire dove tutti avevano fallito era necessaria una buona dose di incoscienza e presunzione. Ma forse era proprio questa la linfa della sua vita e di quella di Belzoni: misurarsi ogni volta con l’impossibile, sfidarlo per averne ragione. Sarah volse lo sguardo in direzione del gigante punzecchiando amorevolmente il suo orgoglio.

«Pensa a quello che dovrai trasportare sino ad Alessandria...» disse indicando il maestoso tempio poco distante. «A quanto dice il console Salt la scultura di granito dovrebbe trovarsi là, nel Memnonio.»

Belzoni si guardava attorno estasiato. Ovunque, nelle pareti del tempio, erano scolpite scene di grandi battaglie e di vita a corte. Anche le colonne – in piedi ne restava la maggioranza, una quarantina in tutto – erano istoriate.

«Come si chiama questo posto?» chiese Giovanni all’interprete.

«Lo chiamiamo Casa di milioni di anni», rispose Shomu il copto. «I francesi sono convinti si tratti di un tempio eretto a gloria di un faraone.»

«Chissà chi era quel sovrano...» disse Giovanni oltrepassando il colonnato per accedere alla prima corte. Qui era collocato un busto simile a quello che gli aveva descritto il console. Ma era a testa in giù. Il padovano proseguì seguendo le precise istruzioni di Salt e, appena entrato nella seconda corte, indicò la scultura semisommersa dalla sabbia. «Eccola!» esclamò.

La testa giaceva a terra, quasi ai piedi del corpo da cui era stata divelta, probabilmente con una carica d’esplosivo piazzata proprio dalle truppe di Napoleone. Aveva il viso rivolto verso l’alto e un’espressione sognante, un sorriso enigmatico piegava le sue labbra di pietra. Con una maestria e una precisione sorprendenti, era stata scolpita in un granito a due colori.

Giovanni s’inginocchiò accanto al busto, vi posò la mano destra e percepì il calore accumulato dalla pietra con l’esposizione al sole. Il padovano si sentì percorso da un fremito: sembrava che il granito fosse vivo. Osservò il sorriso e disse rivolto a Sarah: «Vedi, anche lui è felice di intraprendere il viaggio che lo porterà in trionfo sino a Londra. Forza, diamoci da fare».

Adesso servivano braccia robuste per affrontare l’impresa. Giovanni decise di rivolgersi, con tanto di credenziali avute dal viceré, al governatore locale.

«Vi invito a ripensarci, signore», gli disse il governatore. «Il Nilo sta per esondare e tutta la manodopera disponibile è stata arruolata dai possidenti locali per cospargere le terre di limo.»

«Perdonate, eccellenza», disse Belzoni, le cui parole venivano tradotte dall’onnipresente interprete copto. «Ho visto una gran moltitudine di persone bighellonare lungo le vie. Offro una buona paga.»

«Quello che proponete è un lavoro pesante. La gente che avete visto non è abituata a faticare. Il clima estivo non favorisce certe occupazioni. Soprassedete, Belzoni. Magari con la prossima stagione...» disse ancora il governatore.

«Ho preso un impegno, eccellenza, e ho intenzione di portarlo a termine. Mi occuperò io stesso del reclutamento. Voi mandatemi dei manovali e ci penserò io a offrire le dovute garanzie.»

Ma i giorni passavano e nessuno si presentava per farsi arruolare.

Giovanni ottenne alfine una lettera dal governatore per il camaican, responsabile della provincia, sotto la cui giurisdizione aveva sede il Memnonio. Così i primi operai si presentarono alla spicciolata. Belzoni non ebbe esitazione a proporre paga doppia per chiunque si fosse imbarcato nell’impresa e, in breve, le maestranze raggiunsero un numero sufficiente per le sue necessità.

 

James continuava a girare attorno alla scultura. Da quando erano stati ultimati gli arruolamenti della manodopera, il giovane l’aveva misurata più volte in lungo e in largo e aveva concluso che il peso poteva essere ben superiore alle sette tonnellate e mezzo.

«Forse», disse James indicando il foro nel petto del busto, «se infilassimo una barra d’acciaio nel buco fatto dai francesi, avremmo trovato finalmente un punto d’appoggio per sollevarla. Sono tonnellate di roccia levigata e senza alcuna presa, signor Giovanni.»

Belzoni sorrise, accarezzò i bordi del foro scavato a metà strada tra i pettorali e la spalla della statua. «Nessuno ha detto che è obbligatorio sollevarla per portarla via. Forse è questo il primo madornale errore di chi, prima di noi, si è cimentato nell’impresa.»

«Non capisco che cosa intendiate, signore. Se non la solleviamo da quel mucchio di sabbia, come faremo a trasportarla?»

«Sarà proprio agendo su quel mucchio di sabbia che potremo smuoverla. Fai venire qui il carpentiere, James.»

Il falegname era stato arruolato nel corso della breve sosta a Luxor. Era di nazionalità greca, piccolo, scuro e di poche parole.

Il greco si attenne alle istruzioni ricevute e inserì un palo sotto il busto, dopo aver scalzato la sabbia. Lo puntellò facendo in modo che non sprofondasse e ripeté l’operazione dal lato opposto della statua di granito. Altri uomini tenevano in posizione la scultura affinché non scivolasse di lato.

Così facendo aveva dato stabilità al monolite e poteva operare sotto di esso. In meno di una giornata di lavoro il greco era riuscito a infilare quella che chiamava «zattera di travi» sotto alla testa. Di lì a qualche ora, nello scavo sotto alla zattera, furono inseriti dei rulli che sarebbero serviti per lo scivolamento. Nel frattempo alcuni fellah rimuovevano la sabbia lungo la direzione di marcia per costruire una rampa fatta di materiale compatto.

Quando finalmente il lato di traino fu libero, gli uomini reclutati da Belzoni – un’ottantina in tutto – misero mano alle cime di foglie di palme intrecciate e iniziarono a tirare. Lo stesso Belzoni aveva provveduto a calibrare le forze con uniformità lungo il fronte. Il giovane Memnone subì un primo strattone, il sole mutò le ombre sul volto millenario, facendo apparire il sorriso della statua ancora più radioso. O forse fu solo l’impressione di Giovanni Battista Belzoni, mentre il busto iniziava il suo lungo viaggio verso la meta.

La zattera, seppure a fatica, scivolava sui rulli e ogni volta che un pilone fuoriusciva dal lato posteriore una coppia di manovali lo sollevava e lo disponeva nella parte anteriore per un nuovo rotolamento. Altri fellah, invece, si occupavano di indirizzare il busto lungo la direzione desiderata con delle leve.

Belzoni, però, a quel punto cominciò a temere che il fato stesse per giocargli un brutto tiro: era stato tutto così facile. Forse troppo. Lui, con una quindicina di pali e travetti, quattro corde di fibra di palma e quattro rulli, era riuscito dove un’armata – quella d’Egitto di Napoleone – e una spedizione inglese avevano fallito. Forse il suo istinto gli lasciava intendere che il malcontento stesse serpeggiando tra gli uomini, ma anche il tempo che l’interprete copto trascorreva con gli operai a discutere in maniera animata non gli piaceva.

Mentre il monolite guadagnava metri verso il fiume, tra gli operai cominciò a maturare la convinzione che quel busto fosse imbottito d’oro e gemme. La prova dell’esistenza del tesoro era data dalla tenacia con cui gli infedeli cercavano in ogni modo di portarselo via.

«Vogliono dell’altro denaro, signore», disse una sera l’interprete, dopo che la scultura aveva percorso circa trecento metri in quello stesso giorno. «E non solo. Molti minacciano di lasciare il posto di lavoro: non vogliono che il Caphany abbandoni le loro terre. Sono convinti che ciò si tradurrebbe in una sventura per l’Egitto intero.»

«Digli che sono disposto a dare loro qualche soldo in più quando arriveremo alla riva del fiume», promise il padovano.

«Ci proverò, effendi...» l’interprete, sconsolato, allargò le braccia. Belzoni serrò i pugni, ma mantenne la calma: sembrava quasi che Shomu in realtà fosse soddisfatto ogni volta che si presentava una difficoltà con quegli scansafatiche.

L’indomani, come sempre, Giovanni era in piedi già prima dell’alba: con le temperature che si raggiungevano durante la giornata, le prime ore del mattino erano le più proficue.

Abbandonò il ricovero tra le mura del tempio che li ospitava e si avviò verso il busto per impartire le istruzioni per quella giornata. Raggiunta la zattera, si rese conto che nessuno degli operai si era presentato al lavoro. La testa di Memnone giaceva al centro della pista battuta per il trasporto, le corde abbandonate a terra. Belzoni fu assalito da una pressante preoccupazione: di lì a pochi giorni – forse ore – lo straripamento del Nilo avrebbe invaso quei terreni e il busto sarebbe finito sott’acqua. E non ci sarebbe stato modo di recuperarlo sino alla nuova stagione. Sempre ammesso che i movimenti del fondale non lo insabbiassero per sempre.

«Qual è il motivo di questa diserzione?» chiese Belzoni all’interprete. «Se vogliono una paga maggiore, di’ pure loro che, raggiunta la sponda del fiume, avranno quello che chiedono.»

«Non sembra una questione economica», mormorò l’interprete. «Pare sia stato un ordine del camaican

Belzoni non ci pensò un minuto di troppo e, montato un cammello, si mosse verso la città di Luxor.

Dovette faticare non poco per rintracciare il capotribù. Quando finalmente lo ebbe davanti, Giovanni usò ogni cautela per non urtare la suscettibilità dell’egiziano.

«Ho promesso un consistente bakshish, se gli uomini porteranno a termine...»

«Voi infedeli riducete tutto a una questione di denari.»

«Perdonate, nobile camaican. Pensavo fosse quello il motivo della diserzione.»

«Diserzione?» disse l’egiziano inalberandosi. «Le ragioni sono ben altre. Voi, infedeli e blasfemi, state cercando di spogliare il nostro Paese. Attentate alle sue origini. Il dovere di ogni buon musulmano è quello di impedirvelo. O almeno di non essere vostro complice...»

«Vi chiedo perdono, eccellenza. Sono, però, in possesso di autorizzazioni recanti la firma del viceré d’Egitto...»

«Quei firmami son solo carta straccia nella terra dove comando io!» ribatté il camaican in tono esagitato. «Tanto più che, prima di avere una semplice risposta dal Cairo, vi sarebbe necessario almeno un mese. E, nel frattempo, il vostro tesoro si troverebbe sul fondo del fiume.»

Belzoni perse le staffe. Aveva deciso di abbandonare le buone maniere e farsi sentire.

«Voi non avete l’autorità per...»

S’interruppe quando il capotribù mise mano all’elsa della spada che portava al fianco e la sguainò. Lo sguardo dell’egiziano si fece malvagio, mentre avanzava dicendo: «Adesso vi farò vedere io, cane infedele, quale autorità posseggo» e mosse qualche passo tenendo alta la guardia.

Fu forse la reazione del padovano a causare un moto di incertezza nel suo avversario.

Belzoni non si scompose: rimase fermo, ben piantato sui piedi ad aspettare la carica dell’altro. Assalto che arrivò puntuale, ma che non riuscì a impensierire un osso duro come Giovanni. Il padovano scartò di lato e, mentre sfilava, lasciò partire un colpo possente col taglio del suo pugno sulla nuca dell’avversario.

Il camaican vacillò e faticò non poco per restare eretto. Belzoni gli fu addosso, tempestandolo di pugni, al punto che, costretto al muro, il capotribù prese a urlare atterrito: «Basta, ve ne prego! Non uccidetemi. Io ho solo obbedito al governatore!»

Il trasporto verso il fiume Nilo del busto del faraone

Il trasporto verso il fiume Nilo del busto del faraone

Il cacheff, il governatore turco di Erment, a differenza del suo sottoposto era più avvezzo alle tecniche della diplomazia. Belzoni sapeva però di non potersi fidare di lui. Quindi, invece di ricorrere alla propria forza erculea, decise di blandire il cacheff con le lusinghe e con la promessa di un lauto bakshish. A quel punto il turco gli giurò amicizia e fedeltà. E forse, proprio a testimoniare le radici del neonato rapporto, il governatore si lasciò andare a una confidenza: «Gli echi del successo della vostra impresa, Belzoni», disse il cacheff, «sono in grado di sorvolare i deserti e arrivare alle orecchie di chi vi teme.»

«Non capisco che cosa intendiate, eccellenza», Giovanni sapeva bene invece a chi faceva riferimento l’arabo, ma voleva capire sino a che punto il nuovo complice gli avrebbe rivelato i suoi segreti.

«Non siamo dei selvaggi, comunque voi occidentali la pensiate. E negli affari abbiamo delle capacità indiscutibili che derivano da esperienze millenarie nei commerci», ribadì il turco. «Non siamo neppure così ingenui da non fiutare che si celi un affare di grandi proporzioni nell’interesse dell’Occidente verso i reperti dei nostri avi. Noi vi lasciamo spogliare il Paese convinti che oggi sia più utile incamerare denaro invece di tenere dei blocchi di granito che giacciono da millenni nelle sabbie. E restiamo perfino alla finestra quando si accendono gelosie e rivalità tra coloro che ne bramano il possesso. Meglio non parteggiare per nessuno. A meno che non si venga a instaurare una solida amicizia come quella che ci lega!» Il cacheff mise entrambe le mani sulle ginocchia di Belzoni. Quel gesto valeva anche come commiato: il turco non avrebbe detto altro e non gli avrebbe svelato chi fosse il misterioso «concorrente» che aveva fatto pressioni per impedire il trasporto del busto di granito. Anche se la rosa dei nomi possibili era, per il padovano, ridotta a una sola persona: Drovetti.

 

Il battito d’ali mise l’egiziano in stato d’allerta. Poi i piccioni presenti nella voliera emisero suoni gutturali con notevole frequenza. L’uomo individuò quello che gli interessava e infilò la mano nella piccionaia. Accarezzò l’animale che vi era appena entrato, lo tranquillizzò e lo strinse delicatamente all’altezza delle ali. Il volatile non accennò reazione mentre veniva estratto dalla gabbia. L’egiziano svitò il tappo del piccolo astuccio d’ottone fissato alla zampa e ne estrasse il messaggio ripiegato. Pochi istanti più tardi, il messaggio, scritto in lingua francese, era sulla scrivania. Le mani dell’egiziano dispiegarono il foglietto e l’uomo ne lesse il contenuto, sussurrandolo con un filo di voce: «’Gli uomini hanno ripreso il lavoro. Il busto è ormai a pochi metri dalla riva’».

L’uomo si lasciò andare a un gesto di disappunto. Prese un foglietto identico a quello appena ricevuto e vi scrisse sopra la risposta. Poi piegò la carta in modo preciso, sino a ottenere un cilindro da inserire nella custodia d’ottone.

«Limitatevi a tenere d’occhio il gigante e tenetemi informato», era scritto nel messaggio affidato nuovamente al piccione viaggiatore.

«Belzoni aveva vinto la prima mano di quella partita. Ma poteva anche aver giocato le carte a loro favore», pensò l’egiziano. «Quel cane infedele stava avendo la meglio. E, soprattutto, ci riusciva senza far confluire un fiume di denaro nelle sue tasche, un fiume che altri, sino a quel momento, gli avevano sempre assicurato.»

L’egiziano si riscosse e un sorriso malvagio gli si dipinse in viso: non sarebbe stato facile per Belzoni trovare una barca capace di trasportare Memnone. E il busto abbandonato lungo la riva del fiume era una facile preda per chi, invece, fosse stato in possesso di un mezzo di trasporto idoneo. Doveva correre ai ripari e chiedere consiglio al suo unico alleato in quella lotta senza esclusione di colpi.

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