12
Egitto. Sul finire dell’agosto 1816
Il caldo rendeva difficoltoso persino il respiro e neppure le acque del Grande fiume erano in grado di stemperare l’arsura. La brezza, torrida e secca, gonfiava la vela e spingeva da poppa il battello che risaliva la corrente.
Belzoni si era imbarcato con Sarah, l’interprete Shomu e la guardia armata che il console Salt aveva voluto al suo fianco.
«Per la vostra incolumità», aveva commentato Salt. Come se quel nero strabico e armato di uno schioppo antidiluviano avesse potuto fermare una ribellione di focosi egiziani.
Le confidenze ricevute al Cairo da Burckhardt avevano contribuito a infiammare la miccia: «Ad Abu Simbel, dopo un’ansa del fiume, si trova un gigantesco tempio il cui ingresso è protetto da quattro colossali statue», aveva confessato lo svizzero a Giovanni una sera, alcuni mesi prima.
«Che cosa c’è all’interno?» aveva allora chiesto Belzoni divorato dalla curiosità.
«Purtroppo lo ignoro, amico mio», aveva detto Burckhardt allargando le braccia. «La struttura è quasi interamente sommersa dalla sabbia fatta colare dal vento giù dalla montagna. Come fosse acqua di un torrente.»
Così Belzoni aveva momentaneamente abbandonato la testa di Memnone sulla riva del fiume e si era imbarcato per quella nuova avventura. A protezione del suo ritrovamento aveva lasciato alcuni muri di sabbia, la palizzata che aveva eretto attorno al busto e dei guardiani egiziani.

Il tempio di Abu Simbel semisommerso dalla sabbia
La piccola imbarcazione avanzava lenta sulle acque placide del Nilo. La vegetazione lungo le sponde era particolarmente rigogliosa in quel tratto e saliva sui fianchi delle collinette che costeggiavano il corso tortuoso del fiume.
Il massiccio si ergeva prepotente tra le altre alture. Le sue pareti scoscese raggiungevano la vetta che, avvicinandosi, pareva simile a un altopiano. Invece la montagna presentava sul fianco una rientranza invasa da una gigantesca colata di sabbia. Le teste di tre statue gigantesche spuntavano appena dalla collina che si era creata. La roccia, nella parete interna, sembrava scolpita dalle mani esperte di un gigante: le figure colossali erano evidentemente frutto di opere di scavo nella pietra del crinale. I viaggiatori europei rimasero in silenzio ad ammirare lo spettacolo interrogandosi su quali sorprese avrebbe riservato il resto del tempio, quello sommerso dalla sabbia.
«Andiamo!» disse Giovanni, non appena l’imbarcazione fu ancorata con le cime a terra. «Voglio proprio vedere da vicino questa meraviglia e pensare alla maniera più semplice per spostare l’immane massa che la sommerge.»
Il cumulo era davvero smisurato: tonnellate e tonnellate di sabbia addossate alla facciata del tempio del quale non s’intuiva neppure a quale altezza – e se mai – si sarebbe potuta trovare un’apertura.
Per due giorni e due notti Belzoni s’inerpicò lungo il crinale franoso. Poi decise di recarsi dal capotribù locale per reclutare della mano d’opera.
«Non ti pare un modo truffaldino di approfittarti della loro ingenuità?» gli chiese Sarah al termine dell’incontro.
«Perché dici questo?» chiese il marito.
«Hai messo a tacere la diffidenza di Hossein, il cacheff locale, promettendogli uno specchio. Sei peggio dei conquistadores spagnoli nel nuovo mondo, Belzoni», sentenziò Sarah tra il serio e il faceto.
«Sai, sono un po’ perplesso quando ti vesti da missionaria dell’Occidente», rispose Belzoni con il medesimo tono.
«Missionaria dell’Occidente?»
«Sì, quando difendi le donne qui in Africa, come in Sicilia, in Portogallo o in Inghilterra...»
«Che cosa vorresti dire?» chiese Sarah facendosi seria.
«Non rabbuiarti. Nulla di offensivo. Ogni volta ti fai carico delle indigene e cerchi di trasmettere loro la tua conoscenza. Magari è solo una mia impressione, ma...»
«Avanti, Belzoni! Sputa il rospo.»
«Ti sei mai chiesta dove stia la felicità?» disse Giovanni. «Non scuotere la testa. Dopo che abbiamo viaggiato in lungo e in largo per anni, ti sei mai chiesta quale diritto abbiamo noi d’imporre agli altri le nostre idee?»
«Capisco quello che vuoi dire. Ma, se la civiltà è un traguardo comune, sarebbe grave omissione non indicare quello che abbiamo raggiunto a chi è rimasto indietro», argomentò lei.
«Comprendo, ma insisto: dove sta la felicità? Siamo davvero sicuri che riversando i nostri usi occidentali sulle genti che popolano questo meraviglioso continente facciamo davvero il bene dei suoi abitanti? E comunque, qui non conoscono l’uso del denaro e non hanno mai visto uno specchio. Quell’oggetto rende il capotribù felice più di cento ghinee. E io non ho alcun diritto di imporgli i miei valori», concluse Giovanni. In quel momento le loro idee sul mondo divergevano. La discussione finì lì. «Cambiando discorso, non ti sembra assai interessante il fatto che Drovetti abbia tentato di scavare per accedere al tempio, ma abbia fallito?»
«Se una persona esperta come lui non ha portato a termine la sua missione... ci sarà un motivo», Sarah aprì le braccia.
«Il tuo pragmatismo sta diventando prezioso, moglie mia. Infatti proprio su questo mi sto interrogando: o il piemontese ha reputato impossibile accedere al tempio, oppure ha lasciato da parte questa delizia per godersi l’esplorazione di Abu Simbel in un secondo momento. Se così fosse, dobbiamo fare in fretta.»
«Chissà come la prenderà Drovetti quando verrà a sapere che stiamo lavorando qui, dopo che lui ha ufficialmente desistito.»
«Appunto. Come è già accaduto, dove lui ha fallito, io riuscirò.»
Qualche giorno più tardi, mandati dal cacheff, si presentarono una ventina di manovali che si misero al lavoro utilizzando alcuni attrezzi realizzati da Belzoni.
Dopo una settimana di sbancamenti, i coniugi fecero il punto della situazione: «L’obiettivo è irraggiungibile, Giovanni. In sette giorni di scavi non vedo alcun progresso, anzi, la rena ricopre ogni buca appena le vanghe l’hanno scavata. Senza contare che i viveri e i nostri soldi stanno per esaurirsi».
«Mi sa che devo darti ragione. E mi dà un gran fastidio battere in ritirata come Drovetti. Dobbiamo rientrare a Tebe. Mi auguro che i nostri, nel frattempo, siano riusciti a individuare una barca idonea per il trasporto. E spero anche che nessuno abbia messo le mani sul nostro reperto», disse Giovanni comunicando alla moglie i suoi timori.
Così si rimisero in viaggio, non senza fare tappa in altri siti archeologici con la speranza di reperire nuovi materiali da spedire al Cairo assieme alla testa di Memnone.
Il piemontese Giuseppe Rosignani aveva avuto trascorsi burrascosi con l’esercito francese, dal quale si diceva avesse disertato in piena campagna d’Oriente. Buon conoscitore delle lingue, era rimasto in Egitto offrendosi come interprete agli europei in visita in quel Paese. Aveva così conosciuto Bernardino Drovetti e, alcuni anni prima, era entrato tra i fedelissimi collaboratori del console francese. Rosignani rappresentava l’anima senza briglie di Drovetti. Dove l’ex ufficiale non osava arrivare per remore di coscienza e cautele da gentiluomo, il disertore – «rinnegato francese», lo chiamava Belzoni – agiva con spregiudicatezza e portava a termine ogni lavoro sporco gli fosse stato richiesto.
Non appena saputo che Belzoni era riuscito nell’impresa di rimuovere il busto, Rosignani si era messo in moto per sottrargli il reperto. Aveva calcolato i tempi: i suoi avversari sarebbero dovuti rientrare al Cairo per noleggiare una nave idonea. Lui, invece, al Cairo c’era già e sarebbe stato pronto a partire entro pochi giorni.
Assieme a Cailliaud e Rifaud, altre anime grigie al soldo di Drovetti, aveva scelto con cura la nave, servendosi dei disegni tecnici della testa di Memnone in possesso dell’ex console francese. Poi era salpato alla volta di Karnak, promettendo al comandante una lauta mancia per arrivare a destinazione il più in fretta possibile.
I templi da cui era stato prelevato il busto si trovavano sulla riva sinistra del Nilo, esattamente di fronte al complesso archeologico di Karnak e ai viali delle sfingi. Lì Belzoni – ne erano certi i «drovettiani» – aveva abbandonato il reperto in attesa di poterlo trasportare.
I tre scesero a terra qualche chilometro prima della meta e si diressero a piedi verso il sito di Qurna costeggiando il fiume. Il loro stupore fu grande quando raggiunsero la palizzata che proteggeva il busto e si accorsero che il reperto era circondato da un consistente avvallamento di sabbia. Smuoverlo avrebbe richiesto giorni e giorni di lavoro per una nutrita squadra di manovali.
Ma Rosignani non si perse d’animo. Rivolse alcune domande ai locali e, accertatosi che Belzoni non fosse in zona, ordinò di ormeggiare la sua nave proprio dinanzi al busto. Nei giorni seguenti i tre avrebbero cercato la manodopera necessaria per rimuovere il colosso e caricarlo sulla nave. Nell’arco di poche giornate se la sarebbero svignata col reperto.
«Guarda, Giovanni», disse Sarah indicando la nave ormeggiata. «Hanno fatto in fretta a trovare un’imbarcazione.»
«Mi sembra che siano passati troppi pochi giorni perché si tratti dei nostri emissari», rispose Belzoni dubbioso. «Vediamo chi c’è a bordo.»
La piccola feluca sfilò sottobordo alla nave affiancata alla sponda del Nilo.
Quando Belzoni riconobbe Rosignani che parlava animatamente con i suoi compari non riuscì a trattenere un moto di stizza.
«Svelti!» esclamò Giovanni. «Speriamo che quei filibustieri non siano riusciti a eliminare le difese che abbiamo eretto a protezione di Memnone.»
Raggiunta la statua, il padovano tirò un sospiro di sollievo: nulla era stato toccato nel corso della loro assenza. Erano arrivati appena in tempo per impedire il furto.
«La fortuna aiuta gli audaci», gracchiò in francese Rosignani mentre Belzoni portava a termine la sua ispezione.
«La curiosità uccide i disonesti», rispose il padovano.
«Non contate troppo sulla buona sorte, Belzoni», stavolta il piemontese si espresse in italiano. «Abbandona all’improvviso chi se ne approfitta.»
«Mi sembra che ad approfittarsi di informazioni riservate siano stati altri, disertore.»
Rosignani strinse la mano attorno al calcio della pistola che portava al fianco, mentre i suoi due compari rimanevano in disparte, pronti a fronteggiare ogni situazione.
«Come osate?» chiese il piemontese.
«Non dico nulla che non corrisponda al vero.» Belzoni non sembrava per niente intimorito dalla sua aria minacciosa. «Se dovesse tornare il vostro amato imperatore corso, finireste impiccato per diserzione. E, comunque, non riesco a capire come facciate a conoscere ogni mia mossa in tempo reale.»
«Questo è un Paese magico, Belzoni», rispose l’altro allargando le braccia con fare canzonatorio. «Se reputate utile questa nave ai vostri bisogni, potrete sempre noleggiarla al suo ritorno. Siamo diretti a sud. Naturalmente non vi rivelerò dove: in Egitto sono segnalate persone abili come sciacalli del deserto nel piombare sulle scoperte altrui.»
«Parlate di voi e dei vostri compari, Rosignani?» adesso era Giovanni a usare un tono irriverente. «Però mi avete dato una buona idea. Parlerò con il vostro comandante, augurandomi che non sia della vostra stessa pasta.»
Il piemontese tornò a bordo e la loro nave, all’imbrunire, prese il largo risalendo il fiume.
Un caporione locale si presentò il mattino seguente, voleva parlare con il capo degli europei perché gli era stato riferito che cercavano manodopera per effettuare degli scavi. Belzoni non si mostrò affatto stupito: l’egiziano era arrivato giusto in tempo per salvare la colossale testa.
Giovanni approfittò senza esitazione della situazione e, poche ore più tardi, fu iniziato lo scavo per liberare la scultura.
Nel frattempo, dopo aver calcolato altezze e dislivelli, scelse con cura un sito lungo la riva. Quindi recuperò con qualche fatica del legname e, assieme a una squadra di carpentieri, iniziò a costruire una passerella per favorire l’imbarco della scultura.
Giovanni scendeva ogni giorno all’idrometro che aveva collocato sulla sponda: il livello delle acque del Nilo continuava a scendere. Ancora pochi giorni di secca e la navigazione sarebbe stata impossibile. Poi, finalmente, la nave raggiunse l’approdo e manovrò per affiancarsi con precisione alla passerella.
Caricare il colosso richiese estrema attenzione e, per ben due volte, il giovane Memnone rischiò di cadere nelle acque limacciose del fiume. Alla fine fu collocato sul ponte e assicurato con delle solide cime.
Quando partì alla volta di Alessandria, Belzoni si sentì sollevato. Dal ponte scrutava la corrente del fiume che spingeva la nave. Quasi certamente avrebbe lasciato Sarah in città in compagnia di James: le nuove imprese che si proponeva non erano immuni da rischi.
«Stai scherzando, Giovanni?» gli rispose la moglie quando le comunicò le sue intenzioni. «Se pensi che io ti aspetti in un appartamento sul porto a filare la lana ti sbagli di grosso. Io verrò con te.»
La discussione fu lunga e animata. La mediazione finale che mise i contendenti d’accordo era che Sarah, dopo una nuova missione, si sarebbe presa un periodo di riposo. Ma intanto non lo avrebbe lasciato solo.
Il caos delle metropoli egiziane gli offendeva i timpani, abituato com’era ai silenzi dei deserti. Adesso Belzoni poteva dedicarsi alla nuova impresa che occupava ogni suo pensiero: l’esplorazione del tempio semisepolto di Abu Simbel. Lì, certamente, avrebbe trovato anche un tesoro, utile per resuscitare le sue finanze. Era stato sufficiente risalire il Nilo sino alle meraviglie della Nubia per capire che la somma promessagli dal console Salt per il recupero della statua di Memnone avrebbe potuto contribuire solo in minima parte alle spese per le prossime spedizioni. Poco gli importava: lo splendore di quello che si poteva vedere del tempio di Abu Simbel lo aveva stregato. Giovanni Belzoni aveva addosso quella febbre che assale ogni cercatore di tesori quando è convinto che la meta sia vicina.
Abbandonata l’avventura del busto al suo viaggio verso l’Inghilterra, Giovanni tornò subito ad Abu Simbel con l’inseparabile Sarah al suo fianco.
«Smuovere quella montagna è un’impresa ciclopica, Giovanni», gli disse Sarah un giorno, incrociando le gambe e sedendosi accanto a lui sulla sabbia del deserto.
«Guarda quel volto», disse Giovanni indicando la prima delle colossali statue a sinistra. «Ha un’espressione inquietante. Come se volesse mettere in guardia chiunque cerchi di profanare il tempio.»
«Non mi hai sentito, Giovanni. Parlavo di quella montagna di sabbia...» il gesto di Sarah fu eloquente.
«Certo, certo», le disse. «Domattina ho appuntamento con il solito capotribù. Gli chiederò alcuni uomini.»
«Finirà come sempre: nella migliore delle ipotesi, recluterai un plotone di scansafatiche.»
Iniziò invece assai peggio del solito.
«Gli uomini hanno paura, effendi. Quella montagna è maledetta», disse il cacheff. «Non so chi vorrà lavorare per scoprire l’ingresso del tempio. Ma non aspettatevi una folla di candidati.»
«Offro una paga doppia rispetto a quella giornaliera di un operaio.»
«Questo è un buon motivo per essere meno superstiziosi», il cacheff si guardò attorno come stesse per comunicare un segreto. «Chiedo poi di assaggiare quel vostro vino...»
Con un esborso ragionevole, sufficiente a scacciare il malocchio, e una bottiglia della modesta riserva personale che il buon padovano portava sempre con sé, il varco verso il tesoro di Abu Simbel si faceva ora più vicino.
Quando Sarah entrò nella tenda, Giovanni era chino su un disegno che lui stesso aveva appena realizzato.
«Vedi, moglie mia. Sulla facciata del tempio si adagiano quattro statue colossali. Tre delle quali sono complete. La testa della quarta suppongo sia collassata, la recupereremo una volta spianata la montagna di sabbia. L’ingresso dovrebbe trovarsi al centro, esattamente tra la prima e la seconda coppia, proprio sotto la statua nella nicchia che credo si riferisca al dio Ra-Harakhti. Inizieremo lo scavo dal centro della facciata. Appena possibile mi calerò nel tempio e andrò alla ricerca del tesoro.»
«Il tesoro...» disse la donna con aria sconsolata.
«Che cosa ti succede, Sarah? Pensavo che amassi quanto me questa vita.»
«È così, Giovanni. Sono felice solo al tuo fianco. Ma comincio a temere che non possa durare a lungo: gli oggetti che rinveniamo sono venduti a prezzi che non coprono le spese. Quanto potremo andare avanti?»
«Non posso darti torto, moglie mia. La mia missione, però, è anche quella di divulgare ai posteri i fasti di un passato misterioso. Poco o nulla contano i denari, quando in ballo c’è la conoscenza. Prima che pochi pionieri come il sottoscritto si occupassero di certi reperti, l’antico Egitto era sconosciuto o quasi.»
«Hai ragione. Ma ti accorgi anche tu di quanto siano necessari fondi per raccogliere reperti? Forse dovremmo...»
«Dovremmo forse agire come gli altri ladri di tombe? Schiavizzare la manodopera e pretendere cifre esorbitanti per ogni chincaglieria? Per noi è diverso. Forza, vedrai che prima o poi c’imbatteremo in un tesoro dal valore immenso.»
Le escavazioni procedevano tra rivendicazioni salariali da parte dei fellah e oggettive difficoltà dovute alla friabilità del manto sabbioso. Gli uomini utilizzavano delle specie di rastrelli, realizzati dallo stesso Belzoni, che trascinavano corde utili per smuovere la sabbia. Quest’ultima, perché fosse più coesa e si attenuasse il rischio di crolli, veniva compattata dopo essere stata bagnata. Ma anche trasportare acqua a spalla dalla riva del fiume sino alla collina di sabbia richiedeva uno sforzo considerevole.
«Andate a chiamare l’effendi!» gridò lo scavatore la mattina del primo agosto 1817.
La travatura in pietra lasciava intravedere una piccola fessura sotto di sé. Belzoni sorrise e chiamò tutte le squadre disponibili. Bisognava allargare il passaggio quel tanto da consentirgli di accedere al tempio. Infatti, non appena il pertugio fu abbastanza largo, Giovanni strisciò nell’oscurità armato di una torcia, di un acciarino e della sua inseparabile pistola.
Le mani riportarono il piccione nella sua gabbia, poi aprirono il bussolotto e dispiegarono nervose il foglio del messaggio. Questa volta il testo era lungo e dettagliato.
«Belzoni è riuscito ad aprirsi un varco all’interno del tempio di Abu Simbel e ha effettuato diverse ispezioni. L’interno appare maestoso e le colonne mantengono colori accesi, come se le decorazioni che le adornano fossero state appena realizzate. Contrariamente a quanto pensava, Belzoni non ha trovato tesori, ma solo due sfingi di pietra alte quasi sino al torace di un uomo e altri oggetti sacri di poco conto. Le finanze dei Belzoni sono sempre più ridotte. Non so per quanto tempo ancora potrà andare avanti la loro ricerca.»