20

 

Il dolore per la morte dell’amico ancora gravava sul suo cuore quando, alcune settimane dopo, Belzoni richiese un primo incontro a Lovatier. Qualche giorno più tardi se ne tenne un secondo, dal carattere più riservato.

Il francese sorrise, si alzò galantemente e attese che Belzoni si sistemasse.

Il solo fatto che la preda fosse giunta nella sua tana poneva il generale in una condizione di superiorità.

«Sono davvero onorato che abbiate accettato di far parte della nostra numerosa famiglia. Naturalmente, fossimo a Parigi, sarebbe un’altra cosa. Ma cercheremo di adattarci alle nostre disponibilità. Se volete seguirmi, daremo il via alla cerimonia.»

Il rito d’iniziazione fu comunque accurato: in una stanza dell’albergo del Cairo erano presenti poche persone oltre al generale. Giovanni fu condotto dinanzi al gran ierofante che declamò la formula con voce solenne: «Solo attraverso la saggezza si possono comandare gli uomini».

Il padovano era bendato, con una gamba dei pantaloni rimboccata. Fu fatto inginocchiare, quindi il maestro gli puntò un fioretto al cuore: «Questa spada è sempre sguainata per punire lo spergiuro. È il rimorso che asciugherebbe il vostro cuore se voi diventaste un traditore della nostra Obbedienza. Voi vi presentate di vostra spontanea volontà?»

«Sì», rispose Giovanni.

Il gran ierofante proseguì: «La nostra Obbedienza trae la sua sola forza dalla ragione. Iniziato, siete sempre disposto a sottoporvi alle prove, quali che esse siano?»

«Acconsento», disse il padovano.

«Lasciatevi guidare attraverso il percorso dell’iniziazione. In seguito vi saranno comunicati i vostri doveri, ammesso che risultiate idoneo a far parte della nostra Obbedienza. Il primo dovere è di osservare per sempre e di fronte a chiunque il più assoluto segreto su tutto ciò che qui saprete o vedrete. Devo chiedervi un giuramento solenne. Acconsentite?»

«Acconsento.»

Una coppa fu avvicinata alla bocca di Belzoni. Giovanni trangugiò il vino rituale in un sol sorso, mentre lo ierofante proseguiva.

«Ripetete con me la formula solenne: ’M’impegno sul mio onore al silenzio assoluto sulle prove che subirò’. Date la vostra parola.»

L’iniziato rispose a tono. I suoi occhi erano ancora bendati.

«Conoscete la sacralità di un giuramento», chiese il maestro, mentre la coppa veniva avvicinata nuovamente alle labbra del novizio. Ma questa volta era stata colmata con del fiele. L’officiante lo esortò a bere e, una volta che Giovanni ebbe deglutito, l’altro continuò: «Che questa bevanda amara sia per voi il simbolo dell’amarezza e della vergogna di uno spergiuro. Fategli compiere il suo primo viaggio».

Giovanni, affiancato da quello che fungeva da cerimoniere, venne fatto camminare per la stanza bendato, mentre l’ambiente si riempiva di un rumore assordante. Una lama puntata alla gola arrestò l’iniziato.

«Chi va là?» chiese una voce.

«Un profano che chiede di essere un confratello. È libero, di buoni costumi», rispose un’altra voce.

«Stando così le cose, che passi!» disse il primo.

Giovanni fu fatto camminare su un pavimento sconnesso e traballante, quindi riportato dinanzi al gran ierofante.

«Il viaggio che avete appena compiuto rappresenta la vita umana. Il frastuono che avete udito le passioni, gli ostacoli, le difficoltà. Voi potrete sconfiggere e superare ogni barriera solo grazie all’aiuto dei confratelli. Fategli compiere il secondo viaggio.»

Questa volta, dopo le domande di rito, la mano sinistra di Belzoni fu immersa in acqua per purificare l’adepto.

«Che il vostro cuore sia limpido come l’acqua pura. Fategli compiere il terzo viaggio.»

Quindi Belzoni fu fatto avvicinare alla fiamma di una torcia ardente, prima di essere ricondotto dinanzi al maestro.

«L’obbligo di Obbedienza potrebbe contemplare, un giorno, di versare sino all’ultima goccia del vostro sangue. Adesso presterete giuramento. Ripetete con me: ’Io, Giovanni Battista Belzoni, di mia libera volontà, in presenza dei confratelli e del gran ierofante, giuro solennemente di non rivelare mai ad alcuno i misteri del rito egizio che mi saranno confidati’.»

Giovanni si sentiva a disagio, ma ripeté pedissequamente ogni frase.

«Benvenuto nella loggia del Sole di Iside, confratello Belzoni!» disse alfine il gran ierofante, cingendo il proselito in un abbraccio.

 

La piana di Giza si estendeva a perdita d’occhio a sfidare l’infinito, interrotta dalla mole gigantesca dei monumenti sepolcrali. Belzoni aveva scelto un punto d’osservazione situato circa a metà della parete della tomba di Cheope e aveva preso a esaminare con estrema attenzione il fianco settentrionale della dirimpettaia piramide di Chefren. Ora, senza l’angoscia del reperimento di fondi per finanziare le sue imprese, desiderava realizzare un suo antico sogno: verificare se davvero quel monumento fosse un ammasso di blocchi di granito etiope senza alcuna cavità al suo interno.

Lovatier era stato di parola: subito dopo l’affiliazione alla loggia di rito egizio, si era fatto avanti un finanziatore parigino che aveva elargito a Belzoni un prestito di duecento sterline in cambio di alcuni vecchi reperti di scarso valore. In pratica si trattava di credito concesso a fondo perduto.

«Chefren costruì a sua volta una piramide senza camere sotterranee, né canali che portavano acqua dal vicino Nilo.» Giovanni ripeté le parole di Erodoto, mentre il suo sguardo ripercorreva il lato della gigantesca costruzione.

La convinzione del padovano era che la sfinge, il tempio e la piramide fossero collegati tra di loro e facessero parte del medesimo progetto.

Finalmente scorse un indizio: alcuni blocchi di granito della base sembravano disposti in maniera diversa, quasi a comporre una trave di sostegno e non solo: tra le rocce squadrate erano visibili alcune fessure. Belzoni aveva visto abbastanza. Soprattutto, per il timore di essere spiato, non doveva far trapelare quello che aveva notato. Così, presto fece armi e bagagli e diede il maggior risalto possibile alla notizia della sua partenza per una spedizione sul monte Mokattam. Quando tutti lo immaginavano altrove, il padovano tornò invece nella piana di Giza con una quarantina di manovali e iniziò gli scavi alla base della parete settentrionale della piramide di Chefren alla ricerca di un passaggio.

I lavori procedevano a rilento e si erano rivelati assai più difficoltosi del previsto. Eppure «il folle», come lo chiamavano gli egiziani, non demordeva: l’entrata doveva essere lì, sotto tonnellate di sabbia fina e instabile.

«Vedete quelle fessure?» disse Belzoni al suo assistente, il toscano Ermenegildo Frediani. «Lì i ladri di tombe si sono accaniti per trovare una via d’accesso. E i tombaroli hanno un fiuto più sensibile di quello di mille archeologi. Continuiamo, Frediani. Se non riuscirò a vedere i tre segni prima di una settimana, abbandoneremo le ricerche.»

Giovanni ripeteva spesso che erano almeno tre i segni in grado di rivelargli la presenza di un accesso o di un manufatto nascosto.

Era una giornata calda di fine febbraio, quando il padovano li scorse.

I fellah avevano appena rimosso buona parte della sabbia accumulata ai piedi della costruzione e avevano scoperto il materiale rovinato dai fianchi della piramide a terra. Belzoni fermò i lavori e concentrò gli scavatori in un punto: «Rimuovete il materiale lì», indicò circoscrivendo una zona di pochi metri.

«Perché proprio quel materiale?» chiese Frediani, convinto che il sole e la brama di tesori stessero giocando brutti scherzi al suo datore di lavoro.

«Non vedete, Ermenegildo? Ha una compattezza diversa da quello addossato ai lati della piramide: sembra disposto proprio in quel punto grazie a un intervento umano. Ho detto di scavare lì», insisté Belzoni apostrofando un manovale particolarmente renitente.

«Magnoun!» esclamò l’egiziano dandogli del folle.

«Adesso nessuno ti leva una bella lezione», disse il gigante avanzando minaccioso con i pugni serrati. Se solo fosse andato alle mani con l’operaio, avrebbe rischiato un sicuro ammutinamento da parte di tutti i lavoratori. Ma il carattere impulsivo di Giovanni sembrava non sentire ragioni. Il suo impeto tuttavia fu interrotto da un grido: «Accorrete! Qui c’è un masso in posizione diversa. Sembra quello sopra all’ingresso della piramide vicina».

Il parallelepipedo disposto in maniera dissonante rispetto alla perfezione di tutti gli altri si trovava nel punto in cui Belzoni aveva ordinato di scavare. Gli animi passarono dall’estremo nervosismo alla gioia della scoperta.

Il terreno adesso era meno compatto e, in breve, le prime squadre raggiunsero l’ingresso della piramide. Belzoni e Frediani penetrarono per primi e senza nessun egiziano: erano certi di rinvenire all’interno della piramide un tesoro enorme. Il toscano provava per Giovanni un’ammirazione assoluta. Belzoni non avrebbe concesso a nessuno di violare assieme a lui il segreto di quel sepolcro, ma di Frediani sapeva di potersi fidare ciecamente. I due italiani percorsero le gallerie buie e strette più volte, ne sondarono le pareti, ispezionarono pavimenti e soffitti prima di arrendersi all’evidenza: i ladri di tombe avevano fatto razzia nella piramide di Chefren da secoli ormai. E non solo, si erano anche premurati di lasciare incise data e firma sulla parete della camera sepolcrale, a testimoniare la loro presenza.

Belzoni era abituato a certi insuccessi. Il solo fatto di aver trovato l’ingresso della piramide lo gratificava comunque.

«Almeno i soliti lestofanti non si approprieranno anche di questa mia scoperta.»

In bella calligrafia, tracciò sul muro la scritta in italiano: «Scoperta da G. Belzoni: 2 mar. 1818».

 

«Mi giunge notizia, Belzoni, che gli inglesi stiano addirittura coniando una moneta di bronzo che commemori la vostra impresa nella piramide di Chefren.» Gli occhi azzurri di Lovatier brillavano come fari.

«Sono convinto che, nello stesso tempo, i vostri concittadini di Parigi stiano facendo la stessa cosa attribuendo la scoperta al Drovetti», si schermì il padovano. Quindi si fece serio e proseguì, armato dell’umiltà che lo contraddistingueva. «Peccato che all’interno non abbiamo rinvenuto ’monete’ coniate dagli antichi egizi. Stavolta ero quasi certo di poter recuperare finalmente un tesoro. Ma vi prometto che...»

«Il tesoro arriverà, Belzoni. State tranquillo. E, nel frattempo, questi riconoscimenti faranno dilagare la febbre egizia come un’epidemia.»

«Già, come un’epidemia...» rimuginò Belzoni con una punta di malinconia. Gli tornò alla mente Burckhardt e la sua misteriosa morte. La perdita dell’amico continuava a provocargli dolore, tanto più che il console Salt gli aveva riferito ciò che gli sembrava di aver inteso nelle parole dello svizzero morente.

«Quale sarà la prossima meta, Giovanni?» chiese Lovatier cambiando discorso.

«Mi piacerebbe andare alla ricerca di Berenice, l’antico porto sul Mar Rosso, costruito da Tolomeo II, che porta il nome della madre del faraone», rispose Giovanni riscuotendosi dalla malinconia.

«Non so molto su quel sito leggendario...»

«È stato una base importantissima per i commerci da Oriente verso Occidente, mentre Roma diventava una grande potenza. Lì facevano sosta le navi che trasportavano stoffe, monili, oro, argento e, soprattutto, smeraldi. Da lì le merci potevano ripartire con navi più piccole e risalire il Mar Rosso sino a che era possibile, o venire trasbordate sin da subito su carovane che avrebbero costeggiato il corso del Nilo.»

«Bene, Belzoni, ditemi quanto avete preventivato per questa nuova spedizione e vedrò come reperire la somma.»

«Il viaggio è assai lungo e non privo di pericoli. Non posso intraprenderlo con un seguito numeroso. Diciamo che basteranno una ventina di uomini in tutto. Dovrò però portare con me un buon numero di bestie da soma: attraverseremo zone aride e prive di pozzi. La scorta d’acqua dovrà quindi essere ragionevole.»

«Lasciatemi lavorare alla cosa e troveremo la cifra che vi necessita», aggiunse Lovatier.

«A volte mi chiedo quale molla vi spinga a investire nelle mie ricerche, generale», disse Belzoni. «Anche perché ancora non ho prodotto un risultato economico soddisfacente.»

«Credo si tratti della stessa molla che spinge voi a infilarvi in uno stretto pertugio e percorrere gallerie millenarie nella più assoluta oscurità», mentì il francese. «È la ricerca delle origini, la sete del sapere, la necessità di conoscenza. Questi sono i valori che costringono – consentitemi di dirlo – uomini come noi ad andare avanti a testa bassa. Se poi arriveranno anche le soddisfazioni economiche, tanto meglio. Nel frattempo, portare alla luce il passato già ci appaga. State tranquillo, Belzoni. I risultati verranno.»

 

Settembre era ormai agli sgoccioli, seguito dalle ultime code di un’estate ancor più torrida a quelle latitudini. Era tempo di partire, pensò Belzoni, incitando il cammello che si alzò sulle quattro zampe.

Della spedizione facevano parte una ventina di uomini e sedici animali, oltre al segretario del console Salt, Henry William Beechey, e l’immancabile interprete Shomu.

I rapporti con Drovetti e i suoi sgherri si erano fatti sempre più tesi: Belzoni aveva la certezza che stessero attuando una campagna denigratoria nei suoi confronti, mettendo in giro maldicenze. Anche per questo motivo il padovano aveva deciso di andare alla ricerca di Berenice: soltanto due anni prima, nel 1816, Mehmet Alì pascià aveva commissionato una spedizione alla ricerca delle antiche miniere di zolfo e di quelle di smeraldi a Cailliaud, un sinistro collaboratore di Drovetti con il quale Giovanni aveva avuto più volte a che fare. Cailliaud era tornato dall’esplorazione con notizie sensazionali: i giacimenti di zolfo e di preziosi erano esauriti, ma in compenso aveva riscoperto le rovine dell’antico porto di Berenice.

Belzoni aveva a lungo studiato le risultanze del francese e le aveva confrontate con quanto descritto da Erodoto e Plinio il Vecchio nei loro particolareggiati resoconti. Era giunto alla conclusione che, se mai Cailliaud avesse scoperto qualcosa, non poteva trattarsi di Berenice. Quale occasione migliore per gettare discredito sui metodi e sui risultati di Drovetti e dei suoi?

Il passaggio del francese, due anni prima, aveva lasciato una scia di malumore tra le popolazioni locali. Il malcontento e la difficile convivenza erano una traccia che Belzoni tallonò come un abile segugio, sino a che giunse alle rovine che Cailliaud aveva erroneamente scambiato per Berenice. Invece l’antico porto, era convinto il padovano, doveva trovarsi più a sud.

Temendo per la scarsità di acqua potabile e per la difficoltà di reperirla lungo l’impegnativo percorso, Belzoni aveva lasciato metà dei membri della spedizione sulle rive del Mar Rosso e si era avventurato con l’inglese, cinque cammelli e sei uomini lungo piste scarsamente battute, inerpicandosi su rilievi sassosi contorniati dal deserto. E finalmente la sua perseveranza era stata premiata la sera dell’8 ottobre del 1818. Le rovine di Berenice si stagliavano all’orizzonte. Lo spettacolo che si presentò alla vista degli esploratori fu un agglomerato urbano di grandi dimensioni, capace di dare alloggio ad alcune migliaia di abitanti. L’accumulo della sabbia trasportata nei secoli aveva coperto gran parte delle antiche vestigia, rendendo Berenice simile a una Pompei d’Oriente.

«Stiamo esaurendo le vettovaglie e non abbiamo più acqua, Giovanni», disse Beechey mentre facevano il loro ingresso nell’antica città.

«Dammi almeno il tempo di dare un’occhiata, adesso che abbiamo trovato ciò che cercavamo.» Nella voce di Belzoni c’era la soddisfazione di poter servire su un piatto d’argento la brutta figura di Drovetti.

«Aspetta, Beechey», disse Belzoni a un certo punto, indicando quello che pareva un mucchio di sassi alla periferia meridionale della città.

«Che cosa succede, Giovanni?» chiese l’inglese.

«Quelle pietre disposte in quella maniera sono ’segni’: indicano l’ingresso di una tomba. Dobbiamo scavare. Chiama gli uomini», disse il padovano con una luce che brillava negli occhi.

«Non possiamo: è rimasta meno di una razione d’acqua a testa e la strada è ancora lunga prima di raggiungere gli altri. Dobbiamo ritornare sui nostri passi. Ci organizzeremo e torneremo qui appena possibile.»

«Lasciami almeno tentare. Mi bastano un paio di uomini. Gli altri possiamo farli partire.»

Gli uomini, seppure stremati dalle ristrettezze di quei quindici giorni di viaggio, presero a scavare dove indicava Belzoni. Dopo qualche ora venne alla luce l’ingresso della tomba, che risultò libero poco più tardi. Belzoni e Beechey s’infilarono nel sepolcro armati di torce.

Lo spettacolo che si presentò ai loro occhi fu esaltante: lungo il corridoio d’accesso alla camera sepolcrale erano affissi più di trenta pannelli smaltati di argilla cotta. Su questi un’antica mano aveva tracciato un lungo, ininterrotto scritto. La tomba era stata violata da chissà quanto tempo. I ladri avevano fatto man bassa degli oggetti di valore, senza curarsi delle iscrizioni.

Beechey si fece luce con la torcia e iniziò a tradurre le prime righe del primo pannello: «’Sarò la tua ombra, mia regina. Nelle tue vene scorre il sangue di Alessandro il Grande, la tua discendenza è divina. Io veglierò su di te pronto, come un fedele soldato, a sacrificare la mia stessa vita. Così ho giurato a tuo padre il faraone quando sei venuta al mondo. E così ho cercato di fare lungo l’intero corso della mia umile vita al tuo fianco’».

L’inglese si volse verso Belzoni, la torcia illuminava la sua aria meravigliata.

«Credo sia una scoperta piuttosto importante, Giovanni», disse Beechey.

«Sì, certo. Non diciamo nulla a nessuno e, una volta usciti, facciamo riempire nuovamente di sabbia l’ingresso. Non abbiamo autonomia sufficiente per restare ancora qui: rischiamo di morire di sete lungo il viaggio di ritorno.»

«Vuoi che faccia il calco in gesso di almeno uno dei pannelli?»

«Temo che siamo davvero agli sgoccioli, Beechey. Non possiamo permetterci neppure un minuto di più.» Giovanni indicò con la torcia un punto sul pavimento dalla parte opposta rispetto a quella in cui si trovavano. «Guarda laggiù: sembra che un pannello sia rovinato a terra frantumandosi. Raccogliamo i cocci in una bisaccia e portiamoli via. Al Cairo li incolleremo prima di ritornare a Berenice.»

Beechey prese un frammento più grande degli altri e lesse le parole che apparivano integre: «’Il grande sepolcro nascosto’».

I due uscirono di nuovo all’aperto. L’interprete li attendeva all’ingresso della tomba.

«Ordina agli uomini d’interrare l’ingresso e di lasciare solo le pietre per ritornare qui in seguito. Noi andremo intanto a terminare i preparativi», disse il padovano all’interprete.

Quest’ultimo, non appena i due si furono allontanati, sgattaiolò all’interno del sepolcro. Il greco era una lingua che l’interprete padroneggiava alla perfezione. Si fece luce con la torcia e mandò a memoria le prime parole dell’iscrizione: qualcuno avrebbe pagato bene solo per sentirsele riferire.

L’esploratore padovano non aveva torto: se avessero tardato la partenza da Berenice di poche ore avrebbero rischiato la morte. Quando raggiunsero il resto della spedizione erano quasi del tutto disidratati. Ma dopo due giorni di riposo poterono riprendere la strada verso Il Cairo.

 

La campagna denigratoria orchestrata da Drovetti non accennava a spegnersi, anzi. Le prime notizie che Belzoni apprese rientrando in città erano le voci secondo cui le sue scoperte sarebbero state frutto delle informazioni che lui acquistava a peso d’oro dagli indigeni. I suoi metodi, inoltre, erano da uomo preistorico e lui era schiavo solo del denaro che poteva ottenere contrabbandando reperti.

Belzoni montò su tutte le furie e meditava di raggiungere il piemontese e fargliela pagare, ma il generale Lovatier lo indusse alla ragione, cercando di toccare le corde della sua sensibilità per farlo desistere.

«Lasciate perdere, mio buon amico. L’importante è che se ne parli. Sarebbe sciocco e controproducente venire alle mani con Drovetti: conosco bene l’ex console francese e, grazie alle sue conoscenze, vi farebbe sbattere al fresco per un buffetto. Sedete, Belzoni. Pensate agli appuntamenti che ci aspettano...»

Il generale respirò a fondo, i suoi occhi si fecero fessure e il suo volto assunse un’espressione che fu in grado di mettere a disagio persino Belzoni. Sembrava un demone che cercava di blandire un essere umano per assicurarsi la sua anima. L’ex ufficiale non si perse in altri convenevoli e sussurrò: «Cleopatra».

«Come avete detto, generale?» chiese il padovano per essere certo di aver capito bene.

«Questo vi chiediamo, Belzoni. L’individuazione del sepolcro che custodisce le spoglie dell’ultima e più fedele devota a Iside. La regina delle regine.»

Belzoni si chiese se fosse trapelato qualcosa riguardo alla sua ultima missione. Non era possibile: Beechey era persona fidata e, quasi certamente, non aveva compreso a fondo la portata della scoperta. Belzoni era convinto che quell’incisione, scritta in un greco relativamente moderno, fosse un indizio da seguire per far luce sulla vita di una regina tolemaica e, mettendo al giusto posto i tasselli, aveva ottime ragioni per supporre che si trattasse proprio di Cleopatra VII, la concubina di Giulio Cesare.

Lovatier aveva spinto la testa in avanti, gli occhi azzurri brillavano di una luce sinistra. Belzoni decise di non rivelargli nulla. Ci sarebbe stato tempo in seguito. Forse. Adesso doveva solo prendere le distanze dal generale, dai suoi modi melliflui e dal suo desiderio di entrare in possesso dei segreti di Iside.

Oltre a ciò, il gigante padovano percepiva un’aria pesante. Come se l’intera città del Cairo gli fosse improvvisamente diventata ostile.

L'ombra di Iside
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