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Anno 722 a.U.c. (32 a.C.)
Teie riconosceva ormai da lontano le nubi di tempesta quando si addensavano sugli ospiti del palazzo.
Cleopatra, taciturna, era nervosa da qualche giorno quando, per un pretesto di poco conto, fece esplodere tutta la sua rabbia verso Antonio.
«Sono stufa di essere considerata una poco di buono, Antonio», disse Cleopatra alzandosi in piedi infuriata.
Il generale rimase allungato sul triclinio, cercò di afferrarla per una mano pronunciando parole affettuose. Lei si divincolò e prese posizione sui tre scalini di marmo che separavano l’interno dall’esterno.
«Per i romani io sono la puttana con cui il generale si ritempra dopo le sue faticose battaglie. Per questo, basterebbero le tante meretrici che seguono le tue legioni. Ti ricordo che io sono una regina, discendente da una stirpe di faraoni, erede di Alessandro.»
«Non lo dimentico certo, amore mio. Togli dal tuo bel viso quell’espressione da sentinella pronta a difendersi dall’assedio e torna qui vicino a me.»
Teie, che era rimasta silenziosa in un angolo, abbandonò la stanza restando però a portata di voce: non si poteva mai prevedere che cosa Cleopatra fosse capace di fare in certi momenti.
«Non hai capito bene, Antonio. Sono arrivata al punto di rottura. Penso di avere diritto a un uomo tutto mio, padre dei miei figli e coreggente del mio regno. Non capisco se sia il sentimento a legarti a me o i tuoi freddi calcoli militari.»
«Che cosa dici, Cleopatra?»
«Dico che, nella tua eterna sfida con Ottaviano, non so quanto valga il mio appoggio. Non quello di concubina di lusso, ma quello di regina, comandante di un esercito imponente e dotata di fondi illimitati per finanziare le tue campagne. Sappi che non ti dividerò più con nessuno. È venuto il momento che tu mi dimostri quanto valgo per te. O sarai mio marito o farò a meno di queste continue umiliazioni.»
Così Antonio ripudiò Ottavia, sottovalutando forse la reazione del cognato e parigrado nel triumvirato. Con Ottaviano era ormai da tempo ai ferri corti: l’abbandono di Ottavia diede inizio a un conflitto finale e risolutivo.
Nel frattempo i due ex amanti si indaffaravano per celebrare sontuosamente la loro unione.
Teatro delle nozze fastose fu il tempio di Iside. Antonio e Cleopatra erano veri maestri quando si trattava di organizzare mirabolanti cerimonie. Dopo una festa durata giorni, dove si alternavano sapientemente momenti di raccoglimento religioso e baccanali, la coppia di novelli sposi decise di partire per l’ennesimo viaggio, malgrado l’aspra reazione promessa da Roma fosse un’imminente realtà.
Sebbene fossero inseparabili da sempre, Teie continuava a stupirsi degli atteggiamenti della regina dinanzi al pericolo incombente: le legioni di Ottaviano stavano per attaccare l’Egitto e Cleopatra aveva in mente un viaggio di piacere lungo le coste dell’Egeo.
Adesso che la minaccia si avvicinava Antonio e Cleopatra apparivano ancor più incoscienti. O forse intuivano a che cosa sarebbero andati incontro. E si mossero, per questo, alla ricerca del piacere nelle terre di Epicuro o nella licenziosa Samo. Il loro viaggio dorato pareva non avere fine.
L’ufficiale egizio entrò nella sala che ospitava la regina e il consorte per ricevere ordini di routine. Quando fu al cospetto di Cleopatra il militare barcollò, cercò invano un appiglio e poi rovinò a terra, morendo di lì a poco divorato dalle febbri.
L’epidemia, probabilmente una malaria fulminante, scoppiò tra le file dell’esercito egizio al seguito della regina.
Nell’arco di pochi giorni furono migliaia i militari colpiti dal morbo e moltissimi perirono a causa del contagio. Alcune navi del seguito, spopolate dalla virulenza dell’infezione, furono arse alla fonda nel porto di Azio nell’Epiro. Se solo Antonio e Cleopatra avessero correttamente interpretato il presagio, avrebbero evitato quella località come teatro della battaglia finale.
I due sposi furono costretti a interrompere il loro viaggio e a far ritorno ad Alessandria, dove li aspettava il compito più arduo della loro sfolgorante vita: fronteggiare le forze militari di Roma guidate da Cesare Ottaviano.
«La nostra flotta rimane superiore a quella di Ottaviano per numero di navi e dimensione dei singoli navigli. Se avrà il coraggio di sfidarci sul campo e non solo con le parole, riceverà il benservito che merita», disse Cleopatra a Teie in uno dei sempre più rari momenti d’intimità tra di loro.
«Non vorrei, regina, che quello che appare come un vantaggio sulla carta si riveli sconveniente sul campo di battaglia», ragionò Teie a voce alta.
«Che cosa intendi dire?» chiese Cleopatra irrigidendosi.
«Che in battaglia le variabili sono tali e tante da non poter essere calcolate. Se il teatro di uno scontro navale dovesse essere particolarmente angusto, le nostre invincibili navi, di notevole stazza, avrebbero difficoltà a manovrare. Potrebbero diventare quindi preda delle più agili liburne di Ottaviano.»
«Adesso basta, Teie!» ruggì la regina. «Sono stanca del tuo disfattismo.»
«Non è disfattismo, Cleopatra, è la realtà.»
«Ancora meglio! Che cosa ne sai tu che vivi da decenni, grazie a me, nelle più sfarzose regge del mondo? Come puoi capire le strategie di una flotta, se al massimo ti sei dovuta occupare della mia sicurezza?»
«Ti chiedo perdono, regina. Non volevo...»
«Non volevi... Nessuno vuole mai offendermi, eppure dite tutti eresie. Sono stanca, Teie. La tua compagnia non mi è più indispensabile. Finita la guerra sarai reintegrata nei ranghi delle Cinnane con un alto grado. Fino alla tua nuova nomina non ho più bisogno di te. Puoi andare.»
Teie, in silenzio, si sfilò l’anello di smeraldo, dono di Tolomeo ancor prima che Cleopatra venisse al mondo. Lo posò sopra un piccolo altare votato a Iside nella stanza della regina.
Quando la Cinnane fu uscita, Cleopatra si avvicinò all’anello e lo infilò al dito. Aveva gli occhi pieni di lacrime: Teie era la persona più cara che le fosse rimasta. Ed era, unica forse, sincera e fedele. Restituendole il dono di Tolomeo, dichiarava il suo riscatto dall’antico giuramento. Ma la regina sapeva che il vincolo tra loro due era più profondo e indissolubile. Scosse il capo: le avrebbe restituito l’anello quando il dissidio tra di loro si fosse appianato.
Antonio era più orientato ad affrontare il nemico sulla terraferma che in mare. Cleopatra, invece, convinta della supremazia navale della sua flotta, propendeva per una battaglia decisiva sull’acqua.
«Non solo, i nostri conoscono a menadito quel tratto di costa. Anche recentemente, nel corso del nostro ultimo viaggio», disse Cleopatra, «i nostri comandanti lo hanno percorso insenatura dopo insenatura.»
La tempesta era scoppiata improvvisa e violenta. Il vento aveva ingrossato senza sosta il mare per quattro giorni e quattro notti. Poi, alla fine, la calma era ritornata dinanzi al promontorio di Azio, zona scelta dalla regina come teatro dello scontro navale.
Sballottate da una residua onda lunga, le due flotte si erano schierate secondo gli ordini ricevuti dai rispettivi comandanti supremi.
Le forze in campo erano ingenti: una cinquantina di legioni tra i due contrapposti eserciti e quasi settecento navi. L’ago della bilancia pendeva sempre in favore di Antonio, supportato dalle truppe e dalla flotta egizie.
Il golfo di Arta, agli estremi confini meridionali dell’Epiro, veniva chiuso nel suo sbocco verso il mare Ionio da due penisole che quasi si sovrapponevano. Sulla lingua di terra più meridionale sorgeva la città di Azio.
Il naviglio battente i vessilli di Antonio si era schierato dinanzi alla bocca del porto, diviso in tre comandi. Nelle retrovie, pronta a prendere parte allo scontro, l’ammiraglia di Cleopatra – Antonias – con ventisei navi di scorta. Quella di Ottaviano, invece, si era schierata davanti alla flotta nemica, suddivisa anch’essa in tre comandi al cui vertice si trovava quel Marco Vipsanio Agrippa che in altre occasioni aveva dimostrato il suo valore e la sua fedeltà a Ottaviano.
Le navi si muovevano al ritmo delle onde lunghe e la corrente rendeva difficile mantenere la formazione senza ricorrere ai remi. Gli imponenti scafi di Antonio erano spesso costretti a macchinose manovre per rientrare nello schieramento. Più facile sembrava allinearsi per quelli di Ottaviano, assai più piccoli e maneggevoli.
A metà mattinata di un caldo inizio di settembre, la flotta comandata da Sosio si mosse all’improvviso dirigendosi verso il nemico che sbarrava il passo alle navi di Antonio. Quello fu il segnale d’inizio della battaglia.
Sin dalle prime battute parve evidente il vantaggio delle navi romane rispetto alle altre.
Entro poche ore quel tratto di mare placido ribolliva di schiuma. I corpi dei militari precipitati in acqua galleggiavano inerti, mentre le navi sfrecciavano travolgendoli per poi scontrarsi con secchi rumori di legni simili a boati di tuoni. Seppure il momentaneo vantaggio fosse in favore di Ottaviano, lo scontro ciclopico si manteneva in sostanziale situazione di parità.
Almeno sino a che le navi romane si aprirono all’improvviso quasi certamente a causa di un ordine errato.
Cleopatra, a quel punto, si mosse: i romani si sentirono perduti. Se l’ammiraglia e le altre ventisei navi egizie fossero penetrate nello schieramento, la flotta di Ottaviano avrebbe rischiato la capitolazione nell’arco di poche ore.
Cleopatra, invece, sulla tolda della Antonias, scrutava il mare in fiamme che la circondava. Le parole di Teie le erano tornate alla mente appena si era accorta della superiorità dei romani: navi più leggere potevano avere ragione di colossi inespugnabili, ma difficili da manovrare. Il panico aveva allora assalito la regina: doveva abbandonare il campo di battaglia e fuggire. Salvare il salvabile, l’Egitto e il tesoro del regno per rendere possibile la sua personale rivincita.
Gli uomini dell’ammiraglia erano alle manovre, in attesa dell’ordine di attacco. Inspiegabilmente la regina dispose di non ingaggiare battaglia, ma sfilare tra le navi romane per conquistare il largo.
Antonio aveva osservato la flottiglia di Cleopatra muovere e insinuarsi nello schieramento nemico. Quella geniale manovra poteva costringere Ottaviano a una rapida capitolazione. Antonio diede ordine di seguire la nave della regina per dare manforte all’amata nello scontro.
La sorpresa del generale fu enorme quando vide che l’Antonias procedeva senza colpo ferire e si portava in fuga oltre le linee nemiche. Dimentico dei suoi obblighi, dei suoi uomini e del suo grado, Antonio ordinò di abbandonare la battaglia e mettersi all’inseguimento di Cleopatra.
Lasciata a sé stessa e in mano a soldati, demoralizzati dalla fuga del condottiero, la flotta di Antonio e Cleopatra quella sera cessò di esistere: un centinaio di navi colò a picco, trecento si arresero, almeno cinquemila uomini perirono nelle acque prospicienti il promontorio di Azio.
La strada di Cesare Ottaviano verso Alessandria pareva spianata.
Teie prese posto tra la folla di curiosi che affollava la banchina. Il poco vento aveva fatto in modo che, dal momento dell’avvistamento a quello in cui l’ammiraglia raggiunse il porto di Alessandria, la voce del ritorno della regina avesse già fatto il giro della città.
Nessuno poteva però immaginare che la salvezza della sovrana fosse frutto dell’abbandono del campo di battaglia.
Cleopatra, dal canto suo, ordinò che la nave fosse parata a festa, fece stendere bandiere e stendardi lungo cavi fissati in testa d’albero. Nessuno doveva conoscere la gravità della disfatta.
Antonio, prostrato e affranto, si era chiuso in un mutismo preoccupante. Su di lui gravava come un macigno la responsabilità di aver abbandonato i suoi uomini al loro destino.
La verità sulla sconfitta nello scontro navale raggiunse Alessandria trasportata da alcune staffette terrestri inviate da uomini vicini a Ottaviano. La notizia prese a circolare tra il popolo nell’istante in cui l’Antonias doppiava il maestoso faro che dominava il porto e il dubbio s’insinuò tra i tanti accorsi per celebrare l’apparente trionfo della regina.
Così, le manovre d’ormeggio furono eseguite in uno spettrale silenzio: la gente, ammutolita, osservava incredula la nave reale bardata a festa, mentre si diffondeva sempre più insistente la notizia del clamoroso insuccesso.
«Che cosa ci fai qui?» chiese Cleopatra irritata. «Ti avevo detto che non volevo più vederti.»
La regina era l’ombra di sé stessa. Vistose occhiaie scure le segnavano gli occhi. I capelli di seta erano spettinati e unti, la voce resa roca dalla disperazione patita. Antonio stava forse peggio di lei. Curvo sotto il peso della colpa, appena raggiunta la città aveva voluto ritirarsi in un eremo sull’isola di Faro.
«Perdonami, regina, ma una sorella non può abbandonare la persona con cui ha condiviso la vita nel momento in cui ne ha più bisogno. Sono qui, per te», rispose Teie.
«Non ho bisogno di niente e di nessuno», le rispose con durezza Cleopatra.
«Se non per te, fallo per il tuo popolo. Fallo per i tuoi figli. Ottaviano è in marcia. Raggiungerà Alessandria nei prossimi giorni. Tu ben conosci la sua perfidia e sai bene anche che cosa significhi l’irruzione in città da parte di un esercito.»
«Ancora una volta leggi ovunque la disfatta. Passato questo momento di comprensibile smarrimento, il mio Antonio si metterà alla guida delle sue legioni e...»
La stessa Cleopatra si rendeva conto di quanto potesse essere improbabile ogni sua sillaba. Ma Teie non indugiò nel manifestare il suo pensiero.
«Quanti saranno gli uomini che seguiranno il tuo generale nell’attacco? Le diserzioni si ripetono a un ritmo preoccupante. E ancora la battaglia finale è lontana. Che cosa pensi possa accadere con i due schieramenti pronti a fronteggiarsi in armi? Quanti saranno disposti a rimetterci la vita in nome tuo e di Antonio?»
«Taci, Cassandra!»
«Cassandra non veniva creduta nei suoi vaticini, ma diceva sempre il vero», incalzò Teie. «Non era forse una tua ipotesi, in caso di sconfitta, quella di salpare verso il continente indiano per riorganizzarti? Lascia che almeno i tuoi figli seguano la rotta della salvezza.»
Cleopatra sedette spossata. Le parole della sua più sincera confidente avevano fatto breccia.
«Soltanto Cesarione partirà. I gemelli e Tolomeo rimarranno ad Alessandria: sono figli di Antonio e una loro fuga sarebbe male interpretata da quelli che ancora ci sono fedeli. In città scoppiano già continui tumulti, dopo che si è diffusa la notizia della disfatta di Azio.»
Il vento muoveva le grandi tende di lino candido. Le sale del palazzo, fino a poco tempo prima pervase dalla musica e dal vociare dei partecipanti alle feste sfarzose, adesso erano deserte. Cleopatra scoppiò in un pianto sommesso: tutto le sembrava perduto.
«Se gli uomini di Ottaviano dovessero avere la meglio e prendere Alessandria, promettimi che mi chiuderai nel mio mausoleo, Teie.»
«Hai la mia parola, regina.»
Nella mente prostrata di Antonio si faceva strada un pensiero ricorrente: e se Cleopatra lo avesse barattato con la propria libertà? A questo dubbio si aggiungeva la gelosia di un uomo innamorato che, ben conoscendo la sensualità della regina, temeva – forse non a torto – che lei avrebbe cercato di concupire anche il suo rivale.
Solo, rinchiuso nel suo eremo, si arrovellava in mille congetture: perché Cleopatra era fuggita con la sua flotta quando poteva attaccare e contribuire a dare una svolta alla battaglia? Perché non dava sue notizie da giorni?
Il tarlo ormai aveva scavato in profondità nella mente. L’isolamento amplificava ogni paura.
«Presto, generale. Ottaviano ha superato le paludi di Pelusio. A breve raggiungerà Alessandria.»
Antonio guardò il messaggero con aria assente, sembrava quasi non avesse capito la gravità del dispaccio. Poi si riscosse. Fece cenno all’ambasciatore di attenderlo e, di lì a poco, ricomparve nella stanza della casupola nella quale si era ritirato, vestito da generale con tanto di armatura e spada al fianco.
«Andiamo, allora. E che sia fatta la volontà degli dei.»
Ma gli dei dovevano essergli particolarmente avversi: quando i due eserciti si fronteggiarono alle porte della città, accadde l’imponderabile.
Teie era schierata al comando di una compagnia di soldatesse Cinnane. Si era resa conto delle scarse motivazioni con cui i militari che dipendevano da Antonio andavano alla guerra; non c’era spirito di corpo, orgoglio, ma soprattutto non c’era ormai più alcuna fiducia nel condottiero.
E la situazione precipitò quando, forse in preda ai deliri della sua mente sconvolta, Antonio sfidò in singolar tenzone il rivale.
La notizia si diffuse tra le truppe come un’onda, scatenando i suoi potenti effetti: il grande Antonio doveva aver perso il senno.
La postazione di Teie era leggermente sopraelevata rispetto al campo di battaglia. Partendo dal lato rivolto alla città, l’esercito di Antonio incominciò ad abbandonare lo schieramento e, lasciate a terra le armi, i soldati presero a darsela a gambe.
Teie, a denti stretti, sibilò una sola parola, «Cassandra», mentre, dal suo punto d’osservazione, i ranghi in rotta apparivano simili a formiche che fuggono dal fuoco.
Antonio in breve si ritrovò solo al centro del campo di battaglia e, fortuna volle, riuscì a riguadagnare uno spazio sicuro dove mettere in pratica il suo estremo disegno: tutto era ormai perduto.
Nel fuggi fuggi generale anche le valorose Cinnane avevano rotto le righe. Teie doveva ancora portare a termine una promessa. Rientrò in città mentre scoppiavano tumulti a ogni angolo. Raggiunse il palazzo non senza fatica e scortò una tremebonda Cleopatra sino al mausoleo a lei intitolato. Qui giunta, la regina, con la sola compagnia di due fidate ancelle, ordinò di chiudere i pesanti portali di bronzo, in modo che l’unica via per accedere al mausoleo fosse un tortuoso percorso con accesso dall’alto.
Antonio si sfilò la corazza, per un attimo parve riacquistare quella dignità che lo aveva consacrato eroe della romanità. Consegnò la sua spada a Eros, il più fedele dei suoi servi, e gli ordinò di ucciderlo.
Il servo rimase incredulo, la spada sguainata. Quindi, con gli occhi pieni di lacrime, in un gesto repentino, volse invece la spada verso il suo stesso petto e si trafisse.
«Tu mi insegni, valoroso servitore», mormorò Antonio, «come debba fare io per togliermi la vita.»
Antonio si gettò sulla lama della spada per provocarsi la morte.
La ferita era gravissima.
In un sussurro, il generale chiese ai suoi servi di finirlo. Per tutta risposta questi, atterriti, fuggirono via.
Abbandonato a sé stesso, Antonio restò riverso a terra.
La notizia raggiunse Cleopatra asserragliata nel suo mausoleo. Dall’unica via verso l’esterno fece pervenire a Teie l’ordine di recuperare Antonio vivo o morto e portarlo dalla regina.
Il generale non era ancora spirato quando fu adagiato accanto alla sua amata, l’unica che non l’aveva abbandonato. Cleopatra lo strinse a sé, baciò le sue labbra mentre le lacrime bagnavano il volto sempre più cereo di Antonio.
La regina sembrava preda di una folle disperazione: vagava nella stanza accanto al corpo del condottiero ormai privo di vita, urlava, si graffiava il volto e il seno, si gettava a terra.
Aiutata dalle due ancelle Eiras e Carmione, la regina compose il corpo, recitò alcune preghiere e parve riscuotersi: adesso voleva parlare con Ottaviano. Quella sarebbe stata la sola occasione per cui avrebbe abbandonato il mausoleo.
Con la morte di Antonio, Ottaviano si era di fatto ritrovato dittatore di Roma, come lo era stato Cesare, suo padre adottivo. Aveva ancora qualche conto in sospeso per assicurare alla sua reggenza una lunga e tranquilla vita. Buona parte di questi ostacoli risiedeva proprio ad Alessandria. Ma aveva tutto il tempo, ormai, di sistemare con calma ogni questione pendente.
Nulla vietava, in tutto questo, di accogliere l’invito della regina.
Cleopatra cercò di darsi un aspetto presentabile per l’occasione. Poi pensò che, per la parte che si apprestava a recitare, fosse opportuno apparire dimessa.
Si fece trovare su un pagliericcio, priva di trucco, con i segni evidenti delle ferite che si era inflitta al culmine della disperazione per la morte di Antonio. Ottaviano dovette riconoscere che era comunque bellissima.
Cleopatra, smesso il ruolo di attrice disperata, vestì i panni della parte che le riusciva meglio: quella di un’ammaliante seduttrice. Ma la freddezza con cui Ottaviano la respinse fu umiliante. E non solo, il vincitore lasciò balenare il suo trasferimento a Roma e la sua presenza al trionfo che sarebbe stato celebrato in onore del conquistatore dell’Egitto.
Ciò avrebbe significato che la regina sconfitta poteva esser tradotta in catene tra due ali di folla che le lanciava insulti. Sarebbe stato davvero troppo: era da tempo che Cleopatra aveva pronta una soluzione. Doveva soltanto metterla in atto.
Il mausoleo era presidiato da un nutrito contingente di guardie volute da Ottaviano e da altre – tra le quali Teie e alcune Cinnane – che dovevano vegliare sulla sicurezza della sovrana.
Il contadino arrivò curvo sotto il peso di una vita di duro lavoro. Recava in mano un cestino da consegnare alla regina in persona. Le guardie chiesero d’ispezionarlo e, quando si accorsero che c’erano solo dei fichi, il contadino esclamò: «La regina mi ha chiesto di portarle cose dolci che aiutino il suo umore».
La stessa Teie non si insospettì: il contadino era solito consegnare a Cleopatra delle primizie che lei amava particolarmente.
Il cestino fu calato all’interno del mausoleo. Nessuno poteva immaginare che quel paniere non fosse portatore di dolcezza, ma di morte.
Il primo ad allarmarsi fu proprio Ottaviano: Cleopatra gli aveva inviato un ultimo messaggio in cui erano contenuti i suoi propositi suicidi. Allertati così gli uomini di guardia, ordinò loro di sincerarsi della sua salute. I legionari, non ottenendo risposta dalle stanze interne, decisero di scardinare il portale e penetrare nel mausoleo.
Teie fu la prima a entrare. Eiras giaceva morta ai piedi della sua signora. L’altra ancella, Carmione, stava sistemando sul capo reclinato della regina il diadema dei Tolomei. Ultimata l’operazione l’ancella accarezzò il volto pallido e si allontanò barcollando. Cleopatra portava al dito l’anello con lo smeraldo appartenuto a Teie, quello che non aveva mai trovato il tempo di restituirle. Con movimenti incerti l’ancella si coricò a terra e chiuse gli occhi. Il veleno, probabilmente quello di un serpente o di una pozione nascosta nel cestino recapitato dal contadino, aveva ucciso anche lei.
Cleopatra giaceva sdraiata, respirava a fatica. Teie si gettò su di lei, la prese per le spalle «Che cosa hai fatto, mia regina... che cosa hai fatto?» gridò Teie, disperata.
Cleopatra era a un passo dall’abisso, aprì i suoi begli occhi verdi ormai privi d’espressione e sussurrò: «La mia ombra... La mia ombra... Fa’ che non mi separino mai dall’uomo che amo...» Richiuse gli occhi ed emise un ultimo, prolungato sospiro.