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1816
L’inverno trascorreva mite e sembrava quasi che i suoi rigori non riguardassero quell’angolo di paradiso. A metà marzo, la Sicilia appariva smagliante nei suoi colori accesi.
Sarah indossava abiti di foggia maschile con sciarpe di seta annodate al colletto come fossero cravatte. Nei primi giorni le messinesi la guardarono con sospetto, poi il sentimento si tramutò in fiducia e affetto. Quell’eccentrica inglese, compagna di un gigante che parlava un italiano condito di termini stranieri, sembrava voler indicare un futuro diverso alle donne dell’isola.
«Che cosa ti succede, Giovanni?» chiese un giorno Sarah vedendolo rincasare pensieroso.
«Bonaparte ha lasciato l’esilio dell’Elba», rispose lui, spiccio.
«Vuoi dire che è fuggito?»
«Le prime notizie dicono che se ne sia andato in pompa magna: a salutarlo all’imbarco c’era quasi tutta Portoferraio, compreso il primo cittadino.»
«E come ha fatto a fuggire?»
«Da settimane i suoi fedelissimi stavano rimettendo in armo l’Inconstant, un agile due alberi che si era arenato qualche tempo prima sulle spiagge dell’Elba. Il brigantino ha toccato terra a Golfe-Juan, in Francia, il primo marzo. Le ultime notizie danno Napoleone in marcia verso Parigi per ricostituire le sue armate.»
«E io che mi ero illusa di poter vivere finalmente in pace!» esclamò Sarah, non senza una lieve ironia. «E adesso che cosa accadrà?»
«Non penso a orizzonti tranquilli, moglie mia. In patria Bonaparte gode ancora di un gran seguito: i francesi non vedono l’ora di vendicarsi per la sconfitta subita dagli inglesi. Radunate le forze, l’imperatore dirigerà contro il suo storico nemico e riprenderanno gli scontri.»
«Ricomincerà la guerra in Europa.»
«Non solo sulla terraferma. Anche in mare, Sarah. Se vogliamo proseguire verso sud, dobbiamo muovere le tende, prima possibile.»
«Volevo proprio chiederti quanto pensavi di restare ancora in Sicilia.»
«Ti annoi, forse?»
«Certo che no, Giovanni. Ma non amo troppo le fisse dimore.»
Le brezze calde della primavera spazzavano Malta, strenuo baluardo nel cuore del Mediterraneo.
Giovanni Battista provava emozioni intense nel ripercorrere con le sue gambe i passi della grande Storia: Malta riservava scoperte millenarie a ogni crocevia.
Non era facile, però, riuscire a dissipare le nubi di preoccupazione che offuscavano il buon umore di Belzoni: i pochi risparmi racimolati con il lavoro in teatro si andavano esaurendo. Le terre che avevano visitato, pur bellissime e ospitali, non offrivano possibilità d’impiego per un attore. Men che meno per un progettista idraulico.
«La moglie dell’addetto britannico alla Valletta è una persona squisita», disse Sarah. «Oggi abbiamo trascorso un pomeriggio piacevole assieme ad altre connazionali. Claire mi ha detto che in settimana vorrebbe organizzare un rinfresco al consolato. Ci farà avere l’invito. Ho detto che mio marito è un esperto in macchine idrauliche e si diletta di teatro.»
«Non hai raccontato bugie. Hai solo invertito i ruoli: campo facendo Sansone, ma la mia passione rimane l’acqua. E poi...»
Belzoni non smentì, neppure in quella occasione, la sua fama di uomo rude: bofonchiò qualche frase di disappunto, mentre Sarah si affrettava a rintuzzarlo con allegra malizia.
«Credo sia meglio abbandonare la pelliccia dell’orso e vestire quella del devoto suddito di sua maestà. Se vogliamo trovare di che sbarcare il lunario, dobbiamo coltivare la conoscenza del console.»
La facciata della residenza del diplomatico britannico, un antico palazzo costruito con blocchi squadrati di pietra calcarea, era illuminata da torce disposte a intervalli regolari e sorrette da bracci di ferro battuto. Le carrozze si fermavano davanti all’edificio giusto il tempo per far scendere i loro eleganti occupanti.
La distanza tra l’alloggio dei Belzoni e la loro meta non era proibitiva. Anche per questo motivo – oltre che per la penuria di finanze – Sarah e Giovanni avevano deciso di andare a piedi al ricevimento.
Claire si mostrò affettuosa con i coniugi, presentò a entrambi l’autorevole consorte e rinnovò la sua disponibilità a favorire qualsiasi opportunità si fosse offerta a due connazionali lontani dalla patria.
Quindi la donna prese Sarah sottobraccio e accompagnò entrambi in un giro di presentazioni nel salone già affollato.
«Signor Gibraltar», disse Claire affiancando un ospite. «Lasci che le presenti il nostro Giovanni Battista Belzoni. Un portentoso – come ben si può vedere – ingegnere idraulico.»
Il signor Gibraltar indossava abiti eleganti e alla moda. Osservò Belzoni dal suo monocolo, si arricciò i baffi ed esclamò: «Siete italiano, quindi...»
«Padovano, per la precisione. Ma da qualche tempo ho assunto la cittadinanza britannica», rispose Giovanni senza nascondere una punta d’orgoglio.
«Un compatriota», Gibraltar gli porse un calice di vino. «Brindiamo, allora, al nostro regno lontano. Siete un ingegnere, diceva Claire?»
«Esperto in idraulica. Mi diletto con le macchine capaci di sollevare, far scorrere e far precipitare l’acqua.»
«Un lavoro interessante, signor Belzoni. Particolarmente interessante per le persone di cui curo gli interessi.»
Claire tornò presso di loro in quell’istante e prese spunto dalle ultime parole di Gibraltar: «Non vi ho detto, amici miei», disse rivolta ai Belzoni, «che il signor Gibraltar è il plenipotenziario per gli interessi del pascià d’Egitto...»
«E come funzionerebbero le vostre macchine, signor Belzoni?» chiese interessato l’uomo d’affari.
«Grazie a un meccanismo di leve e ingranaggi, un solo animale potrebbe essere in grado di eseguire il lavoro che fanno una ventina di uomini per sollevare l’acqua da un pozzo profondo...» rispose Giovanni.
Quell’incontro gli avrebbe cambiato la vita.
Vista dal mare, Alessandria d’Egitto era una distesa di case basse dai colori chiari. I fabbricati erano illuminati dal sole caldo degli ultimi giorni di primavera. A osservarla in prossimità dell’approdo si poteva intuire il viavai di uomini e di carri nelle immediate vicinanze del porto.
«Non vi spaventate, Belzoni», disse Gibraltar indicando la terraferma dal ponte della nave che li aveva trasportati in Egitto. «Ci si abitua presto a quella vita e a queste temperature. E, quando meno te lo aspetti, l’Egitto ti entra nel sangue, così diventa difficile abbandonarlo.» Gibraltar fece una breve pausa, quasi per riprendere il filo del suo pensiero. «Penso che dobbiate sapere alcune cose sul pascià, prima di trovarvi al suo cospetto. Mehmet Alì proviene da una famiglia albanese. È nato in Macedonia, che è parte dell’Impero Ottomano. Ha imparato a dare il giusto valore al denaro quando svolgeva le mansioni di esattore delle tasse nella sua regione. In Egitto è arrivato grazie a Napoleone e alle sue manie di grandezza. Dopo il ritiro delle truppe francesi dalla disastrosa campagna d’Egitto, questo Paese era in ostaggio di bande tribali prive di controllo, tanto che gli ottomani dovettero ricorrere all’invio di mercenari per riportare l’ordine nella regione. Mehmet Alì rivestiva il grado di ufficiale all’interno del contingente albanese inviato in Egitto. E riuscì talmente bene a ristabilire l’ordine, da diventare figura benvoluta tra la maggioranza dei capitribù indigeni. Una volta ottenuta la tregua nelle schermaglie locali, Mehmet Alì fece pesare l’ascendente che si era conquistato presso l’imperatore. Anche il sultano ottomano dovette ammettere che, senza quel mercenario albanese, la provincia dell’Egitto gli sarebbe sfuggita di mano. Fu quindi un passaggio pressoché obbligato quello di nominarlo wali, pascià. Insomma, è come se fosse un ’viceré’. Un governatore attento e scrupoloso, che non perde mai di vista gli interessi dell’Egitto e che possiede la giusta ambizione di passare alla Storia per il suo buongoverno.»
«Il pascià», aggiunse Belzoni, «deve essere dotato di un grande... potere contrattuale: gli echi delle lotte tribali egiziane sono giunti sino a Londra. Non so se risponde al vero, ma mi risulta che abbia sterminato i capi mamelucchi in un agguato...»
«È vero, Giovanni. Ma la guerra giustifica anche le azioni meno edificanti», ribatté Gibraltar. «Non è stato semplice e non crediate che oggi l’Egitto sia un’oasi di pace. Il pascià ha soffocato rivolte e opposizioni nel sangue e usato il pugno di ferro per ottenere pace e rispetto. È riuscito ad arrivare a una semplice tregua, ma sempre di una tregua si tratta: ci sono poteri trasversali pronti a spodestare l’intruso al primo passo falso. Comunque, vedrete: il pascià è una persona attenta, capace di ascoltare e valutare il suo interlocutore. Le macchine per irrigare che voi proponete solleticheranno la sua curiosità. La rinascita dell’Egitto passa attraverso il potenziale agricolo del Paese, ma il primo ostacolo da superare è la cronica carenza idrica.»
Mehmet Alì aveva avviato una riforma agraria secondo le sue personali convinzioni: l’Egitto doveva specializzarsi in una coltura che lo distinguesse dagli altri Paesi. Il pascià aveva così individuato nella coltivazione del cotone l’arma vincente e, grazie a un contratto particolarmente vantaggioso con il Regno Unito, l’idea del wali si era rivelata felice al punto che l’offerta non riusciva a soddisfare la domanda.
«Per aumentare la produzione del prezioso cotone egiziano», disse Gibraltar, «serve una sola cosa: acqua per irrigazione.»
«Sono qui per questo, signor Gibraltar», disse Belzoni con fare sicuro.
Il trambusto che avevano immaginato osservando il porto dalla nave si rivelò ancor più caotico una volta scesi a terra: le banchine di Alessandria d’Egitto erano piene di merci e percorse da lunghe file di facchini.
«Appena sbarcati, andate pure in albergo a riposarvi», disse James rivolto ai coniugi Belzoni. «Penserò io ai bagagli e vi raggiungerò prima possibile.»
Ma, una volta giunti a terra, li aspettava una sgradita sorpresa.
Un drappello di militari egiziani era schierato ai piedi della passerella. I soldati smistavano passeggeri ed equipaggio, a mano a mano che sbarcavano, e dopo averli identificati li avviavano verso una specie di recinto. Qui un carro ambulanza compariva a intervalli regolari, caricava i viaggiatori e li portava via.
«Che succede, signor Gibraltar?» chiese Giovanni preoccupato.
«Si è sviluppata una nuova epidemia di peste. Credo che ci terranno in isolamento per qualche giorno», rispose l’inglese.
«E dove ci porteranno?» chiese ancora il gigante.
«Vorrei evitarvi l’ospedale. Lasciatemi parlare con il comandante dei militari», disse l’uomo infilando una mano in tasca per essere pronto a elargire un lauto bakshish al soldato.
Poco più tardi l’ufficiale ricomparve accompagnato da un europeo.
«Dalla padella dell’epidemia, alla brace dei francesi», sussurrò Gibraltar mentre il militare e lo sconosciuto si avvicinavano.
«Come avete detto?» chiese lumi Belzoni.
«L’europeo che accompagna il giannizzero è Bernardino Drovetti, già console di Francia in Egitto e persona scaltra come poche altre. Ha un solo credo: fare affari a qualsiasi costo.»
«Signor Gibraltar!» esclamò l’ultimo arrivato salutando calorosamente. Indicò il militare e proseguì, parlando in inglese stretto: «Ho provato anche io a saggiare il prezzo per il disturbo di questo ’gentiluomo’, ma senza successo: dice che quello che poteva fare lo ha già fatto, conducendomi al vostro cospetto. Che cosa altro posso fare per voi, signor Gibraltar?»
Il sole era caldo e i rumori del porto echeggiavano lungo la banchina della quarantena.
Gibraltar si tolse il cappello, si asciugò la fronte con un fazzoletto candido e proseguì: «Mi permetto, signor Drovetti, di chiedervi la gentilezza di alloggiarci presso le casermette degli ufficiali francesi qui in città. Evitare le corsie ospedaliere sarebbe già un buon risultato per il sottoscritto, per i signori Belzoni e per il loro segretario, che mi accompagnano».
«Lieto di conoscervi, signor Belzoni. Siete italiano?» disse Drovetti squadrando il gigante.
«D’origine. Ma ho ottenuto la cittadinanza britannica già da qualche anno. Mia moglie è inglese, di Bristol. Voi, invece, siete italiano?»
«Piemontese. E sono stato a lungo console di Francia in Egitto. Considerate le strutture militari a vostra disposizione. Certo, non saranno una reggia: furono usate dagli ufficiali durante la campagna d’Egitto di Napoleone. Sempre meglio dell’ospedale d’Alessandria.»
La quarantena si rivelò più lunga del previsto. Ma il signor Gibraltar, forte delle sue conoscenze e grazie a consistenti liberalità, riuscì, comunque, a svincolarsi dall’internamento dopo una sola settimana.
«Preparerò al Cairo ogni cosa per il vostro arrivo, amici miei», disse il diplomatico inglese abbandonando la casermetta. «Vedrete che mi lavorerò talmente bene il pascià che non starà nella pelle all’idea di conoscervi.»
Finalmente, ai primi giorni di luglio, i tre s’imbarcarono verso la capitale egiziana. Ma il viaggio sul grande Nilo si rivelò arduo e lento. Eppure, quando il vento prese a spirare favorevole alla loro navigazione e le notti arrivarono a mitigare l’arsura del giorno, Giovanni, Sarah e James rimasero per ore a osservare la vegetazione che sfilava lungo le rive e si interrompeva spesso, per lasciare spazio ad antiche rovine così malmesse da apparire irriconoscibili.
Quando raggiunsero il sito sacro di Dendera, Giovanni chiese al barcaiolo di sostare il tempo necessario per ammirare quelle monumentali vestigia antiche.
Giunti al Cairo, dietro suggerimento di Drovetti, affittarono un buco così maleodorante che definirlo appartamento suonava molto lontano dalla realtà. Appena sistemati rintracciarono Gibraltar e si misero a disposizione per incontrare il pascià, che fissò loro udienza alcuni giorni più tardi.
Approfittando del tempo che avevano, i Belzoni si concessero una gita di piacere.
Sulla piana di Giza regnava il silenzio, rotto dal sibilo costante di una brezza calda e sostenuta. Mulinelli di sabbia smossa dal vento s’inseguivano vorticando nei pressi dei monumenti.
Belzoni osservava ammirato le opere che, a distanza di secoli, ancora erano capaci di accendere interrogativi irrisolti. Il volto enigmatico della sfinge spuntava incerto, semisommerso da una colossale montagna di sabbia.
«Non ti senti piccolo, Giovanni, dinanzi a tanta maestosità?» chiese Sarah cingendolo in un abbraccio. Sarah conosceva le parole da pronunciare per rafforzare – se mai fosse stato possibile – il loro amore.
«Piccolo io, moglie cara? Risulterebbe difficile di fronte a un milione di piramidi. Ma, adesso, andiamo se vogliamo tornare prima del tramonto: domani ci aspetta l’incontro con il viceré d’Egitto. Che una notte lunga millenni vegli su di voi, meraviglie del genio umano», disse Belzoni accomiatandosi dai monumenti. Il suo tono era quasi scherzoso.
L’ampio patio si affacciava sul porto fluviale della città. Mehmet Alì pascià aspirò una boccata dal narghilè a fianco del divano sul quale era seduto. Dietro le sue spalle la vita si svolgeva frenetica: c’era almeno una dozzina di navi alla fonda in attesa d’ormeggio e altrettante erano in banchina per le operazioni di carico e scarico. Una moltitudine di piccole vele, canoe, gusci e barchette solcava lo specchio acqueo nello slargo del Nilo.
Il pascià lasciò uscire il fumo dalla bocca con piacevole lentezza, quasi volesse assaporare il più a lungo possibile la miscela di tabacco Virginia impregnato di melassa che ardeva nel braciere. Squadrò Belzoni e non dissimulò il suo stupore nel constatarne la mole.
Il wali non era alto. Indossava dei calzoni alla zuava e un corpetto dai ricami in oro. Un’ampia fascia di seta bianca lo cingeva in vita, dove era assicurata una preziosa scimitarra dall’impugnatura intarsiata in oro e incastonata di pietre preziose. Sul capo calzava un fez rosso come il divano su cui sedeva a gambe incrociate. Aveva gli occhi scuri e uno sguardo penetrante. Una barba candida e fluente addolciva i lineamenti del viso e ne rabboniva l’espressione.
«Non credevo foste un gigante, signor Belzoni», disse il viceré d’Egitto in buon inglese. «Accomodatevi», aggiunse indicando un posto sul divano a una rispettosa distanza da lui.
Sedute sotto al patio si trovavano altre due persone, oltre a Gibraltar, che il wali si curò di introdurre personalmente, iniziando da quello che occupava la carica più alta: «Il console di sua maestà britannica, il signor Salt, e il mio consigliere personale, il visir Bahir Hadi».
Gibraltar aveva accennato a Giovanni la scarsa stima che nutriva nei confronti del visir: troppo attaccato al potere e al denaro per essere considerato affidabile.
Espletati i convenevoli, Mehmet venne al dunque confermando la sua proverbiale indole pragmatica.
«Il signor Gibraltar mi ha riferito che siete un esperto in macchine idrauliche, signor Belzoni...»
«È così, eccellenza», rispose Giovanni.
«E quali sarebbero le caratteristiche di questo congegno tanto rivoluzionario da abbattere drasticamente la manodopera?»
«Un dispositivo assai semplice, vostra maestà.» Belzoni dispiegò un foglio e prese a descrivere il disegno lì ritratto. «Come vedete, la macchina è essenzialmente costituita da una ruota alla quale vengono fissati gli orci. Un albero di trasmissione la collega a una puleggia dentata. Gli ingranaggi trasmettono il moto alla ruota, gli orci affondano nel pozzo e si riempiono d’acqua per svuotarsi grazie alla gravità nel corso della loro ridiscesa verso il fondo del pozzo.»
«Mi è stato detto», disse Mehmet dopo aver osservato il disegno con attenzione, «che la forza motrice è rappresentata da un solo animale...»
«È così, eccellenza: il sistema d’ingranaggi da me concepito demoltiplica pesi e resistenze. Un solo bue o un asino possono azionare la pompa senza eccessivo sforzo.»
«Quanto tempo vi occorre, Belzoni, per realizzare un campione a grandezza naturale funzionante?» chiese il wali.
«Diciamo... tre mesi, eccellenza», rispose Giovanni spiazzato dalla richiesta.
«Bene, vi concedo quarantacinque giorni. Poi, vorrò personalmente valutare il funzionamento della vostra invenzione e decidere se impiantare dei macchinari simili nel nostro Paese.»
Appena fuori dal palazzo del viceré, Belzoni si rivolse al console britannico.
«Mi serviranno maestranze capaci, carpentieri, manovali e legni pregiati. A chi posso rivolgermi, signor console?»
«Ho paura che la manovalanza indigena vi deluderà, signore», rispose Salt. «Gli egiziani non sono dei lavoratori infaticabili e diventano ancor meno attivi se devono obbedire a quello che vedranno sempre come un infedele.»
«Se avete ragione, come farò a completare il modello in un solo mese e mezzo?»
«Per quanto mi riguarda, avete tutta la mia disponibilità. Mi darò da fare per trovare quello che serve. Sono convinto che il wali vi concederà comunque qualche giorno di proroga. Qualche giorno e non molto di più. Lo conosco bene, proprio per questo ho percepito che nutre per voi un’epidermica simpatia. Sfruttatela a vostro vantaggio, Belzoni.»
Sarah e James lo assalirono curiosi appena varcò la soglia. «Allora? Com’è andata?» chiese Sarah impaziente.
«Bene», commentò laconicamente Giovanni.
«E me lo dici con questo tono?» chiese Sarah stupita.
«Il pascià mi ha commissionato una macchina, ma non mi concede il tempo necessario per realizzarla: forse mi conviene rinunciare subito, prima di essere costretto a fare una brutta figura.»
«Perché dici questo? Quanto tempo ti ha dato?» chiese Sarah.
«Quarantacinque giorni da oggi...»
«Ce la possiamo fare, Giovanni», disse lei senza nascondere l’entusiasmo. E la più ferrea delle convinzioni, pur occultata dall’allegria.
«Durante l’attesa che voi tornaste con la risposta del wali, signor Giovanni», intervenne James, «mi sono guardato intorno proprio pensando a un incarico da parte del viceré. Ho trovato un deposito di legnami a poca distanza da qui. Lì, mentre visionavo tronchi e legni, sono stato avvicinato da una specie di caporione locale. Mi ha garantito operai a volontà. A patto di ricevere un buon trattamento economico.»
«Proviamoci, allora. Andiamo assieme a visitare questa rivendita di legnami e a parlare con il capo operaio. Non perdiamo altro tempo!»
Era trascorso qualche giorno dall’incontro tra Belzoni e il viceré d’Egitto. Mehmet Alì aveva appena ricevuto un alto ufficiale e discusso di iniziative militari nel Nord del Paese. Le rivalità tribali sembravano una malattia endemica al pari della peste: erano capaci di covare sotto la sabbia del deserto per mesi, per poi esplodere all’improvviso. Bisognava reprimere sul nascere il minimo cenno d’insubordinazione, altrimenti il malcontento avrebbe ripreso a serpeggiare tra nobili e capitribù.
Il volto del pascià era teso. La sua espressione non mutò quando il visir Bahir Hadi s’inchinò al suo cospetto.
«Che cosa sono?» chiese Mehmet indicando le carte che il consigliere stringeva in mano.
Hadi non aspettava altro. Aprì i volantini pubblicitari sul tavolo e rimase in silenzio.
Il pascià si accarezzò la barba e accennò un sorriso.
«... E chi sarebbe questo... questo Sansone Patagonico?»
«Il vostro esperto ingegnere idraulico, eccellenza. Il personaggio che dice di poter irrigare i deserti dell’Egitto è soltanto un fenomeno da baraccone.»
Il pascià scoppiò a ridere. «Se è capace di caricarsi in spalla undici persone, forse è anche in grado di risolvere le nostre millenarie carenze idriche.»
«Perdonatemi, eccellenza, ma non vedo come possa un circense riuscire dove millenni di studi hanno fallito. Credo che dovremo continuare a servirci di metodi tanto antichi quanto efficaci.»
«Vi sembra ancora possibile, nel diciannovesimo secolo, che l’acqua sia trasportata a spalla da interminabili file di portatori? Anzi, è possibile, e la desertificazione ne è il segnale più lampante», rispose il viceré.
«È anche vero, eccellenza», insinuò subdolo Hadi, «che il trasporto d’acqua offre da vivere a una moltitudine di persone che altrimenti sarebbero costrette alla fame o, peggio, alla ribellione.»
«Il trasporto d’acqua, mio visir, garantisce solo la sopravvivenza di privilegi di stampo feudale. Quella che chiamate ’moltitudine di persone’ è in realtà la clientela di potentati locali. Sono persone costrette in schiavitù alle quali viene garantito il sostentamento con un ricatto esecrabile quanto faticoso: spaccati braccia e gambe a trasportare vasi ricolmi d’acqua e avrai una misera razione di cibo. Se invece quelle terre aride fossero coltivate e produttive, gli schiavi facchini diventerebbero in poco tempo degli agricoltori autonomi. Chi ne uscirebbe danneggiato sarebbe esclusivamente chi si serve di quella gente per accrescere il proprio potere e le proprie ricchezze. Ben vengano degli stranieri intraprendenti come quel Belzoni. Grazie a loro, forse, faremo uscire l’Egitto dalla preistoria.» Mehmet fece una pausa e riprese, severo. «Come avete fatto a entrare in possesso di quel materiale?»
«Pensavo fosse mio dovere indagare su chi si propone al mio signore...» rispose Hadi.
«Volete dire che avete fatto perquisire l’alloggio di Belzoni e avete rubato i volantini?» Il viceré aveva un’aria adirata.
«Non proprio, eccellenza. Due o tre uomini fidati hanno approfittato dell’assenza dei Belzoni e hanno prelevato questi oggetti di scarsissimo valore. Nessuno si è accorto di nulla.»
Il visir si trovò il dito indice del pascià puntato in faccia: «Non accada mai più, visir Hadi. Mai più. Lasciate lavorare in pace l’ingegnere».