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Egitto. 1816
La rivendita di legname era molto fornita e ordinata. Il proprietario era un abile commerciante capace di rifilare una canna di papiro al prezzo di un albero secolare.
«Guardate qui, signori: il legno della Bibbia e del Corano», disse l’uomo senza far nulla per nascondere quanto fosse orgoglioso nel mostrare i tronchi d’acacia nera accatastati. «Secondo le Scritture, con questo legno fu costruita l’arca che resistette al diluvio.»
Belzoni salì agilmente sul mucchio. Esaminò da vicino la merce e raggiunse nuovamente Sarah e James.
«Dobbiamo fare qualche conto sul materiale necessario. Domani saprò essere più preciso. Nel frattempo lasciate che io prenda nota dei prezzi...» Giovanni estrasse un blocco di carta e un lapis e iniziò a scrivere quanto l’egiziano gli dettava.
«So che il vostro segretario», disse ancora il commerciante, «ha parlato con mio fratello per la manodopera.»
«James mi ha accennato qualche cosa. Anche per capire quanto personale impiegare, dovrei avere un’idea dei costi...» disse Belzoni.
«Tranquillo, effendi. Hussam vi darà ogni spiegazione.»
L’egiziano emise un fischio acuto e, dalla parte opposta del deposito, comparve il fratello. Indossava dei pantaloni col cavallo molto basso, una tunica di cotone e un copricapo di foggia ottomana assai simile a un turbante. Gli abiti erano di un candore abbagliante. Forse troppo puliti, eleganti e immacolati per un procacciatore di manovalanza.
«Eccomi a voi, agha», disse Hussam inchinandosi con deferenza. Riconobbe James e lo salutò come se fosse un caro amico. «Io vi posso fornire ogni tipo di manodopera, dallo sterratore al progettista. Dovete soltanto chiedere e io accontenterò ogni richiesta.»
Nonostante le offerte dell’egiziano e le sue insistenze per suggellare un accordo, Belzoni restò sul vago: consegnare nelle mani di quel personaggio l’esito del suo rapporto con il pascià gli pareva azzardato. Al contrario del fratello – scaltro ma capace –, Hussam non gli piaceva per nulla. Decise che avrebbero comprato il materiale necessario alla costruzione della macchina in quel magazzino, ma non si sarebbe servito di Hussam per il reperimento e la direzione della manovalanza.
Usciti dal deposito di legname, avevano fatto pochi passi quando un uomo si fece vicino. Indossava abiti indigeni ricercati. La sciarpa di cotone gli copriva parte del collo e del viso, lasciando però intravedere una carnagione lattea.
«Scusate se mi permetto, signori», disse lo sconosciuto in ottimo inglese. «Un terzetto come il vostro non passa inosservato per le vie del Cairo. Sono Lewis Burckhardt», disse presentandosi con educazione.
«Tedesco?» chiese Belzoni.
«Svizzero, per l’esattezza. Ma uomo libero, per la precisione.»
«Qual è la vostra occupazione, signor Burckhardt?»
«Mi sarebbe difficile essere preciso: spazio da un’attività all’altra. In sostanza curo gli interessi degli occidentali in una terra non facile come questa. Non crediate però che io sia qui per offrirvi i miei servigi: vi ho visti circolare in compagnia del mio buon amico Gibraltar e non credo vi sia miglior mediatore di lui per fare affari in Egitto. Mi faceva piacere scambiare qualche parola con degli europei e, se ci fosse bisogno, rendermi utile.»
«Vi sono grato, signore», disse Belzoni soddisfatto. «Stavamo proprio cercando qualcuno che ci aiutasse a orientarci in queste terre.»
«Al vostro servizio. Ma intanto togliamoci da qui. Venite con me: servono un ottimo tè in un bazar vicino al palazzo del viceré.»
Burckhardt era una persona conosciuta in città e molti si rivolgevano a lui con stima e rispetto.
«Non fidatevi mai, signor Belzoni, delle apparenze: molti locali covano un profondo risentimento per coloro che considerano degli ’infedeli’. Con gli egiziani non si scherza, ancor meno con i cittadini di nazionalità turca che abbondano al Cairo.»
Mentre uno degli inservienti posava sul tavolino basso una teiera d’argento e alcune tazze, Burckhardt smise di parlare e attese che se ne andasse.
«Sempre meglio non far trapelare neppure un pensiero quando le orecchie degli indigeni ascoltano.»
«Voi stavate parlando velocemente in inglese, signore. Non è facile per un egiziano capirvi...» intervenne Sarah.
«Non sottovalutateli mai, signora. Dove alloggiate in città?»
«Un piccolo appartamento messo male. Ce lo ha trovato l’ex console francese...» disse Belzoni.
«Drovetti?» chiese Burckhardt di getto.
«Lo conoscete?»
«Al Cairo sono in pochi a non conoscerlo. Io faccio affari con lui. Ma mantengo le dovute distanze.»
Nell’osservare quell’elegante forestiero, Belzoni si ritrovò a pensare che fosse divorato dall’ansia di essere spiato.
«So a che cosa state pensando, signor Belzoni», lo prevenne Lewis Burckhardt. «Non sono ossessionato dalle spie. Sono realista e conosco bene questo Paese. Voi mi sembrate ottime persone, ma – perdonatemi per le mie parole e non consideratele come un’offesa – vi muovete come ingenui in un territorio pieno d’insidie.»
«Forse non è il nostro caso, signore», obiettò Giovanni. «Non abbiamo ancora mosso un passo in Egitto.»
«Ma avete già sollevato un sacco di polvere... o meglio d’acqua. La notizia di un contratto per la costruzione di un prototipo capace di sollevare l’acqua dalle profondità del terreno ha già fatto il giro di alcuni ambienti. Non avrete vita facile, Belzoni. L’acqua a portata di tutti comprometterebbe equilibri e privilegi che in Egitto esistono da millenni.»
Burckhardt sapeva molte più cose sui loro movimenti di quanto Belzoni immaginasse.
«A maggior ragione, signore», Giovanni aveva deciso di giocare la stessa partita del suo interlocutore, «quali sono i vostri consigli per muoverci senza rischi in quello che considerate un vespaio?»
«In questo momento sono essenzialmente due: lasciate la stamberga in cui vivete. Quella casa viene visitata quotidianamente da ’curiosi’ che vi tengono sotto controllo. E non affidatevi a Hussam per nessun servigio. Al contrario del fratello, Hussam è persona poco raccomandabile.»
Giovanni si accarezzò pensoso la barba. Lo svizzero, pur misterioso e criptico, gli ispirava fiducia: «Ero giunto a una conclusione analoga, grazie. Voi che cosa ci consigliate di fare, signor Burckhardt?»
«Ho un appartamento libero e in ottime condizioni poco lontano da qui. Sono disposto ad affittarvelo allo stesso prezzo di quanto versate a Drovetti. Per quanto riguarda, poi, la forza lavoro che cercate, datemi qualche giorno di tempo. Vi troverò la manodopera necessaria, anche se non me la sento di garantire sulla produttività degli operai egiziani.»
«Che cosa chiedete in cambio per questi vostri consigli?»
«Nulla. Voi mi sembrate un gentiluomo, Belzoni, e non trovo giusto che qualcuno riservi certe accoglienze a delle persone perbene. Mi fa piacere esservi d’aiuto in un Paese difficile come questo. Poi, se l’amicizia maturerà tra di noi, avremo modo di esserci reciprocamente utili. Statene certo, Giovanni.»
Furono sufficienti pochi giorni di lavoro per far capire a Belzoni che cosa intendesse lo svizzero: l’attività procedeva, ma gli operai erano lenti, sfaccendati, poco precisi e, sempre più spesso, chiedevano un aumento del compenso. Tra i tanti scansafatiche, il giovane interprete Shomu sembrava diverso dai suoi connazionali: era gentile e servizievole. Era egiziano di religione cristiano-copta. Conosceva diverse lingue e alcuni dialetti africani. Accompagnava Giovanni dall’alba al tramonto e traduceva ogni sua parola agli interlocutori indigeni.
Nel contratto sottoscritto dal padovano con il pascià era prevista una somma a fondo perduto che avrebbe coperto la costruzione dell’opera e la concessione di un terreno, poco distante dal Nilo, dove era presente un vecchio pozzo ancora attivo.
Belzoni aveva disposto di effettuare uno scavo lungo una decina di metri e largo un paio. All’interno della trincea aveva fatto piantare dei pali nell’acqua che sgorgava dalle profondità del terreno. La palificazione serviva a sorreggere la ruota con gli orci. In un secondo scavo, perpendicolare al primo, correva invece l’albero di trasmissione che era collegato, attraverso un sistema d’ingranaggi in legno, alla ruota motrice in superficie. Lì avrebbero aggiogato il bue per una prova alla presenza di Mehmet Alì pascià. Il tempo passava però veloce e i quarantacinque giorni concessi si andavano esaurendo senza che la macchina fosse ultimata e pronta a funzionare.
«Forza, Giovanni! Dobbiamo farcela», disse Sarah ormai ridotta a una maschera di fango. Anche la donna si era unita alla forza lavoro per completare la pompa di sollevamento nei tempi stabiliti. «Domattina arriverà il viceré con il suo seguito e non possiamo fallire.»
Per tutto il periodo necessario a costruire il prototipo, Sarah era stata indispensabile. Non solo aveva lavorato come e meglio del più tenace tra gli uomini, ma la sua allegria era la nota che aveva permesso di superare le mille difficoltà quotidiane e le tante volte in cui, Giovanni per primo, erano stati sul punto di desistere. Bastava, però, intuire un cedimento e Sarah interveniva senza che nessuno se ne accorgesse. Del resto, conosceva le corde da pizzicare per stimolare il marito. Punzecchiare Belzoni nell’orgoglio equivaleva ad afferrare un parafulmine durante una tempesta: c’era il rischio che tutta la forza del cielo si scatenasse sull’asta di metallo. Così lei faceva partire la scintilla, lui reagiva e il risultato arrivava.
«È una prova importante, Giovanni», continuò Sarah. «Domattina avremo gli occhi di tutti puntati addosso. Ma ci sarà qualcuno che non sarà contento se le cose andranno bene. Pazienza...» disse Sarah sorridendo.
«Domattina... domattina», bofonchiò Belzoni dall’interno dello scavo, intento a fissare un rinforzo in legno alla luce delle lampade a olio.
Era l’alba quando i tre si riunirono esausti e sedettero su una grande pietra davanti alle impalcature della pompa.
Un operaio egiziano aggiogò il bue e lo incitò a muoversi. Ci fu uno scricchiolio, l’intera struttura tremò. Poi la ruota munita di giare prese a girare, gli orci a immergersi nell’acqua del pozzo per poi riversarla, nel loro percorso in discesa, in un compluvio dove il prezioso liquido veniva raccolto.
«Funziona!» esclamò Giovanni alzando le braccia al cielo, poi si volse verso sua moglie e l’abbracciò incurante del fango che copriva quasi completamente i loro abiti. Quindi, strinse con calore la mano a James.
«Andiamo a riposare qualche ora e a rimetterci in sesto per la visita del pascià. Se tutto dovesse andare come penso, è iniziato il nostro percorso in discesa.»
Il sole di fine agosto arroventava la sabbia nei dintorni del pozzo. Alcune minuscole oasi sparute di palme altissime non riuscivano a interrompere la monotona visuale del deserto. Dal lato opposto, invece, il fiume aveva fecondato le rive facendo sorgere una vegetazione verde e rigogliosa che s’interrompeva bruscamente al confine con la terra arida. Accanto alla macchina idraulica era stata montata una tenda per dare riparo alla delegazione del pascià e alcuni stendardi sventolavano sollecitati dalla brezza che spirava dal corso del Nilo.
L’arrivo dei visitatori fu annunciato da una nuvola di polvere all’orizzonte. Pochi minuti più tardi, Belzoni andava incontro a Mehmet Alì e ai suoi accompagnatori.
Il pascià montava un cavallo berbero di media statura, un animale elegante e vivace. Soprattutto instancabile e ottimo guerriero.
Giovanni riconobbe, tra il nutrito seguito del viceré, il console britannico Salt e l’immancabile e arcigno visir.
«Benvenuto nel nostro laboratorio, eccellenza», disse sfilandosi il cappello che aveva indossato assieme agli abiti più eleganti.
«Siete pronto, Belzoni?» chiese il pascià.
«Non è stato facile, wali. Ma grazie alla forza di volontà mia e dei miei aiutanti, abbiamo portato a termine la costruzione. Quando volete, eccellenza», Giovanni indicò la struttura nel punto in cui il bue, aggiogato, aspettava l’ordine di muoversi.
«Sarebbe forse opportuno valutare prima la potenza della macchina...» disse il viceré.
«Come vorreste procedere, pascià?» chiese Belzoni.
«Avete detto che può sopperire al lavoro di una ventina di uomini. Proviamo allora con quindici operai al posto del bue e vediamo con quale sforzo funziona. Poi riaggiogheremo l’animale e valuteremo.»

La macchina idrica di Giovanni Belzoni
«Faremo così, eccellenza», rispose Belzoni sereno.
Il fedele James fu tra i primi a offrirsi volontario: aveva speso giorni e notti a costruire la pompa e non avrebbe certo perso l’occasione per contribuire direttamente al suo funzionamento.
Così il bue fu disaggiogato, il palo di traino fu sostituito con uno più lungo e le trenta braccia iniziarono a spingere. La ruota prese lentamente il via, gli orci calarono nel pozzo ma, appena riempiti d’acqua, un piolo cedette con uno schianto e la ruota ebbe un sussulto trascinando nella sua forza l’intero meccanismo. I denti di legno, anche quelli sani, si spezzarono uno dopo l’altro.
La grande ruota, libera dai fermi, si schiantò sul bordo dello scavo e la sovrastruttura di pali collassò con fragore. La ruota motrice, invece, fu scossa da un contraccolpo che mandò a gambe levate tutti i volontari. Libero dalla presa, il palo prese a vorticare senza più freni. James, disperato, si lanciò sulla minaccia. Il palo lo colpì alla coscia, provocandogli una ferita e la frattura del femore.
La scena durò solo pochi istanti.
«Soccorrete il vostro segretario, Belzoni. E vi consiglio di non cimentarvi mai più in opere così ardite. Non fanno per voi!» disse Mehmet Alì con uno sguardo di fuoco.
Belzoni rimase a guardare il viceré e il suo codazzo di dignitari che si allontanavano verso la città al trotto. Strinse la testa tra le mani e s’inginocchiò disperato.
Mehmet Alì sedette nella stanza delle udienze. Peccato per il fallimento dell’opera del gigante Belzoni. Una macchina come quella avrebbe potuto apportare incalcolabili vantaggi all’intera economia egiziana. E poi quell’uomo gli era istintivamente simpatico e il pascià era certo della sua buona fede.
«Permettete, eccellenza», Bahir Hadi s’inchinò entrando nella stanza. Il visir aprì un registro e lo sottopose al viceré per la firma.
«Che cos’è?» chiese Mehmet proprio mentre stava per apporre la sua sigla sul documento.
«Il decreto di espulsione di quel... saltimbanco che ha osato prendersi gioco di voi», rispose il visir.
«Io, invece, sono convinto che Belzoni sia stato soltanto sfortunato e non abbia deliberatamente agito per raggirarci. Lui ritiene davvero che la sua invenzione possa funzionare», disse il pascià sollevando il pennino dal foglio senza firmare.
«Peccato che la macchina sia esplosa come colpita da una granata...» obiettò Bahir Hadi.
«Già, come se si trattasse di un attentato... Belzoni non merita un’espulsione. Se vorrà lasciare l’Egitto lo farà di sua volontà. Per me quell’omone ha un’anima onesta.»
Giovanni Battista si era rinchiuso in un silenzio inviolabile. L’onta che pativa lo aveva indotto a restare in città solo il tempo necessario per il ricovero del povero James. Poi era tornato al campo, ormai abbandonato dalle maestranze, e aveva preso alloggio nella sua tenda. Sarah non l’aveva abbandonato un attimo e, il giorno seguente al disastro, aveva vinto un’inconfessabile disperazione e pronunciato le prime parole.
«Dobbiamo reagire, Giovanni», disse la donna accarezzandogli la mano. «È stato solamente un incidente di percorso. Non è la fine del mondo.»
«Un incidente... non riesco a capacitarmi di come sia potuto accadere.»
Vedendolo confuso, Sarah gli propose di tornare al pozzo per un ulteriore controllo.
L’acqua sciabordava contro i pali divelti. Il fascio della lanterna riusciva appena a violare il muro di oscurità. Giovanni la proteggeva alle spalle e Sarah avanzava lentamente, illuminando la struttura collassata in ogni suo particolare. Era lei a guidare la ricognizione. Stavano quasi per rinunciare all’indagine, quando le apparve il cavicchio, un dente dell’ingranaggio. L’oggetto galleggiava davanti alle sue gambe. Sarah lo raccolse e lo riportò in superficie.
Sotto la luce del sole il piolo presentava un taglio netto, prima dei segni della frattura.
«Strano...» disse Sarah. «Sembra quasi che sia stato segato...» Giovanni la guardò incredulo. Raramente Belzoni pensava che le azioni degli uomini fossero ispirate dalla cattiveria. Ma Sarah vedeva più in profondità. E voleva proteggerlo, per cui decise di mettere la sordina al ritrovamento e rientrarono insieme al loro alloggio.
«Non ci pensare, Giovanni. Potrebbe essere un caso. Pensiamo piuttosto a trovare di che sostentarci: le nostre risorse sono ormai esaurite e, anche se volessimo partire, non avremmo abbastanza denaro per lasciare l’Egitto.»
«È permesso?» chiese la voce amica di Burckhardt fuori dalla tenda. «Non volevo irrompere nella vostra intimità familiare, ma mi faceva piacere esservi vicino. Se uscite avrò la gioia di abbracciarvi, Giovanni.»
«Temo che avrò difficoltà nel corrispondervi le prossime scadenze dell’affitto, Lewis», disse Belzoni, dopo aver raggiunto lo svizzero nel piazzale del campo.
«Non preoccupatevi, non vivo di quello. Quando potrete, mi salderete. Intanto continuate a vivere nel mio appartamento: il momento deve essere difficile per voi.»
«Vi sono infinitamente grato. Che cosa si dice in città?»
«Come immaginate, la notizia del fallimento della vostra impresa è corsa di bocca in bocca. Ma adesso le malelingue si vanno quietando. Il pascià stesso è convinto della vostra onestà. Prova ne sia che non è stato spiccato alcun provvedimento d’espulsione nei vostri confronti. Mi preoccuperei piuttosto, se mi permettete, di come sbarcare il lunario. Da quanto capisco non navigate nell’oro e due bocche da sfamare costano, senza contare che il vostro collaboratore, in quelle condizioni, necessita di cure mediche.»
«Questi pensieri non mi fanno dormire la notte. Che cosa mi suggerite di fare, Lewis?»
«Siete un cittadino di sua maestà. Il vostro console in terra d’Egitto ha il dovere di esservi d’aiuto. Provate a rivolgervi a Salt. Forse lui troverà una soluzione.»
«Ci proverò, Burckhardt. Anche se dovrò vincere il mio orgoglio e la mia vergogna.»
«Al diavolo orgoglio e vergogna. È stato un incidente di percorso. Adesso dovete reagire.»
«Vi ringrazio, Lewis. Le vostre parole mi fanno bene.»
«Ancora una cosa», disse lo svizzero prima di congedarsi. «Fatta eccezione per il pascià, a palazzo non siete ben visto. La vostra tentata rivoluzione dell’acqua ha creato parecchio malcontento. Guardatevi sempre attorno e non girate mai le spalle a nessuno.»
Henry Salt, console britannico da quasi un anno, era originario di Lichfield, poco distante da Birmingham. Era figlio di un medico, ma sin dalla tenera età aveva manifestato la sua passione per lo studio dell’arte, diventando un abile disegnatore. Con questa qualifica era entrato nei ranghi della diplomazia britannica, sempre alla ricerca di chi fosse capace di replicare le immagini dei nuovi mondi che si aprivano alle esplorazioni.
Il «mal d’Africa» lo investì proprio in Egitto, dove rimase letteralmente folgorato dalla misteriosa storia del Paese e dalla presenza di vestigia millenarie disseminate un po’ ovunque. Sin dai primi giorni del suo mandato consolare, Salt si era dato da fare per trasportare antichi manufatti verso la madrepatria, dove sognava di aprire la sua collezione al pubblico.
Per fare questo aveva proseguito l’opera di quel contingente di scienziati al seguito dell’armata napoleonica che erano i savants. Aveva però imparato dal suo rivale Drovetti che era più utile operare alla luce del sole con le autorità locali, che non sottrarre antichità clandestinamente. Gli egiziani non davano grande valore a quei vecchi sassi scolpiti e, per misere elargizioni, erano disposti a cederli. Ma diventavano inflessibili dinanzi a ogni tentativo di furto.
Il fallimento della pompa idraulica del cittadino britannico Belzoni aveva rappresentato un momento di tensione tra l’emissario di sua maestà in Egitto e le istituzioni, mandando quasi a monte il paziente lavoro diplomatico per l’acquisizione di antichi reperti.
«Signor console, permettetemi», disse il segretario del consolato, «c’è in anticamera quel... quel Belzoni. Chiede di essere ricevuto.»
«Gli risponda che sono impegnato e che lo riceverò solo previo appuntamento», rispose Salt.
«L’ho già fatto, signore. Ma quel gigante si è seduto sul divanetto d’attesa e mi ha risposto che lui non ha fretta e che può aspettare che vi liberiate. Devo far intervenire le guardie?»
«Per l’amor del cielo! Abbiamo già fatto chiacchierare abbastanza con la macchina solleva-acqua. Ci manca solo che prendiamo a fucilate un cittadino di sua maestà all’interno del consolato. Lo faccia passare, me la sbrigherò io.»
Giovanni Belzoni stringeva tra le mani il cappello a cilindro. Aveva l’aria imbarazzata di un bimbo che ha combinato qualche guaio. La sincera umiltà del suo interlocutore impedì a Salt di inveire contro quel gigante un po’ impacciato.
«Avete idea di ciò che avete combinato?» esordì comunque il console.
«Sono davvero dispiaciuto, eccellenza. Non riesco a capacitarmi di come sia potuto accadere... la macchina era...»
«Lasciate stare, Belzoni. Capirete che la vostra magra figura ha messo l’intero regno in cattiva luce presso il pascià.»
«Sono costernato, signor console. Sono pronto a qualsiasi azione riteniate necessaria per dimostrare la mia assoluta buona fede.»
Mentre diceva questo, Giovanni infilò una mano nella tasca della marsina e lasciò scivolare sulla scrivania del console un pezzo del piolo sabotato.
«E questo cos’è?» chiese Salt.
«Un dente dell’ingranaggio della pompa. Sembra sia stato manomesso.»
«Se avete delle prove più concrete mostratele subito. Altrimenti scordatevi che io possa andare dal pascià a denunciare che ’sembra’ che qualcuno abbia sabotato la macchina perché un pezzo di legno reca una frattura netta. Potrebbe essere successo per cause naturali», rispose il diplomatico osservando con attenzione il piolo.
«Non è così, ma comunque non ho altre prove, purtroppo.»
«Siete venuto al consolato solo per mostrarmi questo pezzo di legno a vostra discolpa, Belzoni?» chiese il console che si apprestava a congedare il suo interlocutore.
«Ho bisogno di lavorare, eccellenza», disse Giovanni, sincero. «Questa disavventura mi ha lasciato senza disponibilità in un Paese che non conosco, con una moglie a carico e un collaboratore invalido.»
Henry Salt fece una pausa e osservò il suo interlocutore.
«Lasciatemi pensare» disse infine con un sospiro quasi rassegnato. «Se dovesse capitare un’opportunità, non mancherò di contattarvi.» Si alzò in piedi e gli tese la mano, l’incontro era finito.
Giovanni rispose al saluto e, a testa bassa, si diresse verso l’uscita.
Mentre il padovano si allontanava, al console venne in mente uno dei messaggi sibillini che Burckhardt aveva lasciato trapelare, come spesso faceva, in maniera del tutto casuale. Forse lo svizzero aveva ragione: il gigante faceva al caso suo.
«Un momento, Belzoni. Sareste capace di far arrivare questo sino in patria?»
Salt srotolò un disegno da lui stesso eseguito. Nel bozzetto era raffigurato il volto di un faraone, probabilmente si trattava di una scultura realizzata in pietra granitica. Accanto alla testa, semisommersa nella sabbia, era disegnata una figura umana perché l’osservatore si rendesse conto delle dimensioni del reperto. La scultura era gigantesca.
«Accidenti, un bel colosso!» Belzoni non nascose un’esclamazione di sorpresa.
«Il giovane Memnone.»
«Il personaggio mitologico ucciso da Achille?»
«Per comodità lo chiamiamo così. In realtà raffigura un faraone di cui ancora ignoriamo il nome», spiegò il console mentre indicava i particolari sul disegno a mano a mano che li nominava. «Dico questo perché la testa scolpita reca il nemes, il tipico copricapo dei reali egizi circondato dall’ureo regale, il serpente che vedete qui sulla fronte.»
«Quanto è grande la statua?»
«È lunga poco più di due metri e mezzo e larga quasi due. Pesa circa sette tonnellate. Devo mettervi in guardia, Belzoni: non crediate sia un gioco da ragazzi trasportarlo. Noi inglesi ci abbiamo provato con ogni mezzo. Ma, prima di noi, lo hanno fatto i francesi che, per spostarlo, hanno creato addirittura un punto di sollevamento praticando un buco all’altezza della spalla. Ma tutto è stato inutile e il gigante di roccia giace semisommerso dalla sabbia a Tebe.»
«Accetto la sfida, signor console», disse Giovanni con gli occhi pieni del suo stesso entusiasmo.