17
Alessandria d’Egitto. Anno 706 a.U.c. (48 a.C.)
Apollodoro era un commerciante ben conosciuto ad Alessandria. Nella sua bottega si potevano trovare tutti gli articoli più ricercati e preziosi d’Oriente: dai tappeti al vasellame. Era noto per la sua clientela facoltosa e così, quando si presentò a palazzo, le guardie non ebbero nulla da obiettare. Apollodoro trasportava carichi nella reggia quasi ogni giorno.
Qualche perplessità in più la manifestarono i due militari romani di guardia dinanzi alla porta del futuro imperatore. Ma Apollodoro fu pronto e fermo nella risposta: «Cesare ha acquistato questo tappeto», disse indicando il fardello che portava sulle spalle. «Me lo ha chiesto con urgenza per sostituire il mosaico che solitamente lo accompagna.»
Tutti sapevano che Cesare, durante le sue campagne, si era fatto sempre accompagnare da un pavimento in mosaico a tessere con scene di uccelli in volo. Il mosaico veniva deposto sul terreno della tenda negli accampamenti o sopra il pavimento, quando il comandante risiedeva tra quattro mura.
Vista la sicurezza del venditore, anche le due guardie personali di Cesare non mossero obiezioni e chiesero soltanto per quale motivo il tappeto avesse una struttura così importante.
«Vi ho riposto due vasi, anch’essi di gradimento del mio regale committente.»
Cesare si allarmò quando vide Apollodoro entrare nella sua stanza. Rapido lo sguardo del dittatore corse alle armi: erano troppo lontane per difendersi da un eventuale attacco.
Il commerciante depose invece con cura il tappeto a terra, slacciò la cintura che lo serrava e lo srotolò.
Chiusa nel suo nascondiglio, Cleopatra era stata più volte sul punto di perdere i sensi: le mancava l’aria. Poi, finalmente, quando il tappeto posato a terra la liberò, lei si alzò in piedi. Era bellissima, il corpo minuto e perfetto, il viso dai lineamenti marcati, linee nere e malachite a esaltare gli occhi verdi intensi. La regina indossava paramenti regali che mettevano in risalto ogni sua morbidezza.
Il condottiero, rimasto senza fiato, la guardava incredulo.
«Mi hai invitato a un incontro, eccomi a te, Cesare», disse la regina dischiudendo le sue labbra carnose in un sorriso.
Cesare, abbagliato dalla sua bellezza, riuscì solo a dire: «Sei folle, oppure audace».
«Immagino che tu apprezzi l’una e l’altra virtù», rispose lei pronta. La sua bocca era invitante, i suoi denti candidi. Cesare si sentì ammaliato dalla sua bellezza e dalla sua audacia. Lui aveva cinquantadue anni, Cleopatra ventuno.
Maliziosamente Cleopatra lasciò cadere uno dei suoi sottili paramenti, scoprendo più di quanto consentito della sua pelle scura e vellutata.
Erano quelle le donne che Cesare amava: belle, disinibite, intrepide e, soprattutto, nude.
Un sontuoso letto di piume li accolse quella notte stessa. La passione li travolse e Cesare s’innamorò al punto di temere che solo la morte avrebbe potuto decretare la fine del suo impetuoso sentimento. E mai premonizione si sarebbe rivelata più veritiera.
La reggia si svegliò alle grida di Tolomeo che incitava i suoi alla rivolta. Il re corse lungo le scale, si strappò la corona dal capo e urlò: «La mia terra e il mio sangue reclamano vendetta! I romani avranno pane per i loro denti. Non indosserò la corona sino a che il mio cuore non sarà in pace e mi sarò liberato di chi ha osato profanare questo palazzo!»
Udito il trambusto, Cesare allungò la mano sul letto, ma Cleopatra si era già dileguata mettendosi al sicuro. Il condottiero invece raccolse in tutta fretta le sue cose, alcune pagine del De bello civili appena completate, si vestì e si allontanò dal palazzo prima che scoppiasse il finimondo.
«Accorrete, genti d’Alessandria. Venite a vendicarvi dell’oltraggio subito!» gridava Tolomeo incitato dai suoi consiglieri.
Quello che il reggente non diceva era che aveva preventivamente dato ordine all’esercito di schierarsi attorno alle mura, pronto a ingaggiare un assedio per ricacciare i romani da dove erano venuti.
Gaio Giulio Cesare, console e imperator, pensò che l’unico posto dove poter trovare asilo in attesa dei rinforzi, ma anche difendersi dagli assalitori, fosse la torre del faro. Così s’imbarcò su un guscio per attraversare il porto. Ma fatti pochi metri la barca del romano fu circondata da quelle egizie da cui incominciarono a piovere frecce letali.
Cesare si gettò in acqua, preservando le pagine appena scritte di suo pugno dall’affondamento. Per sua fortuna alcuni dei suoi poterono vedere la scena, s’impadronirono di una nave e giunsero in soccorso al loro comandante.
Finalmente in salvo, Cesare riassunse il comando e la vendetta calò su Tolomeo e sui suoi seguaci.
Il re imberbe annegò nel Nilo mentre sfuggiva alla cattura, il corpo dell’eunuco Potino fu orrendamente straziato dagli stessi legionari che lo avevano ucciso in battaglia.
L’esercito egizio, appostato attorno alla città assediata, fu colto alle spalle dai romani e sbaragliato.
La strada per riprendersi il trono, per l’amata Cleopatra, appariva lastricata d’oro. Così come dorato sembrava essere il futuro dei due amanti, Cesare e la regina d’Egitto, avvinti dalla reciproca passione che s’infiammava sempre più col passare dei mesi.
Il placido corso del Nilo faceva da degno contorno alla nave reale. Qui il Thalamegòs navigava risalendo la corrente. A bordo i due amanti si giuravano amore eterno e si raccontavano frammenti di vita. Sia Cesare sia Cleopatra erano persone di vasta cultura e quasi gareggiavano nel mostrarsi l’un l’altra il proprio sapere. Il condottiero si soffermava spesso a narrare le proprie vicende in armi, i nove anni trascorsi a conquistare le Gallie, i feroci nemici e Pompeo, il traditore che aveva pagato il fio delle sue colpe.
La nave era sfarzosa, ornata da sculture in avorio e rilucente di ori. A bordo, una stanza era destinata a consumare le passioni che ancora animavano i due.
Cesare osservava ogni meraviglia di quel Paese che ammirava profondamente. Le antiche vestigia della civiltà egizia accendevano in lui profondi interrogativi sul grado di perfezione raggiunto già più di trenta secoli prima del suo passaggio.
«Adesso che cosa farai, mia regina?» chiese un giorno Teie, mentre il Thalamegòs si avvicinava alle acque turbolente delle cateratte.
«Mi godrò la vita, amica mia», rispose la sovrana.
«Su questo non avevo dubbi, conoscendoti. Intendevo che cosa farai di quello?» precisò la Cinnane indicando il ventre gravido della regina.
«Qui dentro», Cleopatra si accarezzò la pancia. Nel suo gesto non c’era alcun profondo amore materno ma dal suo sguardo trapelava, piuttosto, un’intensa brama di potere. «Qui dentro risiede l’avvenire del mondo: un regno talmente vasto da abbracciare Oriente e Occidente sotto un solo scettro.»
«Vedo che riponi grandi aspettative nella creatura che sta per vedere la luce. Perdonami, però, regina: non pensi che questo sogno incantato possa prima o poi finire? Cesare è un condottiero e tu una regina. I vostri reciproci obblighi vi richiameranno alla vita reale...»
«Questa è la vita che ci spetta!» I toni di Cleopatra si erano fatti duri.
«Perdonami ancora. So bene quale vita si confaccia a un sovrano. Ma conosco gli obblighi che quella stessa vita impone. Cesare, a Roma, ha una moglie, una famiglia e, vista la sua figura pubblica, un senato e un popolo ai quali rendere conto.»
«Gli obblighi dei potenti son molto meno rigidi di quelli dei plebei», tagliò corto Cleopatra.
Il Thalamegòs procedeva, ora sospinto dalla corrente. La crociera che aveva portato i due innamorati a vivere nel loro paradiso stava per finire. Il viaggio era durato settanta giorni. Cesare, impigrito dai lussi, aveva preso peso. Cleopatra sembrava prossima al parto sin dal quinto mese. Ma la gravidanza la rendeva ancora più bella.
A Roma, l’assenza prolungata del condottiero stava creando non poca inquietudine. La penna tagliente di Cicerone, a giugno del 47 a.C, aveva scritto che nulla si sapeva di Cesare dal 13 dicembre dell’anno precedente. Il tono delle missive, circa un migliaio e indirizzate a quasi tutti i potenti dell’Urbe, era irriverente e canzonatorio, ma faceva breccia nelle menti dei romani. La storia d’amore era ormai vox populi anche a Roma e, prima o poi, qualcuno avrebbe reclamato il potere abbandonato dal condottiero per correre dietro a una licenziosa regina orientale.
Cesare, che, al contrario di quanto scriveva Cicerone, non aveva mai reciso i forti legami con la sua città, capì che era ormai tempo di tornare.
Ma quel popolo d’Oriente che il console romano non amava aveva ancora in serbo per lui qualche sorpresa. Lasciate le altre legioni a presidiare Alessandria dai possibili colpi di mano dei pompeiani e dei nemici di Cleopatra, Cesare si avviò verso Roma con una sola legione al seguito, la sesta dei veterani. Era una preda apparentemente debole per chi si considerasse all’altezza di sfidarlo. E il presuntuoso Farnace, convinto di reincarnare Alessandro Magno, ebbe l’ardire di fronteggiare la sesta legione nel Ponto.
A Roma, in trepida attesa per il rientro del console, le notizie giungevano frammentate e preoccupanti. Almeno sino a che Gaio Giulio Cesare non inviò questo lapidario messaggio, usando per la prima volta, in uno scritto, la prima persona invece della terza: «Veni, vidi, vici».
Ma Farnace non rappresentava la sola insidia a frapporsi nel cammino del console verso il suo seggio.
Gneo Pompeo, il figlio del più celebre omonimo triumviro, ferito nei sentimenti per il tradimento subito dall’amata Cleopatra, si era asserragliato su un’altura iberica alla testa di una nutrita schiera di dissidenti. Cesare aveva proseguito senza esitazione per soffocare anche l’ultimo ostacolo verso il potere assoluto sull’impero più grande del mondo. Gneo e suo fratello Sesto furono sconfitti e il primo finì atrocemente trucidato.
Roma, tutta Roma, si piegava ora alla legge del più forte. Ma nuovamente, stavolta per amore, Cesare disdegnava la sua città.
«Stammi vicina, Teie. E tienimi la mano. Quando arriva lui?» chiese Cleopatra in preda all’angoscia per il parto, più che alle doglie.
«Le staffette hanno detto che le navi sono ormai in vista, mia regina. Stai tranquilla, il momento non è così vicino come tu pensi. Sono convinta che Cesare potrà vedere il frutto del vostro amore appena sarà venuto al mondo.»
Alcune malelingue, fatti i conti, avevano insinuato che le date non combaciavano e che, al momento del concepimento, Gaio Giulio Cesare doveva trovarsi in tutt’altre faccende affaccendato. Ma in questo la regina egizia aveva ragione: i potenti hanno obblighi inferiori, anche nei confronti dei naturali tempi di gestazione. E la vicenda venne opportunamente messa a tacere.
Il padre giunse al capezzale appena in tempo, quella mattina di giugno.
«È un maschio?» chiese Cleopatra ancora madida di sudore per la fatica.
«Sì, mia regina. È maschio, è sano e vi assomiglia!» rispose l’onnipresente Teie. «Tra poco le puerpere finiranno di detergerlo e te lo porteranno per stringerlo al seno. Giulio Cesare è qui fuori e chiede se può abbracciare te e il bambino. Posso farlo entrare?»
«Aspetta ancora un attimo. Lascia che mi renda presentabile», rispose la regina facendosi consegnare uno specchio e le polveri colorate per dare risalto ai lineamenti.
Il tempio di Ermonti, poco distante da Luxor, era bardato a festa e i sacerdoti, in abiti da cerimonia, spargevano nell’aria fumi profumati.
Cleopatra alzò il piccolo al cielo, lo benedisse, rivolse una preghiera ad Amon-Ra e disse: «Io, Cleopatra, regina dell’Alto e del Basso Egitto, ti impongo il nome di Tolomeo XV, Cesare, dio che ama il padre e la madre. Tu, dio del sole, sotto i cui auspici è venuto al mondo il futuro re d’Egitto, sei testimone che nelle sue vene scorre lo stesso sangue di Alessandro il Grande».
I sacerdoti annuivano. E annuì anche Gaio Giulio Cesare che, da almeno trent’anni, non riusciva a procreare. Adesso, oltre all’adottivo Bruto, avrebbe avuto un figlio tutto suo.
Giunto finalmente nel senato dell’Urbe, una delle prime notizie che Cesare si affrettò a dare fu quella di essere diventato padre di Tolomeo XV Cesare. Nessun cittadino di Roma aveva ancor visto il bambino, che già gli avevano affibbiato il soprannome di Cesarione, e le malelingue presero ben presto a diffondere la falsa notizia che fosse duro di comprendonio.
Cesare sembrava insensibile a certe dicerie. In cuor suo non riusciva, però, a capacitarsi di come la splendida e dolce Cleopatra potesse essere così invisa ai romani.
«Non la conoscono!» concluse il dittatore. «La irridono perché non hanno mai avuto la fortuna di vederla.»
Cleopatra, decise Cesare, doveva raggiungerlo a Roma.
«Guarda il verde intenso di quella collina, Teie!»
Cleopatra si guardava attorno stupefatta. Ogni angolo destava meraviglia nella regina egizia. Era pur vero che la baia di Pozzuoli era quanto di più lussureggiante si potesse trovare sulla penisola. E, per una regina abituata ai deserti, la vegetazione che circondava il porto poteva apparire quasi miracolosa. Lungo il cammino del corteo reale verso Roma, la gente scendeva nelle strade. A dire il vero attratta, più che dalla regina, dalla nutrita schiera di fiere e animali esotici che aprivano la parata. Cesarione, quattro mesi appena, restava in braccio alla madre sul gigantesco baldacchino raffigurante una sfinge, tirato a braccia da centinaia di schiavi.
Finalmente a Roma, la bellissima Cleopatra fu alloggiata in una splendida reggia ai piedi del Gianicolo. Lì si arrivava solo per via fluviale e Cesare aveva provveduto a fornire la regina e il suo seguito – più di duecento dignitari – di un’imbarcazione di rappresentanza degna di loro.
«Sento ostilità negli sguardi dei romani, mia regina», disse un giorno Teie.
«Lo fanno per riguardo alla moglie di Cesare. Hai visto, invece, come la stessa Calpurnia sia rimasta in silenzio alla cerimonia di benvenuto che Cesare mi ha riservato? Anche la nobildonna romana ha capito chi desidera lui al suo fianco e ha preferito non contrastarmi.»
«Ne sei convinta, Cleopatra?» obiettò la saggia Cinnane. «So invece che i romani sono schierati con la legittima moglie del loro console e criticano in ogni momento la presenza di una straniera in città. Chiamano te e tuo figlio con nomignoli insultanti e deridono Cesare perché, per insana passione, sta tralasciando gli impegni pubblici.»
«Ma se i personaggi di spicco della città fanno a gara per sedersi sui triclini dei miei banchetti...»
In effetti il palazzo della regina d’Egitto era diventato in breve tempo il centro degli incontri tra i potenti dell’Urbe. Negli ampi saloni decorati alla maniera egizia si potevano incrociare Cicerone (che aveva ridotto il suo livore nei confronti di Cesare), Antonio, Ottavio, Marco Bruto, Apuleio e un giovanissimo Virgilio che amava declamare i propri celestiali versi nelle stanze della reggia. Dell’accoglienza degli illustri ospiti si occupava Afro Paconio, un liberto che indossava i panni del perfetto anfitrione e amava vezzeggiare i visitatori dispensando goccia a goccia pettegolezzi gustosi. In cambio riceveva confidenze segretissime che subito andava a riferire alla sua padrona Cleopatra.
«È vero, Cleopatra: pare che la Roma che conta brami per essere accudita da Paconio nell’attesa di potersi intrattenere con te. Ma sai anche come commentano queste serate i tuoi ospiti appena usciti da quella porta?» incalzò Teie: era convinta di potersi permettere certi toni in quanto responsabile della sicurezza di Cleopatra. E, in quel pantano di coccodrilli, disposti in agguato lungo il fiumiciattolo Tevere, la salvaguardia della regina era a rischio. «Le mie voci mi hanno riferito che i tuoi invitati trascorrono intere giornate a sparlare di te, una volta fuori dalla tua casa. Non fidarti di nessuno mai, mia regina. E non credere che Calpurnia si sia rassegnata: è solo abituata ad avere a che fare con Cesare, il più infedele dei mariti.»
Marco Antonio, fedelissimo generale di Giulio Cesare, non dava peso alle malelingue e si recava spesso a trovare Cleopatra, che ricordava di aver conosciuto bambina. Certo, la regina era assai cambiata da quell’incontro e la sua prorompente avvenenza era sbocciata come la più bella tra le rose. Il giovane condottiero non sembrava essere immune al suo fascino, ma anche Cleopatra pareva sensibile alla bellezza di quell’indomito ed eroico guerriero.