A qualche giorno dall’esplosione, nessuna notizia era trapelata sull’affondamento del Pharaon King. I media avevano attribuito l’allarmante bagliore notturno al largo di Alessandria a una rara emissione di gas in profondità che, giunto in superficie, si era incendiato. La vicenda era poi passata in secondo piano, anche se presto qualcuno avrebbe iniziato ad avvistare i relitti.

«Ho verificato, maggiore», disse Bernstein. «Munahid al Akim continua a lavorare come se nulla fosse successo.»

«Notizie di suo figlio Isam?» chiese Oswald.

«Nessuna. Sembra scomparso nel nulla: non si parla di lui da giorni e pare introvabile. Non era mai successo prima che mancasse per un periodo così lungo dalle riviste del jet-set. Credo si trovasse a bordo dello yacht al momento dell’esplosione, data la visita che ha fatto a sua moglie poco prima che la signorina Oshman ci liberasse. Anche se, conoscendo la pericolosità di quei serpenti, non si può mai essere certi. A proposito, posso chiederle a che punto è la signora Sara con le sue ricerche?»

«Credo si sia arenata. Ha verificato una serie di ipotesi, ma le ha abbandonate. Non sembra facile identificare un sepolcro segreto, celato per millenni sotto tonnellate di terra, da un’iscrizione in greco antico risalente a più di duemila anni fa.»

«Infatti. Quella frase è stata, poi, scritta da chi aveva sotto gli occhi la soluzione», aggiunse Bernstein. «Io stesso ho scandagliato i motori di ricerca inserendo le parole chiave dell’iscrizione. Ma non sono approdato a nulla.»

 

Il laboratorio di Sara era in disordine: diversi volumi ingombravano la scrivania, accanto ai grandi schermi di computer. I testi erano aperti alle pagine sulle quali la studiosa aveva effettuato le ultime ricerche.

Sara era china sulla tastiera, le mani aperte sulla fronte a sorreggere il capo. Più formulava ipotesi e più si sentiva confusa.

«Ricapitoliamo... ’Chi plasma l’uovo indicherà il cammino a chi vorrà conoscere il segreto’», ripeté per l’ennesima volta la donna. «L’uovo rappresentava per gli egizi il fulcro dei quattro elementi dell’universo, acqua, aria, terra e fuoco... Nell’antica religione egizia era la Fenice a deporre l’uovo e quindi a plasmarlo... no, no. Non ci siamo. La soluzione deve essere più vicina. Non credo che uno schiavo appena liberato si perda in erudite elucubrazioni mentre sta seppellendo chi lo ha adottato. Concentrati, Terracini. Si trovano in quel sepolcro dove Teie ha lasciato traccia di tutta la sua vita... Leir è stravolto dal dolore. Deve rispettare le ultime volontà della donna che lo ha amato come un figlio, restituendogli la libertà. Scrive l’ultimo saluto e lascia l’indicazione dell’ubicazione del sepolcro. Deve essere qualche cosa di essenziale e complesso al tempo stesso. Un rompicapo difficile ma che, quando lo si è risolto, apparirà di una semplicità disarmante.»

Sara scosse la testa desolata. Era davvero prostrata: da una settimana era chiusa nel laboratorio di bordo e non vedeva la soluzione all’orizzonte. Ogni ipotesi si scioglieva come neve al sole.

Un volto capace di infondere tranquillità fece capolino dalla porta del laboratorio. «È permesso, signora Breil?»

«Si accomodi, Bernstein. Qual buon vento?»

«Nulla, dottoressa. Volevo solo sapere se aveva novità riguardo all’ultima indicazione della biografia della guerriera egizia.»

«Brancolo nel buio, Bernstein. In questi giorni ho imboccato decine di piste ma si sono rivelate tutte infruttuose. Le confesso che sono a un punto morto.»

«A tale proposito volevo segnalarle un’ipotesi che non mi pare da scartare a priori. Ho eseguito una serie di ricerche – non solo in rete – inserendo come parole chiave i termini ’uovo, cammino, plasmare, antico Egitto’ e, tra i tanti risultati, sono approdato a questo.»

La foto che Bernstein stringeva in mano era nitida, nonostante il grande formato.

«La Stele della Carestia», esclamò Sara riconoscendo il manufatto immortalato nell’istantanea.

«Vedo che ha buona memoria, dottoressa», si complimentò Bernstein. «Si tratta proprio dell’epigrafe in granito rinvenuta su un’isola del Nilo nei pressi di Assuan. Le quarantadue colonne di geroglifici narrano di una lunga carestia capitata nel diciottesimo anno del tolemaico regno di Djoser.»

«Ricordo bene l’iscrizione. Taluni individuavano in quella carestia settennale la stessa citata dalla Bibbia.»

«Non è quello il punto. Si ricorda le tre divinità nella parte superiore della stele?»

«Vagamente», rispose Sara.

Bernstein indicò una delle tre figure antropomorfe che sovrastavano i geroglifici:

«Si tratta del dio Khnum, particolarmente venerato nel Medio Egitto e spesso raffigurato, come nella stele, assieme alle compagne Satet e Anuquet. La divinità viene riprodotta con una testa di capro soprammontata da un elaborato cappello. Nella mano destra stringe il sacro simbolo Ankh – la cosiddetta croce egizia – mentre nella sinistra impugna un elaborato scettro chiamato Uas che, nella parte superiore, reca la testa stilizzata di un animale e una forcella in quella inferiore. Il dio Khnum era il protettore delle sorgenti del Nilo.»

«Dove sta il nesso con la nostra storia, Bernstein?»

«Secondo la mitologia egizia, la divinità plasmò l’uovo della creazione.»

«’Chi plasma l’uovo indicherà il cammino’», ripeté Sara a bassa voce. «Ci siamo, Bernstein. Lei è indispensabile!» Sara, in uno slancio di gratitudine, gettò le braccia al collo del mago della tecnologia e gli schioccò un bacio sulla guancia.

«Siamo tutti utili...» cantilenò soddisfatto l’ex responsabile dei servizi informatici e tecnologici del Mossad.

«Adesso dobbiamo risalire alle stelle che vegliano sul riposo di Cleopatra e poi saremo sulla strada giusta per individuare il sepolcro. Intanto mi metterò a cercare i reperti in cui appare il dio Khnum.»

«Le stelle per gli antichi egizi erano un elemento importante. Grazie alle stelle si prediceva il futuro, nelle stelle abitavano le divinità e alle stelle ascendevano i morti nella resurrezione», aggiunse Bernstein. «Se vuole ci lavoro anch’io e vediamo se insieme riusciamo a raggiungere la soluzione. Liquidata l’emergenza Isam al Akim, mi sento disoccupato.»

«La ringrazio, Bernstein. Il suo aiuto mi sarà prezioso.»

La conquista di quel primo traguardo regalò nuovi stimoli a Sara, che si gettò a capofitto nelle ricerche. Se l’antica iscrizione si riferiva proprio al dio Khnum, a quali delle infinite stelle faceva cenno l’incisione?

Dapprima ragionò sulla singolarità del cielo stellato nella sala Egizia del Caffè Pedrocchi: lì le stelle erano tratteggiate a sei punte, contro le cinque di quelle rinvenute nelle raffigurazioni egizie. Ma no. Non era quella la via: Belzoni e i suoi non erano mai approdati alla traduzione dell’ultimo pannello. Tanto è vero che era stato riposto nel suo nascondiglio ancora in pezzi. Non potevano quindi conoscere l’epilogo del diario di Teie. Sara allora rivolse le sue ricerche verso le stelle più care agli antichi egizi, come la costellazione delle Pleiadi. La prima serie di indagini fu abbastanza semplice: inserì in un potente motore di ricerca il nome della costellazione – Pleiadi nella fattispecie – unitamente a quello di Cleopatra, e prese nota dei risultati. Ma gli esiti ottenuti furono deludenti: Pleiadi erano chiamati alcuni poeti alessandrini, con le Pleiadi aveva un nesso la flotta armata dalla regina per fronteggiare Ottaviano e dare manforte all’amato ad Azio e, infine, le Pleiadi saltavano fuori nella determinazione dei cieli nei segni zodiacali dei figli avuti da Cleopatra con il suo compagno romano...

Segni zodiacali... Sara ebbe un’illuminazione. Attingendo al suo vasto bagaglio di cultura ripescò qualche riferimento a importanti reperti recanti il cielo dello zodiaco. Inserì nel motore di ricerca le parole «zodiaco» e «Cleopatra» e, travolta dalla felicità, compose il numero dell’antro tecnologico in cui si rintanava Bernstein.

Pochi minuti più tardi, l’ex responsabile del settore 8200 del Mossad era davanti a lei.

«Forse siamo vicini alla soluzione», disse Sara. «Lo zodiaco più famoso del mondo egizio è il rosone in pietra arenaria che decorava una nicchia dedicata a Osiride. L’opera era incastonata sotto al tetto nella sala dei Misteri del tempio di Hathor a Dendera. Si tratta di un planisfero sul quale sono indicate le dodici costellazioni. Controverse sono le opinioni sull’esatto periodo d’esecuzione del gigantesco bassorilievo: mentre alcuni – basandosi sulla posizione dei cieli riprodotti – fanno risalire la realizzazione dello zodiaco a decine di migliaia di anni fa, altri al periodo immediatamente antecedente alla nascita di Cristo, altri ancora all’impero di Traiano, quindi nei primi decenni dell’Era cristiana. Pare, invece, che il bassorilievo sia un insieme di interventi che si sono susseguiti nei millenni, sino a restituircelo nella sua attuale conformazione.»

«Credo che una visita a Dendera non ce la vieti nessuno, dottoressa. Vado a prepararmi?» chiese Bernstein raggiante.

«Un esame all’ellissi di pietra di quattro metri e mezzo per tre e dal peso di sessanta tonnellate lo faremo certamente. Ma non a Dendera. Almeno non ancora...»

«Mi dica solo dove vuole andare e mi organizzo.»

«Il bassorilievo», proseguì Sara, «fu scalzato non senza fatica e con l’uso di leve d’acciaio e della dinamite nel 1828 dai francesi. Oggi si trova al Louvre.»

«Meraviglioso. Parigi è assai più accessibile per degli israeliani della valle del Nilo.»

«Ho già contattato una mia vecchia compagna di studi che oggi è la direttrice del museo», aggiunse Sara. «Ci stanno aspettando.»

L’intenzione dell’armatore era quella di riportare lo yacht nella sua base ligure per completare i lavori anzitempo interrotti. La scoperta di un probabile nesso tra lo zodiaco di Dendera e le loro ricerche modificò i piani. Il Williamsburg avrebbe incrociato al largo delle coste siciliane sino al ritorno a bordo della ricercatrice. Sara e Bernstein scesero a terra e s’imbarcarono sul primo aereo diretto a Parigi in partenza da Catania.

 

Ilaria Muccini aveva conseguito la laurea nella stessa drammatica giornata di Sara: gli atenei romani, il 27 marzo del 1985, furono sconvolti dall’attentato terroristico in cui rimase vittima il professor Tarantelli. Da allora le due donne avevano sempre mantenuto i contatti. E anche quando Ilaria aveva vinto un concorso europeo ed era diventata la responsabile di uno dei musei più importanti e visitati al mondo, le prime felicitazioni che le erano giunte erano state quelle dell’amica Sara Terracini.

Il selciato della Cour Napoléon era stato bagnato da una sottile pioggia che rifletteva le suggestive luci della piramide di cristallo progettata da Ieoh Ming Pei.

La piazza, a quell’ora della sera, era deserta. Un addetto sbucò dall’imponente colonnato nei pressi della Porte des Lions: «Madame Terracini? Monsieur Bernstein? Vi dispiace seguirmi?» sussurrò, quasi non volesse violare quel magico silenzio. «La dottoressa Muccini vi attende nella sala 12 bis, dove si trova lo zodiaco.»

I passi del terzetto risuonavano nei corridoi deserti. Sara e Bernstein, circondati dalla meraviglia che li stava accogliendo e che potevano ammirare in esclusiva, si guardavano attorno sbigottiti. La sala dove era esposto il reperto si trovava al termine della Cour Carrée. Ilaria li accolse con entusiasmo.

«Ti ringrazio per averci concesso questo privilegio. Abbiamo percorso millenni di Storia in pochi passi», disse Sara.

«Ecco qui lo zodiaco», disse Ilaria indicando con la mano il reperto fissato al soffitto e illuminato da sapienti faretti. «Non mi dirai, Sara, che sei stata travolta anche tu dall’OOPart di Dendera?»

«OOPart?» chiese Bernstein stupito.

«Si tratta di un acronimo che sta per Out Of Place Artifacts, signor Bernstein», rispose la direttrice del museo. «Sono oggetti collocati in epoche in cui non potevano esistere. In una parete del tempio di Hathor, nel complesso di Dendera, si trova un bassorilievo egizio con raffigurati oggetti che paiono moderne lampadine a incandescenza. Una riproduzione evidentemente impossibile molti secoli prima che Edison inventasse quel sistema d’illuminazione.»

«Probabilmente», le fece eco Sara, «sono semplici disegni di fiori di loto. E gli appassionati di esoterismo li hanno catalogati come evidenti prove della misteriosa discendenza degli antichi egizi. Ma non sono qui per questo. Volevo solo verificare se, collegato allo zodiaco di Dendera, questo ti dice qualcosa.» Sara dispiegò un disegno del dio Khnum davanti alla collega.

Ilaria osservò la raffigurazione solo per pochi istanti ed esclamò: «L’uomo col bastone!» Quindi indicò un punto sul bassorilievo e proseguì. «Eccolo. Lì compare per la prima volta, poi è presente altre volte all’interno della scultura. Si tratta di una serie di bassorilievi scolpiti in un secondo momento. Probabilmente dopo che lo zodiaco di Dendera era già stato collocato in situ. La mano dello scultore è identica per tutte le raffigurazioni dell’uomo col bastone, ma quasi certamente diversa da quelle che hanno lavorato alle altre figure dello zodiaco.»

«L’uomo col bastone?» chiese Sara stupita.

Il dio Khnum

Il dio Khnum

A bordo del Williamsburg. Aprile 2021

Yossi Cohen sedette sul divano del Williamsburg e si guardò attorno compiaciuto.

Un ex paracadutista come lui, abituato alle rigide discipline militari, sembrava estasiato nell’osservare gli arredi dello yacht. Il suo predecessore Oswald Breil gli sorrideva sul divano davanti a lui.

Yosif Yossi Meir Cohen era nato a Gerusalemme nel 1961, aveva alle spalle una folgorante carriera militare e da quasi trenta anni operava per il Mossad, del quale era diventato direttore nel 2016.

«Me lo potevi dire, Oswald», esordì Cohen. Yossi era alto, mascella squadrata, sguardo penetrante, fisico prestante. Sembrava, al contrario di Breil, lo stereotipo dell’agente segreto.

«Che cosa volevi dicessi a una persona che, per definizione, sa tutto, in quanto direttore dell’Istituto?» rispose Breil, chiamando il Mossad con il diminutivo usato solo dagli addetti ai lavori.

«Questo», disse Yossi mettendo mano alla borsa che aveva al seguito ed estraendone il brandello di un salvagente anulare. La scritta THE PHARAON K risaltava sulla plastica inaffondabile arancione del reperto.

«C’è stato un incidente?» chiese Oswald con aria da falso innocente.

«Ci conosciamo da trent’anni. Sei stato il mio miglior comandante. Se mi avessi segnalato dei problemi, ti avrei dato una mano senza neppure chiedertene il motivo.»

«Ti ringrazio della fiducia, Yossi. Ma certe volte le cose accadono in maniera tanto repentina che non si ha neppure il tempo d’invitare gli amici per la festa. Ti faccio una domanda pleonastica: come facevate a sapere?»

«Non stavamo osservando te, ma la nave degli Al Akim.» Cohen estrasse dalla borsa alcune stampe fotografiche. L’imbarco di Isam e Sara era perfettamente documentato, ripreso a grande distanza con un teleobiettivo.

«Sono persone che è meglio tenere alla larga», suggerì Cohen. «Hanno le mani un po’ ovunque: dal commercio su larga scala di droga dall’Oriente e dal Sudamerica, ai finanziamenti sostanziosi a gruppi terroristici. Il tutto protetto dalla facciata di tycoon della telefonia. Abbiamo le prove che i bilanci della Egyptel, la società di Al Akim, siano fallimentari e che vengano annacquati con ingenti iniezioni di denaro di dubbia provenienza. I due, padre e figlio, hanno sperimentato quanto valga una reputazione immacolata per la gestione dei loro affari non ufficiali. Dietro la facciata, l’uno di multimiliardario e l’altro di appassionato archeologo, sono stati liberi di operare come volevano e senza rispondere a nessuna legge per anni. E, per proteggere meglio il lato segreto dei loro affari, gestiscono ’familiarmente’ la loggia del Sole di Iside. Anticamente era una...»

«... loggia massonica. Ma posso assicurarti che ha origini molto più lontane», disse Breil terminando il ragionamento di Cohen. «Ancor prima di quelle ottocentesche che la videro bandita dal Grande Oriente di Francia per comportamento illegale e non conforme alla morale massonica...»

«Vedo che conosci bene l’argomento.»

«Mi sono applicato. Anche tu, però, potevi dirmelo prima.»

«Tutto è accaduto così in fretta e, quando ti ho cercato per invitarti alla festa, eri già sparito nel nulla», Yossi ripeté la frase di Breil allargando le braccia con falsa desolazione e un’aria canzonatoria.

«Per fortuna sono riapparso. Non oso pensare al trattamento che i nostri amici egiziani avevano in serbo per tutti noi. Quella nave era un covo di assassini, dall’armatore all’ultimo mozzo. Siamo riusciti a sfuggire a una sentenza di morte già scritta.»

«Lo immagino. E, conoscendoti, so che non sei il tipo da imbastire un tale casino senza le tue valide ragioni. Quello che volevo chiederti è se Isam al Akim sia rimasto vittima dell’esplosione.»

«Poche ore prima dell’affondamento era a bordo del Pharaon King. Non posso però assicurarti con certezza il suo passaggio a miglior vita.»

«Peccato», disse Cohen. «Tra padre e figlio lui è forse il più pericoloso. Munahid si dedica prevalentemente alla loggia. Non che non sia da tenere distante come un cobra, ma il giovane è educato, affascinante, colto, capace. E soprattutto, la sua copertura di archeologo gli consente di occuparsi con profitto di tutti gli affari più loschi della famiglia.»

«Ho avuto modo di sperimentare la sua perfidia sulla mia pelle», disse Oswald indicando le ecchimosi provocategli dai trattamenti di Su’ud e i due incisivi spezzati.

Il rumore di un fuoribordo spinse i due a guardare il tender Boston Whaler che si avvicinava a gran velocità al Williamsburg.

«Sta arrivando Sara. Lei è stata l’ultima ad avere avuto il piacere di incontrare il giovane Al Akim. Ne parliamo tutti insieme davanti a una bella fetta di pesce spada appena pescato nelle acque siciliane?»

Non appena Sara fu a bordo, Yossi la salutò cordialmente. «Diventi sempre più bella, dottoressa Terracini.»

«Senti chi parla, direttore. Potresti candidarti per interpretare il prossimo James Bond. Dalla tua avresti il vantaggio della verosimiglianza.»

«Ricominciamo?!» scherzò Breil. «Credo sia meglio sederci a tavola.»

 

«La notizia, signora Sara», disse Bernstein, «potrebbe tornare buona se dovessimo recarci a Dendera per eseguire ulteriori indagini: il sito archeologico è interessato da scavi e gli accessi al pubblico sono preclusi almeno sino all’estate.»

«Ci saranno, però, gli operai...»

«Ma lavorano con orari rigidi. Durante la notte e nelle giornate festive come il venerdì, essendo musulmani, il sito è a completa disposizione di curiosi come noi...»

«Guardi qui, Bernstein», disse Sara indicando la riproduzione fotografica dello zodiaco di Dendera, nella quale aveva tratteggiato con un pennarello rosso tutte le figure di «uomo col bastone» presenti sul bassorilievo. «Ricorda quei giochi enigmistici del tipo ’trova le differenze’? Ecco, ogni uomo col bastone riprodotto nello zodiaco differisce dall’altro per particolari infinitesimi: di volta in volta cambia la postura, la posizione dei piedi, delle braccia, delle mani, del bastone o dell’impugnatura.»

«Credo faccia parte della difficoltà che trova ogni artista nel riprodurre una figura sempre identica», argomentò Bernstein.

«Non mi pare questo il motivo. Mi sembra anzi che l’autore abbia volutamente realizzato le differenze tra le figure... come se... come se avesse voluto indirizzare l’attenzione lungo un percorso... Ogni ’movimento’ nei bassorilievi indica la direzione da prendere. Ad esempio, guardi questa prima figura. Nella rappresentazione successiva muove un piede verso sinistra in una specifica direzione. Voglio evidenziare tutte le indicazioni seguendole con una linea.»

Il lavoro richiese a Sara l’intera mattinata e gran parte del pomeriggio. Nel frattempo il Williamsburg aveva ripreso a navigare verso sud.

Le prime ombre di una fresca sera d’aprile si allungavano sul Mediterraneo, quando Sara bussò alla porta della cabina utilizzata da Bernstein come studio personale.

«Che cosa mi diceva, Bernstein, riguardo a Dendera?»

«Che ogni sera e il venerdì il sito è privo di afflussi. Devo solo verificare la presenza di guardiani. Dalle prime ricerche che ho fatto, l’area è recintata ma non sorvegliata.»

«Oggi è sabato. Che ne dice di partire domani per essere sul luogo mercoledì e capire come meglio operare entro la giornata festiva di venerdì?» disse Sara controllando il calendario sul suo smart-watch.

«Lei sa che la mia valigia è sempre pronta», rispose con entusiasmo. «Cerco subito un itinerario di viaggio che non desti sospetti. Il dottor Breil e gli altri saranno dei nostri?»

«Non credo. La nostra sarà solo una missione esplorativa. Muoverci in terre arabe non sarà facile neppure per noi: dovremo cambiare identità e dissimulare le nostre figure. Per una persona conosciuta come Oswald è ancora più difficile riuscire a passare inosservato. Ci terremo in contatto con loro per ogni necessità.

Lo zodiaco di Dendera e il percorso della figura col bastone

Lo zodiaco di Dendera e il percorso della figura col bastone

Egitto. Martedì 13 aprile 2021

La linea del battello fluviale non era aggraziata. La nave, una sorta di caseggiato popolare a forma di parallelepipedo posato sullo scafo, risaliva il Nilo carica di turisti.

La coppia americana sbarcò con altri passeggeri nella tappa di Luxor. I due erano talmente variopinti e chiassosi che, quando salirono sul camper da loro riservato per proseguire l’escursione via terra, tutti gli altri viaggiatori tirarono un sospiro di sollievo.

Appena a bordo Sara dismise l’aria da oca giuliva mentre Bernstein, solitamente imperturbabile, sembrava averci preso gusto a recitare la parte del gitante invadente.

«Accidenti», disse Sara sedendosi in posizione comoda nell’abitacolo. «Parlavo a voce talmente alta da darmi fastidio da sola. Le affido il comando del vapore», aggiunse indicando il posto di guida.

«Riposi pure tranquilla, signora Sara», disse Bernstein. «Impiegheremo un paio d’ore prima di raggiungere Dendera.»

«Conoscendo la sua dimestichezza con le quattroruote, due ore per ottanta chilometri mi sembrano abbastanza», disse la donna in tono scherzoso: era risaputo che Bernstein non fosse un pilota provetto. «Mi godrò questo panorama irripetibile», aggiunse, mentre il camper costeggiava un’ampia curva del Nilo.

 

Il complesso archeologico di Dendera era costituito da una serie di edifici sacri dedicati alle divinità egizie del periodo tolemaico. Il tempio più imponente era consacrato a Hathor, dea dell’amore. Proprio da lì era stato prelevato l’originale del bassorilievo raffigurante lo zodiaco. Il disco di pietra era stato poi sostituito da una copia abbastanza fedele.

L’area era circondata da un antichissimo muro di cinta in pessime condizioni, sgretolato e abbattuto in più punti. La superficie era a sua volta recintata da una rete metallica.

Bernstein parcheggiò il camper a ridosso della rete in un tratto rialzato rispetto alla quota del tempio. Da lì, pur a discreta distanza, potevano osservare l’intero complesso e pianificare un modo per accedervi. I lavori interessavano la parte orientale del sito archeologico.

Comodamente seduti attorno al tavolo nel salottino del camper, Sara e Bernstein, binocoli alla mano, scrutavano la struttura del tempio di Hathor a distanza di sicurezza.

 

I colpi alla porta del veicolo erano forti e perentori. Bernstein aprì trovandosi davanti un sottufficiale della polizia egiziana. L’uomo era grassoccio, gli occhi vispi e cattivi. Dietro di lui veniva l’altro militare di pattuglia, un giovane agente che si atteggiava a eroe di un film americano.

«Mi dica, signor Panhard», disse il poliziotto leggendo il nome sul passaporto, «come mai vi trovate qui?»

«Abbiamo abbandonato la nostra crociera a Luxor per visitare Dendera», rispose calmo Bernstein. «Purtroppo, una volta arrivati, ci siamo resi conto che il sito è chiuso per restauri e la sola possibilità che ci rimane è quella di osservarlo da lontano», Bernstein indicò i binocoli sul tavolo.

Il militare infilò la testa, diede una rapida occhiata curiosa all’interno del camper, restituì i passaporti e disse esibendosi in un sorriso viscido: «Benvenuto a Dendera, signor Panhard. Benvenuta anche a lei, gentile signora Panhard. Purtroppo dobbiamo spostarci a pattugliare altre aree, altrimenti la signora, sono certo, si sarebbe esibita per noi nella vostra piccola ma funzionale cucina. Buon soggiorno».

Il sergente sorrise in maniera inquietante, guardò Sara negli occhi ed estrasse dalla tasca un biglietto da visita spiegazzato.

«Non si sa mai, signor Panhard. Il nostro è un Paese tutto sommato tranquillo. Anche se, a volte, può capitare che qualche testa calda... Se avesse bisogno di qualche cosa», il poliziotto sfoderò con scarso successo il suo migliore sguardo da latin lover e lo indirizzò alla volta di Sara. «... Qualsiasi cosa... il sergente Zaid Umar è a sua completa disposizione.»

«Che ceffi», commentò Sara quando i poliziotti se ne furono andati. Poi tornarono alla loro postazione d’osservazione: quella notte avrebbero raggiunto il tempio.

 

Gli operai si erano radunati sul piazzale antistante l’ingresso. Il pulmino era arrivato al sito archeologico pochi minuti più tardi e li aveva caricati per trasportarli in hotel nella vicina città di Qena. Subito dopo di loro erano partiti, a bordo di due auto, archeologi e direttore dei lavori. Quest’ultimo si era premunito di serrare la grossa catena d’acciaio attorno ai battenti del cancello d’ingresso.

Bernstein aveva reciso la rete nei pressi del camper, proprio accanto a un montante, e l’aveva fatto con grande precisione: in questo modo, aveva detto, sarebbe stato più facile cancellare le tracce dell’effrazione alla fine dell’ispezione.

Per scongiurare il pericolo di essere individuati, i due erano forniti di lampade a infrarossi invisibili all’occhio umano e dei sistemi di visione notturna in dotazione ai corpi scelti israeliani.

«S’immagina, Bernstein, se il concupiscente sergente Zaid Umar ci vedesse adesso: due ebrei con visori notturni militari che penetrano furtivamente in una zona tutelata egiziana. Ci toccherebbero almeno una dozzina d’anni di galera. Oltre al conseguente incidente internazionale.»

«Mi permetta, signora Sara, ma il poliziotto era talmente soggiogato dal suo fascino che, se lei gli sorridesse, lui neppure si accorgerebbe delle nostre malefatte.»

«Temo ci voglia ben altro che un sorriso per sedare i bollenti spiriti del sergente Umar.»

Le lampade a raggi infrarossi, di dimensioni simili a una normale torcia a batteria, mettevano in particolare risalto i rilievi che decoravano gli ambienti del tempio di Hathor. Così, anche i contorni delle figure nella copia dello zodiaco sembravano più marcati. Sara comunque si era portata dei disegni fedeli, nei quali aveva evidenziato il percorso «dell’uomo col bastone».

«La spada», disse Sara, indicando il rilievo perpendicolare alla sua testa, «rappresenta il punto di partenza. Da lì il dio Khnum, l’uomo col bastone, compie un ampio cerchio. Ma, muovendoci nella direzione indicata, dopo solo pochi passi, il percorso è interrotto da un muro portante del tempio. Il dio, finito il suo cammino, evitando stelle e costellazioni, sembra poi compiere una nuova brevissima passeggiata in senso contrario.»

«Vuole che andiamo all’esterno, Sara?»

«Andiamo, Bernstein. Anche se sono convinta che la soluzione sia in questo preciso luogo.»

Sulla parte posteriore del grosso tempio di Hathor si trovava una piccola struttura sacra quasi addossata al muro dell’edificio principale.

«Adesso proviamo a compiere il percorso del dio Khnum qui fuori», disse Bernstein.

Ma, fatta poca strada, la loro ispezione venne bloccata dal tempietto.

«Iside ferma i nostri passi», disse l’israeliano.

«Come ha detto, Bernstein?»

«Iside, la dea della maternità, della magia, della fertilità...»

«Non intendevo questo. Il tempietto di Iside... Teie dice che uno dei due tempietti gemelli è stato smontato e riassemblato sottoterra», Sara puntò il fascio d’infrarossi verso il rudere sacro e proseguì. «Quello è uno dei due. L’altro potrebbe magari trovarsi sotto ai nostri piedi. I piedi... I passi! Dobbiamo contare i passi! Torniamo nel tempio di Hathor, Bernstein.»

«Non ho ancora capito, ma la seguo fiducioso.»

«Vede l’ampiezza del passo del dio Khnum nel bassorilievo?» chiese Sara indicando dapprima il disco di pietra e quindi i suoi disegni. «Il percorso è scandito dai passi... dopo cinque passi, superato il Toro, dovremo continuare per... diciamo una trentina di passi, sino ad aggirare la Bilancia. Quindi sarà la volta del Cancro. Tutto il percorso, prima di ritrovarci al punto di partenza, richiede una settantina di passi. Poi riparte l’altra passeggiata. Una decina di passi totali.»

«Un’ottima intuizione, Sara. Anche se tornare al punto di partenza è privo di logica», disse Bernstein. «Che scopo ha questa camminata, probabilmente sotterranea, se poi si ritorna al via come in un gioco di società?»

«Proviamo a ispezionare di nuovo l’edificio. Magari un’idea verrà fuori.»

Era quasi l’alba quando Sara e Bernstein abbandonarono il tempio di Hathor e attraversarono il varco nella recinzione raggiungendo il camper.

 

Il camper era dotato di due ambienti separati. Sara si era coricata nella stanza a poppavia nel più basso dei letti a castello. Bernstein, invece, nel giaciglio «mansardato» che si trovava sopra alla cabina di guida.

Sara si destò di soprassalto, scossa da una mano amica. Guardò istintivamente l’orologio e poi Bernstein.

«Mi perdoni, signora Sara. Non riuscivo a dormire e mi sono messo a pensare... e ora sono convinto che sia meglio parlarne subito», disse l’israeliano.

«Mi dica, Bernstein. Anche se non garantisco la mia lucidità: ho dormito in tutto due ore e sette minuti.»

«Non è il punto di arrivo, ma quello di partenza.»

«Si spieghi meglio.»

«Il secondo percorso dell’uomo con il bastone, quello in senso orario, non avviene una volta ritornati al punto di partenza, ma prima di arrivarci.»

«E quindi?»

«Quindi penso che, quando ci siamo fermati a osservare lo zodiaco nella sala ipostila all’ingresso, proprio sotto ai nostri piedi si trovava l’accesso al tempio della regina.»

«Domani avremo tutto il tempo per verificare la sua teoria.»

 

«Scusa l’orario, comandante Breil», la voce del direttore del Mossad era chiara e ferma, sebbene fossero appena le cinque del mattino.

«Dimmi pure, Yossi.»

«Vorrei che dessi un’occhiata alle foto satellitari che ti ho mandato qualche minuto fa via mail. Nell’esplosione pare che l’elicottero venga investito dal muro di fuoco. Ma in un’immagine seguente, solo due minuti più tardi, sembra di distinguere un velivolo che si allontana da ciò che resta del Pharaon King. Un’altra cosa non tranquillizzante: da due giorni anche papà Munahid al Akim ha fatto perdere le sue tracce. I nostri che lo pedinavano si sono accorti che era scomparso all’improvviso.»

Oswald balzò in piedi, la preoccupazione gli segnava il volto. «Sara!» esclamò Breil indossando i primi abiti che aveva a portata di mano.



Il sito archeologico di Dendera (pianta)

Il sito archeologico di Dendera (pianta)

«L’inizio dell’altro percorso, quello più breve e in senso orario, parte proprio sotto il rilievo della spada. Esattamente qui!» disse Sara indicando la grossa pietra posta al centro del colonnato. «Ammesso che decidessimo di provarci, come faremo a scalzarla? Peserà centinaia di chilogrammi.»

«Grazie a Dio è venerdì!» esclamò Bernstein.

«E quindi?»

«Il sito è deserto, gli operai in festa. Qui ci sono a disposizione tutte le attrezzature di cui abbiamo bisogno. E abbiamo abbastanza tempo per cercare una soluzione.»

Sara rabbrividì quando i denti della benna, dopo circa un’ora di lavoro, agguantarono il bordo della pietra millenaria.

«La vedo meglio con un escavatore che non al volante o su una nave», disse Sara sorridendo.

«Il servizio militare insegna un sacco di cose, dottoressa.»

Bernstein mosse prima una leva e poi un’altra e la pietra si sollevò. Scalzata, rimase in bilico su un fianco per qualche istante, poi si capovolse nella caduta.

Sara infilò la testa nella polvere densa che si era sollevata e provò un tuffo al cuore.

Il foro era di forma quadrata, largo quanto la gigantesca piastrella appena scalzata. La scala scendeva non troppo ripida, semicircolare in senso orario come nel percorso dell’uomo col bastone. Si perdeva nell’oscurità dei cunicoli che s’inoltravano nelle fondamenta millenarie del tempio.

 

Le torce illuminavano la galleria. C’era per terra la polvere portata dai secoli ma, tutto sommato, si percorreva con estrema facilità. Le pietre delle mura di contenimento avevano retto al peso dei millenni. Solo qualche cumulo di terriccio indicava qua e là, lungo il cunicolo, dei piccoli cedimenti. Sara procedeva spedita. La voce di Bernstein la ricondusse alla prudenza.

«Conti i passi, signora Sara. Presto dovremo incontrare la costellazione del Toro...»

«Infatti abbiamo fatto cinque pass...»

«Ferma! Non si muova», disse Bernstein.

Sara obbedì e rimase immobile, mentre lui avanzava con cautela.

«Guardi qui: questa pietra è basculante», disse Bernstein indicando il pavimento. «Credo che, muovendola, scalzi il fermo che trattiene quel tratto di parete che...» la torcia illuminò alcune pietre gigantesche sulla loro sinistra, «franando addosso all’incauto ladro di tombe, lo sommergerebbe. Si tratta di tonnellate di roccia e terra. Nessuno, se investito, potrebbe sopravvivere.»

«Crede che il meccanismo sia ancora in funzione?» chiese Sara.

«Non penso, ma non ci proverei. Si tenga sulla destra. Lì le pietre sono fissate al terreno e sembrano costituire un passaggio sicuro. Sono convinto che troveremo altre trappole prima di arrivare alla fine del percorso. E il dio Khnum ce le indicherà», aggiunse Bernstein.

«Indicherà?»

«Le costellazioni stanno a indicare le trappole. Seguendo le istruzioni del cammino dell’uomo col bastone segnalate nel disegno, riusciremo a raggiungere la fine del percorso. Andiamo avanti sino a che riusciamo: l’aria sta diventando irrespirabile. Tra poco dovremo risalire e portare qui il compressore se vogliamo continuare. A mano a mano che ci inoltriamo nel corridoio, si fanno sentire secoli di chiusura pressoché ermetica.»

«... venticinque, ventisei, ventisette...» scandì Sara. Il fascio delle torce illuminò la zona.

«Ecco la trappola della Bilancia», disse Bernstein e si avviò verso una fossa nella pavimentazione di forma quadrata. Sul fondo della cavità erano inserite delle punte di ferro ormai corrose dal tempo. «Il sottile pavimento di legno è crollato prima che un incauto tombarolo lo calpestasse finendo infilzato nelle punte. Ce la fa ancora, Sara, o vuole che risaliamo?»

«Andiamo avanti ancora un po’», disse Sara, con il respiro sempre più affannato.

«Lasciamo la fossa sulla sinistra. La prossima trappola dovrebbe essere tra pochi passi.»

Anche la terza trappola, una controsoffittatura in legno, era collassata. Il legno giaceva polverizzato a terra, assieme ai resti di alcuni vasi.

«Si tenga lontana, Sara. Passiamo a destra. Probabilmente quelle giare contenevano veleno. Saranno ormai sostanze rese innocue dal tempo... ma non si sa mai.»

«Guardi là, Bernstein!» esclamò Sara. Il fascio della torcia risentiva del tremito delle sue mani.

La facciata del tempietto era davanti a lei, a pochi passi di distanza. Pur nelle sue ridotte dimensioni era imponente. Il portale recava sull’archivolto un sole scolpito in bassorilievo. «Il secondo tempio di Iside. Quello di cui parla l’iscrizione...» sussurrò Sara. La vista le si annebbiò, si appoggiò a Bernstein e riuscì a compiere il percorso a ritroso, barcollando e sorretta dall’israeliano, sino al secondo trabocchetto. Poi perse i sensi.

 

Sara si risvegliò qualche tempo più tardi sdraiata sul letto del camper.

«Che ore sono, Bernstein?»

«È quasi sera, signora.»

Sara si alzò a sedere, tolse le cannule della bomboletta d’ossigeno che Bernstein aveva trovato nel pronto soccorso del camper e disse: «Dobbiamo tornare al tempio. Ripercorrere il corridoio e raggiungere il sepolcro. Poi risaliremo in superficie e cercheremo di rimettere a posto tutto, prima di avvertire le autorità egiziane».

«Aspetti, signora Sara... lei è ancora troppo debole...»

Ma ogni protesta dell’israeliano sembrava inutile. Sara uscì dal mezzo, prese il compressore portatile, ne verificò lo stato di carica e si rivolse a Bernstein. «Andiamo. Non possiamo lasciare tutto così.»

Il corridoio, adesso che erano padroni dei segreti che celava, parve loro più breve: anche l’aria, dopo così poche ore di ricambio, era di qualità assai migliore.

Raggiunsero il tempietto sotterraneo di Iside e superarono il colonnato all’ingresso. A Sara parve di distinguere un bagliore dal sancta sanctorum dell’edificio sacro. Ma pensò si trattasse di un riflesso della sua torcia.

Penetrarono di slancio nella stanza più segreta. La pistola sorretta dalla mano scura e ferma di Su’ud li teneva sotto tiro. Isam stava in disparte, suo padre Munahid era in piedi in mezzo ai due sarcofagi, alle sue spalle l’oro del corredo funebre emanava bagliori. Entrambi indossavano antiche vesti egizie. L’anziano Al Akim calzava un copricapo leonino con intarsi snodabili che gli calava sulle spalle, un mantello di colore rosso acceso bordato in oro e un gonnellino a portafoglio della stessa fattura del copricapo. Entrambi erano intessuti con fili d’oro zecchino. Lo ierofante della loggia del Sole di Iside stava officiando un rito antichissimo. Le sue mani disegnavano nell’aria alcune figure sacre.

Su’ud, sotto la minaccia della pistola, li fece sedere in un angolo, poco distante dalle due bombole d’aria compressa che avevano saturato l’ambiente. Isam, un sorriso perfido in volto, fece loro cenno di tacere.

«Una bella mascherata», disse invece Sara.

Su’ud non attese l’ordine e affibbiò in pieno volto alla donna un colpo con la mano aperta.

«Benvenuta, anche se pensavo impiegasse più tempo a riprendersi, signora Panhard. La prego di fare silenzio sino a che mio padre non avrà terminato il rito. Poi vi condurremo fuori e vi faremo pagare il trattamento da voi riservato al Pharaon King

«Non vi sembra di essere troppo adulti per giocare a queste cose?» azzardò Sara incurante.

«Non è un gioco. Lo Ierofante della loggia sta officiando il rito del sole. In questa stanza si trova un tesoro d’inestimabile valore. I nostri uomini saranno qui tra poco. Porteremo via tutto e poi denunceremo la scoperta alle autorità egiziane. Ricavandone gloria e magari anche una ricompensa.»

«Per aver sottratto un tesoro?» chiese Bernstein.

«Quale tesoro?» si schermì Isam. «La tomba è stata visitata dai ladri che l’hanno depredata, forse secoli prima del nostro arrivo. Quando siamo entrati noi, abbiamo trovato soltanto i due sarcofagi che restituiremo all’Egitto e al mondo intero.»

«Figlio di puttana», disse Sara infuriata. «Non la passerai liscia.»

«Certe parole non stanno bene in bocca a una signora, dottoressa Breil. A proposito, quando avrò un po’ di tempo sistemerò anche il marito in miniatura e la bagnarola sulla quale naviga. La pagherete tutti.»

Munahid sembrava seccato da quel bisbiglio. Pronunciò le ultime parole in una lingua gutturale e incomprensibile, in modo spiccio, quindi si fermò e si rivolse a suo figlio. «Ho terminato. Iside è con noi. Portate fuori questi due miserabili e togliamoli di mezzo.»

Su’ud fece loro cenno di alzarsi. Spronò entrambi con violenti strattoni e con la pressione della canna alla nuca. Il quintetto si avviò lungo l’angusto corridoio.

Il nero non perdeva occasione di aizzare i prigionieri affibbiando colpi sulle reni con la canna della sua pistola.

Mancavano pochi metri alla risalita quando Bernstein ebbe un guizzo, scansò di lato e con entrambi i piedi uniti fece pressione sulla pietra basculante della trappola del Toro.

I due perni erano sagomati nella roccia della gigantesca piastrella e posati in un incastro nella cornice fatta con la stessa arenaria.

Il colpo d’arma da fuoco che risuonò nell’ambiente parve contribuire al risveglio del millenario meccanismo. La pietra si mosse sbloccando l’incastro. Il muro laterale rimase immobile per una frazione di secondo e Sara si gettò addosso a Bernstein trascinandolo a terra.

«Ammazzali Su’ud», gridò Isam, poi il fragore dei blocchi di roccia che franavano travolgendo il terzetto coprì ogni altro suono.

Sara alzò la testa nel buio, tossendo per la polvere che aveva invaso la galleria.

«Andiamo, Bernstein», disse Sara.

«Vada lei, signora. Non penso di farcela.»

«È ferito?»

«Sì, signora. Mi ha colpito a un fianco. Ma credo che ci siamo finalmente liberati di quella gente. Vada lei. Cerchi soccorsi e tornate a prendermi. Le prometto che sopravvivrò sino al suo arrivo.»

«E io le prometto che la tirerò fuori di qui, adesso.» Sara lo mise dapprima seduto, quindi lo alzò lentamente in piedi, addossò Bernstein al muro e lo lasciò scivolare posando il baricentro sulla sua stessa spalla. Drizzò a fatica le ginocchia e si avviò verso la scala con il fardello sulle spalle.

Superare ogni scalino fu un’impresa titanica. E più riusciva a valicare le dimensioni elevate delle alzate, più il peso di Bernstein si faceva insopportabile.

Sara strinse i denti.

Raggiunse la superficie e si accasciò.

«Siamo fuori, Bernstein», sussurrò, il petto scosso dall’affanno e il corpo madido di sudore mischiato alla polvere rossa. «Adesso mi riposerò solo pochi minuti, poi andrò a cercare una barella d’emergenza per trasportarla fino al camper. Dobbiamo fare tutto da soli. Non credo che i servizi di pubblica assistenza siano solleciti in questo lembo di deserto.»

Aveva appena finito di dire quelle parole che udì uno scalpiccio provenire dal buio. Sara si acquattò guardinga, poi, appena distinse le torce che avanzavano illuminando una figura familiare, si alzò in piedi e gridò: «Presto, professor Rushdi. Bernstein è ferito».

Najid Rushdi, ministro delle Antichità della Repubblica egiziana, avanzava a passo veloce. Al suo fianco il sergente Umar e l’altro poliziotto della pattuglia tenevano le pistole sguainate.

«Dove si trova, signora Panhard?» chiese nel buio il sergente.

«Panhard...» ripeté Sara. Afferrò Bernstein e premette il suo corpo a terra.

«Dove siete, Sara? Venga fuori. È finita», disse il professore.

«Non credo sia finita, professor Rushdi!» esclamò Sara. «Venite voi a prendermi, se proprio ci tenete così tanto.»

«Ma che cosa dice, Sara», disse il ministro, mentre faceva cenno ai due poliziotti di accerchiare la botola d’accesso al sepolcro.

Il sergente Umar avanzava guardingo tra le gigantesche colonne del tempio, la Colt a tamburo puntata nel buio. A un certo momento gli parve di vedere qualcosa muoversi poco distante da lui.

«Muori, puttana infedele!» gridò il poliziotto scaricando alcuni colpi in quella direzione.

In quello stesso istante le torce tattiche illuminarono la scena. Oswald, con al fianco Toba Oshman e tre membri dell’equipaggio del Williamsburg, avanzava con le armi spianate.

«Non si offende così una signora! Gettate le armi, ministro», intimò Breil.

Per tutta risposta, Najid Rushdi si volse verso il gruppo di israeliani, puntò la pistola e fece fuoco, seguito dai suoi due compari.

Le raffiche degli ex incursori violarono la quiete della notte.

Poi scese il silenzio.

A bordo del Williamsburg in navigazione. Aprile 2021

Sara prese l’anello con lo smeraldo e lo posizionò dentro a una nuova teca.

Poi tornò sul divano e si accoccolò al fianco di Breil.

«Come hai fatto a non gettare le braccia al collo al ministro e ai due poliziotti?» chiese Breil.

«Isam al Akim mi ha chiamato ’signora Panhard’ nel sepolcro. L’unico che conosceva quel nome era il poliziotto al quale avevamo consegnato i documenti falsi. E tu come hai fatto a sapere che erano dei traditori?»

«Appena Yossi mi ha comunicato che l’elicottero era forse scampato all’esplosione, ho rotto gli indugi e ho contattato il primo ministro egiziano. Lui mi ha detto, al contrario di quanto asserito da Najid, che non aveva mai ricevuto comunicazioni in merito e mai aveva richiesto che Isam al Akim ti affiancasse nelle ricerche. Mi ha anche confidato che girava voce che il ministro delle Antichità fosse affiliato a una società segreta. Il premier mi ha confessato un certo imbarazzo ma, se volevo, mi avrebbe concesso il permesso di atterrare e operare in territorio egiziano per ragioni di Stato.»

«Il premier è stato davvero gentile a farci avere l’anello di smeraldo dei Tolomei, quello rinvenuto al dito della regina», disse Sara rigirando tra le dita l’antico gioiello. Sulla pietra era incisa l’immagine di un cobra pronto all’attacco.

«Peccato lo abbia fatto in gran segreto per non alimentare le tensioni interne al suo Paese. Non è certo il momento più indicato per premiare due ebrei in Egitto.»

«Come sta Bernstein?» chiese Sara.

«Migliora giorno dopo giorno. Il dottor Pecker, il medico di bordo, lo sta seguendo con attenzione. Dice che tra qualche giorno potrà abbandonare l’infermeria del Williamsburg. Appena rientrati nel porto della Spezia ci prenderemo un periodo di riposo e faremo qualche visita ai dintorni da semplici turisti, mentre la nave affronterà alcuni lavori.»

«Lo sai che ti conosco e so che stai mentendo: tu non sei capace di riposare. I guai, del resto, ti cercano con il lanternino. E quasi sempre riescono anche a trovarti.»

«Non è vero!» disse Breil accarezzandole la nuca.

«Hai ragione, non si conosce mai abbastanza il proprio prossimo.»

«In che senso?» chiese Oswald.

«Ignoravo, per esempio, che fossi geloso, Breil», sorrise lei.

«Geloso io? Ma stai scherzando», la rimbrottò Oswald, sorridendo.

Sara si era, però, improvvisamente ammutolita. Il suo sguardo fissava la teca dell’anello di Cleopatra.

«Che succede, Sara?»

«Nulla, Oswald. Stringimi forte. Mi era parso di scorgere un’ombra accanto allo smeraldo della regina. Solamente un’ombra...»

L'ombra di Iside
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