27

 

Anno 713 a.U.c. (41 a.C.)

La domus dei Tuditani aveva sede lungo la Via Sacra, ai piedi del Palatino. L’edificio era di forma rettangolare, privo di finestre verso l’esterno e composto da una trentina di ambienti destinati agli usi domestici, dalle stanze da letto alle cucine.

Fulvia mostrò alla nuova schiava la casa, facendo capolino in una camerata dove erano allineati una decina di letti su due file.

«Lì dormono le donne al mio servizio», disse Fulvia indicando i giacigli. «Ma il tuo compito sarà quello di vegliare sulla mia persona giorno e notte. Quindi riposerai quando sarà possibile in ambienti a me vicini, magari nella mia stessa stanza su giacigli di fortuna.»

Teie annuì. Avrebbe voluto dire alla boriosa matrona che quello era da sempre il suo compito presso una regina, discendente di una dinastia di faraoni, e non per una nobile romana decaduta. Continuava però a recitare la parte di rozza soldatessa persiana che poco o nulla conosceva della lingua latina.

La prima sera, Fulvia allontanò l’egizia dal tablinum, lo studio che si affacciava direttamente sul peristilio, destinato dalla nobildonna agli incontri più riservati.

«Aspetto visite. Puoi ritirarti», ordinò spiccia la romana.

Teie incrociò l’ospite mentre fingeva di andare verso il dormitorio. La somiglianza del fratello minore Lucio con Marco Antonio, l’amante della sua regina, era impressionante.

La Cinnane trovò un punto, poco distante dallo studio, dove nascondersi per ascoltare l’intera conversazione tra i due.

«Quanti uomini pensi che ti seguiranno?» chiese Fulvia al cognato.

«Il malcontento è altissimo. Gli espropri di terreno da destinare ai veterani hanno sortito l’effetto di creare una nuova classe di scontenti: i proprietari terrieri che si sono uniti alla protesta. Ma con te sarò sincero: posso contare su poche migliaia di uomini, per la maggior parte soldati stanchi di fare la guerra, spesso feriti o mutilati in battaglia. Insomma un’accozzaglia che può far paura per il primo assalto, ma destinata a soccombere di fronte a un vero esercito come quello di Ottaviano.»

«Se, però, riuscissimo a far dichiarare fuorilegge il triumvirato dai senatori, Ottaviano non avrebbe più un esercito. Possiamo contare sulla maggioranza del senato?»

«Sono numeri risicati. La situazione è ancora incerta, anche se tutta l’opposizione dei senatori è con noi. Credo che una conta esatta potrà essere fatta solo in aula.»

«È un grosso rischio», aggiunse Fulvia.

«Ma dobbiamo correrlo, se vogliamo tentare di scalzare Ottaviano.»

«Se tuo fratello fosse qui le cose andrebbero diversamente», disse la donna con astio.

«Purtroppo dobbiamo fare tutto da soli», disse Lucio.

«... e consegnare Roma ad Antonio appena sceso dal letto di quella puttana egizia.»

«Intanto preoccupiamoci di prendere Roma. Riunirò i miei veterani a Preneste e, millantando un esercito di scontenti pronto a qualsiasi cosa, mi recherò in senato dove chiederò l’imperium. Quando sarà restaurata la repubblica, pretenderò che il triumviro Ottaviano venga dichiarato fuorilegge. A quel punto le legioni abbandoneranno il sedicente erede di Cesare e noi potremo impadronirci del potere senza incappare in una nuova guerra civile.»

«Sono certa che sarà un grande successo: un esercito alle porte di Roma, mentre le legioni sono impegnate nelle province, fa paura e richiama alla mente gli scontri fratricidi che hanno insanguinato la politica dell’Urbe in questi ultimi anni. Presto tuo fratello, o chi per lui, entrerà a Roma come un trionfatore», disse Fulvia.

 

Mentre i veterani, accampati a Preneste, facevano più rumore possibile, Lucio Antonio fece il suo ingresso in senato formulando le richieste concordate con Fulvia.

Ma la missione del console riuscì soltanto a metà: il senato gli accordò l’imperium, ovvero l’autorità di passare per le armi chiunque non si assoggettasse agli ordini del titolare del diritto. I senatori, però, furono recalcitranti nel dichiarare il triumviro fuorilegge. Così i legionari, invece di abbandonare il loro comandante, fecero quadrato attorno a Ottaviano e, compatti, marciarono verso Roma per restaurare il legittimo potere.

 

«Presto!» gridò Fulvia in preda al terrore. «Sali anche tu sul carro e andiamo via!»

Teie obbedì all’ordine. La matrona sembrava fuori di sé. Roma era precipitata ancora una volta nel caos. I veterani di Lucio si erano ritirati in disordine verso il centro della penisola e arroccati in un’antica città etrusca considerata inespugnabile. Le legioni di Ottaviano, invece, avevano ormai raggiunto le porte dell’Urbe.

Il carro sul quale presero posto era trainato da una coppia di buoi. Aveva il telone sporco e liso. Lo occupavano Teie, Fulvia, due ancelle e uno schiavo seduto a cassetta.

Se i legionari di Ottaviano avessero catturato la moglie di Antonio, mente della congiura, sarebbe stata condannata a un’orribile morte. La destinazione dei fuggitivi sarebbe stata la roccaforte di Perusium, dove Lucio e i suoi avevano trovato asilo e si preparavano a vendere cara la pelle.

Finalmente, dopo tre giorni di marcia a tappe forzate, la città di Perusium era ormai a poche ore di viaggio. Lì Fulvia sarebbe stata al sicuro e, pensava lei stessa, avrebbe potuto pianificare la riscossa.

I campi, alla base degli Appennini, al mattino si coprivano di brina. Il freddo era pungente, ma almeno la pioggia li aveva risparmiati lungo il percorso.

«Fermi!» disse il capopattuglia, un sottufficiale che, a giudicare dall’aspetto, doveva aver maturato più esperienza in battaglia nelle schiere di Ottaviano che nella sua vita fuori dai ranghi.

I tre legionari erano sbucati da un bosco che costeggiava la strada verso la città. Perusium era ormai in vista. Il principalis indossava la corazza ed era armato di spada. I due giovanissimi miles stringevano le loro lance con atteggiamento marziale.

«Dove credete di andare, voi?» chiese il sottufficiale.

«Siamo braccianti. Andiamo nelle campagne nei pressi della città a cercare lavoro», rispose Fulvia.

«Braccianti, mi dici. E che lavoro andate a fare con questo freddo? Comunque, la città non è raggiungibile: è in mano a dei briganti e noi stiamo aspettando l’arrivo in forze di Ottaviano per stanarli», disse il militare sempre più sospettoso.

«Noi non vogliamo salire sino a Perusium. La campagna non si ferma con l’inverno, a differenza delle operazioni militari», rispose Fulvia pronta. «Bisogna riordinare le stalle, accudire le bestie, mondare il fieno e, se avanza tempo, intrecciare giunchi per costruire ceste.»

Il militare sembrava convinto, infilò la testa sotto al tendone, indicò una delle ancelle ed esclamò perentorio: «Tu, fammi vedere le mani!»

La giovane, intimorita, eseguì l’ordine. Il sottufficiale toccò dita soffici, ammorbidite dalle creme e dagli oli con cui Fulvia veniva massaggiata ogni mattina.

«Scendete subito dal carro! Queste non sono mani da...» disse il legionario. Ma non finì la frase. L’elsa della spada maneggiata da Teie lo colpì alla base della nuca, facendogli perdere i sensi.

I due soldati che erano rimasti in attesa lungo la strada si trovarono davanti una donna armata. Passato il primo istante di smarrimento, i due impugnarono minacciosi il pilum e avanzarono affiancati.

Teie rimase immobile, lo sguardo freddo e la spada spianata. Non appena uno dei militari tentò un affondo, la Cinnane si scansò di lato, evitò la punta della lancia e, mentre l’assalitore proseguiva la sua corsa, lo colpì con il taglio del piede sul lato del ginocchio. Il legionario cadde a terra tenendosi la gamba dolorante.

«Non voglio uccidere nessuno, ragazzo. Lasciateci passare», disse la guerriera rivolta all’altro militare che, ritrovatosi da solo a fronteggiare quella furia, pensò bene di lasciar cadere la sua lancia e darsela a gambe.

 

Perusium si preparava all’assedio. Ovunque fervevano frenetiche attività: c’era chi stivava cibo, chi riempiva le cisterne d’acqua, chi rafforzava le opere di fortificazione, chi controllava il filo delle lame e lo stato degli armamenti. I cittadini avevano accolto i fuggiaschi agli ordini di Lucio Antonio con complice benevolenza: la fiera radice etrusca mal si conciliava con il pugno di ferro di Ottaviano e con gli insostenibili obblighi fiscali dettati da Roma.

Le legioni di Ottaviano si accamparono fuori dalle mura, oltre il tiro utile di frecce, trabocchi e catapulte. Incominciò così una complicata partita fatta di veri e falsi attacchi, sporadiche sortite e resistenza da dietro i bastioni.

Sugli assediati aleggiava la stessa preoccupazione: l’inverno avanzava e le scorte di viveri e d’acqua si andavano esaurendo. Nel contempo le truppe del triumviro serravano sempre più i controlli: neppure una mosca avrebbe potuto tentare una sortita. Figuriamoci qualcuno che si fosse assunto il compito di procurare viveri per migliaia di uomini in armi prossimi alla fame.

«Dobbiamo resistere, Lucio», disse risoluta Fulvia. «Se Ottaviano dovesse prendere la città, la sua vendetta nei nostri confronti sarebbe terribile.»

«So bene qual è il futuro che ci aspetta in caso di sconfitta», rispose il ribelle. «Ma non è facile scegliere se morire di fame e freddo o per mano del nemico.»

L’inverno era stato rigido e le ultime gelate davano l’impressione che non finisse mai. La neve era scesa copiosa e non c’era neppure stato il tempo di rimuoverla che aveva ricominciato a nevicare. Questo, se poteva essere un bene per rimpinguare le riserve d’acqua potabile, mieteva invece vittime tra gli assediati che, finite le scorte di legna da ardere, pativano il freddo tra le mura etrusche di Perusium innevata. Le febbri, in quelle condizioni, trovavano un terreno fertile.

Lucio Antonio osservò i suoi caricare un proiettile di roccia nella catapulta. Il capopezzo, un centurione veterano di Filippi che aveva trascorso buona parte della sua vita al fianco del fratello Marco Antonio, si scaldò le mani, fregandole l’una contro l’altra. Prese quindi un chiodo e tracciò sulla roccia stondata frasi ingiuriose rivolte al nemico Ottaviano. L’ufficiale ordinò ai suoi di caricare, prese la mira e il colpo partì con un sonoro schiocco.

«Magra consolazione, mio comandante», disse il veterano. «Loro banchettano fuori dalle mura e fanno di tutto perché noi li sentiamo. A noi, invece, non resta che scrivere epiteti sulla madre di Ottaviano sui proiettili delle catapulte e patire la fame...»

«Attento a quello che dici, soldato», Fulvia era spuntata da dietro le spalle di Lucio, Teie la seguiva a ogni passo. «Per frasi poco più irriverenti ho visto condannare uomini a morte per tradimento. Fermati, prima che sia troppo tardi!»

«Mi fermo, mi fermo, signora», disse il centurione. «E, comunque, non era mia intenzione essere disfattista. Riflettevo sulla situazione attuale: le truppe di Ottaviano gozzovigliano ogni sera e il vento gelido reca con sé tutti i profumi di quello che cucinano. Noi abbiamo smesso di cucinare ormai da mesi e viviamo di stenti. Figuratevi se io voglio passare da traditore: ho vissuto accanto a vostro marito Marco Antonio sin dai primi giorni sotto le armi.»

Il centurione tacque, osservò attentamente Teie e la sua espressione si fece dubbiosa: «Un momento, signora», disse ancora il veterano e poi si rivolse direttamente alla Cinnane: «Io ti conosco. Ti ho vista ad Alessandria. Eri al fianco di Cleopatra. Eri la sua guardia personale. Come mai adesso svolgi lo stesso compito per Fulvia?»

Teie cercò di balbettare qualcosa.

«Non sei persiana!» ribadì il centurione con il dito accusatorio puntato verso di lei. «Di sicuro sei una guerriera e conosci le arti militari. Ma egizia. Appartieni anzi al corpo delle Cinnane, delle spietate soldatesse addestratissime.»

«Corrisponde al vero quello che dice quest’uomo?» chiese Fulvia, fulminando nel contempo Teie con lo sguardo.

«Neppure una parola, signora. Quest’uomo mi ha scambiato con un’altra donna...»

«È quello che vedremo. Uomini, arrestatela! Chiariremo la sua posizione più tardi.»

La neve aveva smesso di cadere. Il freddo rimaneva pungente, alcuni cumuli grigiastri e ghiacciati erano ammassati ai lati delle strade cittadine. L’intera popolazione di Perusium era troppo stremata dalla fame per pensare a rimuoverli.

Lucio Antonio si era più volte consultato con i suoi generali. Poi, quando gli uomini avevano incominciato a morire di fame e di stenti, aveva deciso di arrendersi.

«Apri le porte della città e uscite. Tu sarai alla testa dei tuoi uomini disarmati», queste le condizioni poste da Ottaviano a Lucio e Fulvia. «Sarete tenuti sotto sorveglianza in un recinto, in attesa che io decida che cosa fare delle vostre vite. I miei entreranno in città e risolveranno una volta per tutte la questione con questi etruschi ribelli.»

 

Le prigioni di Perusium erano buie, umide e fredde. Teie languiva in una cella e, da qualche giorno, nessuno si preoccupava più di somministrarle i pasti.

In effetti, nei frenetici momenti della resa, nessuno aveva avuto modo di pensare ai prigionieri.

Ottaviano si svegliò poco prima dell’alba in quel giorno così importante: erano le Idi di marzo e ricorreva il quarto anniversario dell’assassinio del suo padre adottivo, Giulio Cesare. Rivolse una preghiera agli dei e uscì dalla tenda. I suoi erano già adunati nella piazza d’armi.

«Legionari», disse il triumviro con voce stentorea, «Perusium, città di traditori e di nemici, è ora vostra! Andate e fatene scempio!»

Un grido si levò da migliaia di bocche. I comandanti diedero il rompete le righe e l’orda si riversò nelle vie della città come un branco di lupi famelici. Nessuno scampò alla razzia. Almeno trecento nobili e cavalieri cittadini furono brutalmente assassinati, le donne, dalle più giovani alle più anziane, violentate, ogni casa saccheggiata.

Poi, per completare l’opera, Ottaviano diede ordine di incendiare la città.

 

Il clamore del saccheggio giungeva ovattato sin nelle segrete. Teie tendeva l’orecchio, cercando di capire quale sorte le sarebbe toccata.

Poi udì delle grida lungo le scale. Nella tenue luce delle torce distinse un soldato romano che armeggiava con il serramento della sua cella. Quando la porta si spalancò, l’uomo le fece cenno di uscire e di farlo in fretta: la città stava bruciando.

Teie lo seguì sino all’esterno. Appena fu sulla strada capì che cosa era successo. Cercò di giustificare la sua posizione col militare che non la volle nemmeno ascoltare: «Ogni nemico dei perusini è nostro amico. Adesso sparisci da qui, prima che io ci ripensi».

Le fiamme, altissime, stavano divorando le case. Di lì a poco della ricca città etrusca sarebbero rimaste solo rovine.

 

Ottaviano, inaspettatamente, si rivelò magnanimo con Lucio Antonio e con sua cognata Fulvia, facendo loro salva la vita, ma imponendo l’esilio.

Teie, scampata alla distruzione della città, rientrò a Roma, dove Afro Paconio le offrì ospitalità e utilizzò i suoi messaggeri per informare il più in fretta possibile Cleopatra degli accadimenti. Il piano non era andato in porto, ma il seme della discordia tra Ottaviano e gli Antonii era stato interrato. Adesso era sufficiente aspettare che germogliasse sano e vigoroso.

 

Cleopatra e Marco Antonio continuavano a vivere la loro meravigliosa luna di miele da più di sei mesi. Il dispaccio proveniente da Afro Paconio era appena arrivato e la regina aveva messo al corrente l’amato di quello che avveniva a Roma.

«Devo rientrare, Cleopatra», disse il triumviro.

«Non farlo, amore mio. Non appena poserai piede entro i confini ti arresteranno.»

«Con quali accuse? Mentre scoppiava questa nuova guerra civile, ero con te. Quindi sono totalmente estraneo alla faccenda.»

«È inutile che tu sostenga la tua innocenza parlando con me: ho vissuto assieme a te ogni momento. Ma non ti sarà facile farlo intendere a Ottaviano.»

«Ottaviano è un uomo di buon senso, capirà che è stato mio fratello e che io non ho alcun legame con i suoi propositi sovversivi», concluse Antonio.

 

Teie era pronta a partire. Avrebbe abbandonato quella città barbara e riottosa senza rimpianti, ringraziando gli dei per avere ancora la testa attaccata al collo. L’assedio durato sei mesi e tutte le traversie vissute a Perusium avevano ulteriormente peggiorato la sua opinione sui romani e sulle genti italiche.

Nel frattempo Fulvia, riparata in Grecia, era presto deceduta di malattia a Sicione, nel Peloponneso.

La strada perché Antonio convolasse a nozze con Cleopatra sembrava ormai spianata. Quello, era convinta Teie, era il vero obiettivo. Poi, forse, si sarebbero realizzati anche gli altri disegni della lungimirante regina: la detronizzazione degli altri due scomodi triumviri – Ottaviano in particolare – e la realizzazione di un impero egizio-romano. Ma, finalmente unita da un vincolo matrimoniale, Cleopatra avrebbe potuto agire con minore improvvisazione.

Il plico impiegò meno tempo del solito per raggiungere Roma: erano trascorsi nemmeno trenta giorni tra l’invio delle informazioni da parte di Afro Paconio e la risposta della regina Cleopatra.

Paconio raggiunse la guerriera nella sua stanza: «Mi dispiace, amica mia», disse il maior domus dei potenti, «l’ordine appena ricevuto da Cleopatra è che tu rimanga a Roma. Antonio presto si metterà in viaggio per tornare qui. La regina vuole che tu segua le vicende cittadine e gliele riferisca».

 

Antonio arrivò nell’Urbe senza clamore o quasi. La sua licenziosa doppia vita egizia aveva tenuto banco per mesi tra i tavoli delle osterie come nei peristili delle domus patrizie. C’erano stati anzi momenti in cui non si parlava d’altro. Così, il piccolo distaccamento che accompagnava il triumviro non ottenne alcun trionfo e nessun cittadino si schierò lungo le strade al suo passaggio. Forse, in quei lunghi mesi d’assenza, il giovane Ottaviano aveva sostituito il baldo generale nel cuore del popolo. Ma proprio con il figlio adottivo di Cesare, Antonio voleva conferire appena giunto in città: un chiarimento tra i due era necessario, prima che la situazione degenerasse senza rimedio.

Marco Antonio non era tipo da cospargersi il capo di cenere. Giunto al cospetto del suo omologo, parlò anzi con la schietta eloquenza che tutti gli riconoscevano. Giurò di essere completamente all’oscuro della ribellione del fratello e si scusò anzi a nome della famiglia per i disagi che quella testa calda di Lucio aveva causato al triumviro e a Roma.

Ottaviano gli tese il braccio in segno di pace. Ma entrambi sapevano che non era sufficiente quella marziale stretta per rimarginare ogni ferita. C’era bisogno di un sodalizio più saldo che li unisse per sempre. Un sodalizio di sangue.

 

Ottavia Turina Minore aveva trent’anni. Era pronipote di Giulio Cesare e sorella del triumviro Ottaviano. In prime nozze, a quindici anni, aveva sposato il console Gaio Claudio Marcello, al quale aveva dato tre figli. Ottavia era legata alla sua famiglia, era bella e potente.

Quando Marcello morì, Ottavia era incinta. Quasi contemporaneamente veniva a mancare Fulvia, la moglie di Antonio.

Ecco quale poteva essere il patto capace di suggellare una pace duratura e distogliere Antonio dalle tentazioni egizie.

Il senato accordò il permesso affinché i due si sposassero, nonostante Ottavia fosse gravida del suo primo marito.

Da quel momento la nuova moglie di Antonio utilizzò tutto il suo carisma e le sue capacità per smussare i contrasti che, tra marito e fratello, insorgevano violenti e con cadenza quasi quotidiana.

 

«Ho una notizia sensazionale da darti, Teie», disse Afro Paconio sventolando un dispaccio appena ricevuto dall’Egitto.

«E quale sarebbe? Non ti sembra abbastanza che Antonio sia convolato a nozze con la sorella del suo principale avversario?»

«Purtroppo no, mia cara. Cleopatra è incinta di Antonio!»

Teie si lasciò cadere sul triclinio, portò la mano alla fronte e sussurrò: «Adesso chi glielo dice alla mia regina del matrimonio del suo amante?»

L'ombra di Iside
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