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Alessandria d’Egitto. Anno 684 a.U.c. (70 a.C.)

Erano schierate da ore sotto il sole cocente quando Simah, la nubiana che comandava le Cinnane, ordinò loro di abbandonare lo schieramento per passare all’addestramento armi in pugno.

A quel punto Rida si spostò e si parò davanti a Teie. Eseguì il saluto portando la lama davanti al volto. Quindi si mise in guardia e, con un ampio gesto del braccio armato, invitò l’avversaria a fare altrettanto. Il suo sguardo era freddo, determinato, attraversato da un lampo malvagio.

Teie piantò i talloni a terra, allargò le gambe flettendole e alzò la spada pronta a fronteggiare l’assalto.

Quel genere di addestramento era abbastanza frequente e non era raro che qualche guerriera dovesse ricorrere alle cure di un medico per le ferite ricevute. Le armi, infatti, erano quelle d’ordinanza, con i tagli affilati e capaci di uccidere. Raramente si erano verificati incidenti gravi: le soldatesse avevano una padronanza pressoché assoluta delle loro tecniche d’assalto.

Ma Rida, sin dai primi affondi, fece capire alla sua avversaria tutta la risoluta potenza dei suoi affondi.

Teie alzò la spada e parò il colpo sferrato dall’alto verso il basso. C’era talmente tanta forza in quell’assalto che, se non fosse riuscita a fermarlo, la lama di Rida le avrebbe aperto il cranio.

«Che cosa stai facendo?» gridò Teie.

Per tutta risposta l’altra atteggiò le labbra a un sorriso perfido.

Rida era sempre stata un osso duro e, in quel duello, stava dimostrando tutta la sua abilità. Teie, dal canto suo, era considerata una tra le migliori spadaccine delle Cinnane. Le gambe nude delle due guerriere erano ben piantate in terra. I piedi sollevavano piccole nuvole di polvere nella rena della corte. Si muovevano a passi rapidi, studiati. Le ginocchia piegate per tenere basso il baricentro e il corpo incurvato per facilitare la difesa e offrire minor bersaglio alla lama nemica.

I momenti d’attacco si alternavano a quelli della difesa. Le duellanti avanzavano e indietreggiavano di continuo, il clangore delle lame accompagnava ogni tentativo d’affondo e ogni conseguente parata.

Teie scivolò sulla terra battuta. Agile, Rida le fu sopra e menò il colpo al centro del torace. L’altra fu lesta, ruotò il busto schivando di pochissimo la spada affilata dell’avversaria. Teie alzò gli occhi, il sangue fuoriusciva da una ferita di striscio al braccio.

Ormai le era chiaro che in gioco c’era la vita. Si erse con un colpo di reni e attaccò.

Simah, l’ufficiale comandante, si aggirava tra le sue sottoposte e valutava il loro grado di addestramento.

Teie mosse rapida la lama da destra verso sinistra andando a cozzare contro quella di Rida impegnata nell’ennesimo affondo. Quest’ultima, vittima del suo stesso impeto, si trovò sbilanciata. Teie ne approfittò. Si scansò di lato e le fece lo sgambetto, facendola cadere. Le fu addosso, la spada protesa verso la gola. Nello sguardo la fredda determinazione di chi è pronto a uccidere.

«Teie!» gridò Simah, accorgendosi dell’eccesso di foga.

Teie parve riscuotersi e arrestò la corsa della lama a poca distanza dal collo dell’altra. Sorrise e indietreggiò, sempre tenendo d’occhio le mosse di Rida.

Entrambe sapevano che non si era trattato solo di un allenamento svolto con eccessiva foga. Così come sapevano che, da quel momento, nulla tra di loro sarebbe più stato come prima.

«Devo parlarti, Teie», le disse qualche ora più tardi l’ufficiale.

«Ho visto poco fa l’accanimento tra te e Rida. Che cosa è successo?» chiese la comandante non appena furono sole in fureria.

«Nulla. Forse ci siamo lasciate un po’ prendere la mano», rispose Teie.

«Per quanto ti conosco, so che non sei il tipo da perdere il controllo. Specialmente mentre impugni una spada.»

«Proprio perché mi conosci, ti ripeto che non lo so. So solo che Rida ha comportamenti strani.»

 

La grande sala del trono era affollata: il giudizio che il faraone si apprestava a emettere aveva creato molta attesa nella pubblica opinione. Così, pur di assistere a una condanna esemplare, il popolo si era messo in coda sin dalle prime ore del mattino per guadagnarsi un posto da cui poter osservare le fasi salienti del processo.

Teie era poco distante dal trono su cui era assiso Tolomeo. La postazione si trovava al culmine di una scalinata monumentale fatta di piattaforme abbastanza ampie per ospitare giudici e difensori.

Quando gli accusati fecero il loro ingresso, nella sala scese un silenzio rotto soltanto dal tintinnio delle catene che gli imputati trascinavano sul pavimento. Quei derelitti venivano da molti giorni di torture, rinchiusi in celle malsane. Era un miracolo che fossero ancora vivi.

Quell’udienza così affollata aveva un pregresso antico.

Da qualche secolo i discendenti di Alessandro Magno si erano divisi in due rami principali: quello tolemaico regnava sull’Egitto. Mesopotamia, Siria, Persia e Asia Minore erano, invece, sotto il dominio della dinastia Seleucide.

Tra le due case regnanti non era mai corso buon sangue e periodicamente, dall’una o dall’altra parte, si alzavano violente rivendicazioni che sfociavano spesso in scontri armati.

Da quando Antioco era asceso al trono della dinastia Seleucide, la rivalità si era ancora una volta infiammata e il re di Siria aveva iniziato a foraggiare una fitta rete di dissidenti in territorio egizio rifornendoli di armi e di mezzi finanziari.

I cinque uomini tradotti innanzi alla corte erano accusati di cospirazione a danno del faraone nonché di essere al soldo di Antioco.

«Che cosa avete da dire a vostra discolpa?» tuonò il giudice anziano nel silenzio della sala del trono.

«Professiamo la nostra innocenza», rispose uno degli imputati.

«Volete forse negare che ricevete ingenti somme di denaro da Antiochia?» insisté il giudice.

«Lo nego!» gridò l’accusato con fermezza.

Il giudice fece cenno a un soldato di avvicinarsi.

«Volete forse negare che questo vi appartenga?» chiese ancora il giudice indicando il sacchetto di tela che il militare sorreggeva.

L’imputato non rispose. Il suo sguardo esprimeva il suo smarrimento.

«Prego sua maestà il faraone di voler prendere visione del contenuto del sacco.»

Il militare iniziò a salire verso lo scranno del re, ma Teie si frappose, intercettandolo a qualche passo di distanza. Non era consentito avvicinarsi al trono, né tantomeno consegnare un sacchetto o un involto che poteva contenere qualche serpente velenoso o chissà quale minaccia per il sovrano.

Teie aprì il sacchetto, vi infilò la mano e fece tintinnare le monete d’argento. Ne afferrò una e compì i pochi passi che la separavano da Tolomeo.

Mentre si avvicinava sbirciò la moneta. Su una faccia era riportato il profilo di Antioco, così diceva la scritta in lingua greca. Vi era ritratto un giovane con i capelli ricci e fluenti, la fronte non troppo alta e un naso imponente.

Teie conosceva quel profilo. Doveva solo ricordarsi dove avesse visto un uomo che assomigliava al re d’Antiochia.

L’illuminazione le venne mentre consegnava al re la moneta d’argento, e la sua emozione fu talmente intensa che per poco non lasciò cadere il sacchetto a terra.

Improvvise le tornarono alla mente le parole pronunciate dal senatore romano: «Quando, in battaglia, vengono sacrificati i generali al posto della truppa, presto scenderanno nella mischia re, regine e imperatori».

Il generale sacrificato era il gran sacerdote di Hathor e il ritratto raffigurato sulla moneta era identico all’uomo che Rida aveva scortato sino nel sotterraneo della biblioteca.

Teie rimase al suo posto e cercò di vincere l’impazienza. Appena tornata in caserma avrebbe parlato con Simah, l’unica persona nella quale riponeva una fiducia cieca.

 

Il corpo scelto delle guerriere Cinnane era un’accademia militare. Le ragazze erano affidate all’istituzione sin da bambine, ricevevano un’ottima istruzione e una paga più che decorosa. Quello che si chiedeva loro in cambio erano devozione e fedeltà assoluta. Teie, orfana di un ufficiale trucidato assieme alla moglie durante una sommossa, considerava i suoi comandanti al pari di parenti stretti e la truppa come la propria famiglia.

A questo stava pensando Simah mentre, all’interno della caserma, s’incamminava verso le camerate occupate dalle soldatesse.

Quello che la migliore delle sue allieve le aveva riferito non era da prendere alla leggera, soprattutto conoscendo la riservatezza e l’equilibrio di Teie. Lei stessa aveva notato dei comportamenti inusuali in Rida e, adesso che quest’ultima aveva approfittato della libera uscita per lasciare la caserma, l’ufficiale nubiana sarebbe andata a fondo della questione.

 

Ogni squadra, composta da dodici soldatesse oltre al comandante, occupava una camerata. Al caposquadra era riservato un angolo vicino alla porta protetto da un graticcio di legno.

Nelle dotazioni personali di ciascuna c’erano un letto, una rastrelliera dove riporre le armi e un armadio per custodire l’abito civile destinato alle rare uscite in borghese o la divisa durante le ore notturne.

Il comandante della squadra poteva godere di una maggiore riservatezza grazie allo stanzino a lei assegnato.

Simah oltrepassò l’ingresso, superò il divisorio in legno e iniziò a curiosare tra gli effetti della sottoposta. Rida aveva lasciato ogni cosa in perfetto ordine: l’arco e la spada d’ordinanza nella rastrelliera, la divisa ben ripiegata nell’armadio, il giaciglio in buono stato. Mancava tra le armi il pugnale, dotazione di ogni guerriera. Ma Simah sapeva che era buon uso che una guardia del re non fosse mai disarmata.

Aprì l’armadio ed estrasse la divisa, costituita da una tunica lunga sino al ginocchio e da un cinturone di pelle dove era fissato il fodero per la spada, quello per il pugnale e la faretra. Rovesciò il copricapo, un elmo in fibre vegetali verniciate color cobalto e rinforzate da inserti di metallo. L’elmo recava l’ureo sopra la fronte, simbolo regale, a indicare la devozione delle Cinnane al faraone.

Gli oggetti, tre o quattro in tutto, caddero tintinnando a terra.

Simah si chinò, sollevò la moneta d’argento, la strinse e a quel punto una mano d’acciaio l’afferrò per il mento, le sollevò il capo all’indietro esponendo la gola alla lama del pugnale. Rida non ebbe esitazione. Recise la gola della sua superiore con fredda determinazione assassina. Con altrettanta freddezza, raccolse le monete cadute, prima di abbandonare la stanza con il corpo dell’ufficiale nubiana a terra in preda alle convulsioni che precedono la morte.

Il faraone condannò tutti e cinque gli imputati alla pena capitale.

Quando si alzò dal trono a fine seduta, la squadra di guerriere gli si pose ai fianchi scortandolo nei corridoi del palazzo sino ai suoi appartamenti.

Congedato il sovrano, Teie era finalmente libera di raggiungere Simah in caserma e confrontare i suoi dubbi. Insieme avrebbero studiato un piano d’azione per capire, anzitutto, se i sospetti della giovane Cinnane fossero realistici.

La caserma era deserta quando la squadra, terminata la guardia a palazzo, rientrò negli alloggi. Teie andò subito in fureria, poi iniziò a cercare il suo comandante negli spazi comuni. Un grido agghiacciante si levò dalle camerate. Teie corse in quella direzione.

Simah giaceva supina in una pozza di sangue, la ferita alla gola era simile a un sorriso. Il sangue gorgogliava a ogni respiro sempre più debole della moribonda. Gli occhi della poveretta erano sbarrati ma mostravano ancora un ultimo barlume di coscienza. Anche il suo colorito, scuro come l’ebano, aveva assunto sfumature grigiastre.

Teie s’inginocchiò accanto alla donna che l’aveva cresciuta. Le passò teneramente la mano tra i capelli. Simah mosse gli occhi e provò a dire qualcosa, ma un fiotto di sangue schiumoso fuoriuscì dalla ferita.

«Stai tranquilla, comandante. Tra poco arriverà un medico.»

Solo gli occhi della nubiana parlarono: era consapevole che per lei non ci fosse più nulla da fare. Abbassò lo sguardo in un ultimo immane sforzo.

«Rida», sussurrò. Poi indicò la sua mano stretta attorno a un oggetto. Spirò mentre apriva le dita mostrando la moneta con l’effigie di Antioco di Siria.

Teie l’accarezzò, poi la sua espressione mutò in una smorfia d’odio. Si alzò, raggiunse la sua stanza, riempì la faretra e si infilò l’arco a bandoliera. Colma di furore, uscì dalla caserma.

Costeggiò l’edificio della biblioteca, raggiunse la porta laterale e la forzò per accedere agli archivi. Ripeté passo dopo passo il cammino percorso solo qualche giorno prima.

Quando raggiunse la sala dove aveva sorpreso la riunione dei sovversivi, si meravigliò di quanto fosse cambiata: in luogo degli spazi in cui erano radunati i seguaci della setta, adesso c’erano scaffali e rotoli di scritti in quantità. Non v’era più traccia dei bracieri e dei simboli sacri che aveva avuto modo di osservare durante i riti officiati dal re ribelle. Qualcuno aveva ripulito ogni prova di quella cerimonia segreta.

Quando fu di nuovo alla luce del sole, le tornarono in mente le parole del senatore romano: «La truppa...» ripeté in un sussurro. «La truppa!»

«Che cosa cerchi, soldatessa?» chiese uno dei sorveglianti della biblioteca, vedendo Teie uscire dai magazzini.

«Tu sai chi è stato qui negli ultimi giorni? Qualcuno deve aver visto chi spostava tutto quel materiale...» rispose la Cinnane.

«Non hanno impiegato molto tempo: è gente abituata a trasportare gravosi fardelli», disse il sorvegliante con un sorriso sibillino.

«Quindi li hai visti?»

«Li ho visti, ma spero di rivederli il più tardi possibile», disse l’uomo stringendo in un gesto scaramantico l’amuleto che portava al collo.

«Perché dici così?» chiese Teie trepidante.

«Perché quelli che hanno lavorato nelle stanze sotterranee per un paio di giorni erano becchini delle catacombe.» L’uomo estrasse da sotto la veste l’occhio di Horus d’agata per mostrarlo alla giovane. Ma Teie si era già dileguata.

 

Le catacombe avevano sede nella zona meridionale di Alessandria, poco distanti dalla porta della Luna nel quartiere di Karmus.

Era un cimitero che accoglieva i defunti da migliaia d’anni e, al suo interno, recava testimonianze delle tante etnie che avevano avuto l’egemonia sulla politica cittadina, dagli antichi egizi, ai greci e, da qualche tempo, ai romani.

Ogni periodo si differenziava dall’altro per gli oggetti rituali che formavano il corredo per l’aldilà dei trapassati. Generazioni di necrofori, per fare spazio ai nuovi arrivi, ne avevano prelevato i più maneggevoli, come cocci e anfore, e li avevano scaricati poco fuori l’ingresso delle catacombe. Lì era nata una collina – Kom el-Suqafa, la collina dei cocci – che aveva dato il nome al cimitero sotterraneo. Gli oggetti più voluminosi, invece, erano rimasti al loro posto. E così le catacombe di Alessandria erano diventate un enorme spazio disseminato di statue, are, altari votivi e sarcofagi di ogni epoca.

Un uomo camminava non senza fatica sui cocci. Recava una gerla in spalla e, a giudicare da come avanzava ricurvo, il carico doveva avere un peso consistente.

Il becchino raggiunse il posto prescelto per scaricare il materiale, depose il canestro e lo svuotò tra il tintinnio dei cocci e la polvere rossa della terracotta. Riprese la cesta vuota ma, mentre stava per rimetterla in spalla, un pugno lo colpì in pieno volto.

L’uomo barcollò per un istante e, quando riaprì gli occhi, trovò la spada di Teie puntata alla gola.

«Dov’è Rida?»

L’uomo non rispose e la guerriera premette con la punta della spada sul gozzo del becchino e lo incalzò: «Dimmi dov’è o ti taglio la gola».

«Sono nel triclinio. Lei, il gran sacerdote di Anubi e altri due uomini che non conosco...»

Teie aveva sentito abbastanza. Era stato sufficiente un attimo di deconcentrazione perché nella mano dell’uomo comparisse un pugnale come per magia. Le si scagliò addosso brandendolo e sibilando: «Muori, maledetta!» Teie strinse il pugno attorno all’elsa e vibrò un colpo secco alla gola dell’uomo. Il necroforo si accasciò senza un lamento. La Cinnane ne nascose il corpo sotto i cocci: non poteva lasciarsi dietro testimoni.

La guerriera imboccò la scala attraverso la quale venivano introdotti i feretri e prese a scendere lungo corridoi stretti fiocamente illuminati a intervalli regolari da alcune lucerne.

Nei passaggi si aprivano improvvisi degli slarghi, dove si trovavano altari, statue o lapidi di marmo a sigillare le tombe.

Teie conosceva l’ubicazione del triclinio perché vi aveva scortato il re, quando Tolomeo aveva partecipato alle esequie di un notabile sepolto in quel luogo. Purtuttavia fu costretta a tornare più volte sui suoi passi: non era facile orientarsi in quel dedalo di gallerie.

Poi finalmente udì le voci.

Il triclinio era il luogo dove si radunavano i parenti per celebrare il funerale e consumare il rituale pasto funebre. Era arredato con statue, lumi e bracieri, colonne e altari, tutto scolpito nella viva pietra. Anche le sedute erano ricavate nella roccia e coperte con dei cuscini.

Guidata dalle voci, Teie si appostò dietro a una colonna vicino allo stipite. Stava parlando l’uomo che lei aveva identificato come il re di Siria, Antioco.

«Quello che è accaduto a Rida in caserma e la riunione segreta violata da una spia rischiano di compromettere i nostri piani. Truppe scelte del mio esercito stazionano a poche ore di marcia da Alessandria. Sono pronte a intervenire, aspettano solo il segnale.»

Teie si sporse ed ebbe modo di riconoscere anche l’altro partecipante alla riunione, oltre a Narmer, il gran sacerdote del dio sciacallo Anubi: si trattava del generale Ghanim, comandante del corpo d’armata intitolato al dio Rah.

«Il segnale, maestà e incarnazione di Iside, doveva essere lanciato tra qualche giorno», disse il generale. «Allora avrei dovuto ordinare all’armata di Rah di ribellarsi a Tolomeo e, subito dopo sarebbe toccato alle truppe siriane fare irruzione in città. Ma questi incidenti ci costringeranno a modificare i tempi. Ho già avvertito i nostri e aspettano solo l’ordine per ribellarsi. Se non agiamo saremo scoperti.»

«Agire subito... certo.» Narmer aveva tratti quasi femminei e anche la sua voce stridula era assai simile a quella di una donna. Era cugino di primo grado del re e ripagava con la moneta del tradimento il potere a lui concesso per volontà del sovrano. «Ho convocato qui tutti i sacerdoti a noi fedeli per domani mattina. Aspettiamo solo un tuo ordine, Antioco.»

«Domani, al tramonto, sarà il momento della rivolta. E finalmente ci libereremo dell’usurpatore Tolomeo. Tu, Rida, dovrai tenere i collegamenti e comunicare ai nostri l’ordine di mobilitazione.»

Teie era pronta a intervenire, ma frenò la sua foga: aveva scarse possibilità di sopravvivere a quattro avversari. Doveva anche fermare gli altri che, oltre ai presenti, erano pronti a sconvolgere il regno d’Egitto eliminando il faraone. Per riuscire a smascherarli avrebbe dovuto attendere. Non era ancora giunta l’occasione di soddisfare la sua sete di vendetta.

L'ombra di Iside
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