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Il caffè Novecento era situato in una traversa della via del commissariato fiancheggiata da un porticato. In vetrina erano appese fotografie della città come appariva a metà del secolo scorso. Aurora si soffermò a guardare una stampa che ritraeva il corso principale e la porta in chiaro stile seicentesco, il ritratto di alcuni contadini immersi nell’acqua fino alle caviglie durante un’alluvione del Po, la rocca estense e il suo fossato, una foto scattata da una posizione rialzata che mostrava il piazzale del duomo affollato durante una processione.

Bruno la precedette all’interno e andò a sedersi di fronte al bancone, che era illuminato da una serie di faretti appesi a dei cavi di metallo. Aurora entrò a sua volta, guardò Bruno titubante, poi prese posto in un tavolino in disparte, in fondo al locale, protetta dalla penombra. Bruno le rivolse uno sguardo interrogativo, poi ordinò due caffè al vecchio barista, lasciò il suo sgabello e la raggiunse.

«Scusa» mormorò lei, dopo che anche Bruno si fu seduto. «Non mi piacciono i riflettori.»

Bruno tirò un sorriso obliquo. «Neanche a me.»

Seguì un lungo silenzio, finché il barista portò le due tazzine di espresso fumante al tavolo. Lasciò un contenitore di bustine di zucchero e chiese se desideravano qualcos’altro. Aurora lo ignorò, Bruno fece cenno di no con il capo, poi versò una bustina di zucchero nella tazzina e iniziò a mescolare.

Aurora soffiò sul caffè per raffreddarlo. Aveva lo sguardo perso verso un punto indefinito davanti a sé.

Quello che aveva visto sulla scena tornava a perseguitarla. I chiodi che spuntavano dagli occhi di Rossella Gualtieri, la mano inchiodata alla ringhiera. Continuava a rivedere la scritta con il sangue e a chiedersi cosa potesse significare. Non capiva la riluttanza a parlarne da parte dei suoi colleghi. Si trattava soltanto di diffidenza nei confronti dell’ultima arrivata o stavano cercando di nascondere una scomoda verità?

«Sei una purista dell’espresso?» scherzò Bruno.

Aurora si scosse dalle sue riflessioni. «Cosa?»

«Espresso. Amaro. Bollente. Hai presente?»

«Non dobbiamo fare conversazione per forza.»

«Non stavo…» fece Bruno. Poi sbuffò: «Oh, lascia perdere».

«Bene.»

«Bene un cazzo. Ora capisco perché ti hanno mandata via da Torino.»

Aurora gli lanciò un’occhiata avvelenata. «Tu non sai proprio niente di me.»

«E meno male che in commissariato sono io quello taciturno.»

«Pensa se eri uno loquace.»

Bruno ingoiò l’ultimo sorso di caffè e posò la tazza sul piattino. «È andata così male con Piovani?»

«Anche peggio» rispose Aurora. «Mi ha tagliato fuori dall’indagine.»

«Cerca di capirlo. È sotto pressione, questa situazione non è facile neanche per lui.»

«Non è tutto. Mi ha sbattuta all’ufficio immigrazione.»

«Da qualche parte dovrai pure cominciare.»

Aurora si morse un labbro. «La cosa più assurda è che hai detto tu stesso che anche gli amministrativi sono stati coinvolti nella caccia all’uomo. Tutti, a eccezione della sottoscritta.»

«Sei appena arrivata» ribatté Bruno, calmo. «Datti il tempo di ambientarti. Sei stata lontana dal servizio per tantissimo tempo.»

Aurora distolse lo sguardo. I tempi del servizio operativo le sembravano così lontani da appartenere persino a un’altra vita. Ma se lo era meritato, quel posto. Era stata la migliore allieva del corso di Criminologia, e dopo la laurea si era classificata prima in graduatoria al concorso per vice ispettore di polizia. Era diventata la brillante investigatrice che aveva sempre sognato di essere. A differenza del padre, tuttavia, alla carriera giuridica aveva preferito la squadra mobile. Pensava che dalla strada avrebbe avuto una prospettiva migliore, che se non avesse smesso di correre non avrebbero potuto colpirla. Né i sicari della mafia, né i fantasmi del passato. Solo se ti fermi diventi un bersaglio.

Ora, a ventinove anni e un frammento di proiettile conficcato in testa, cosa le restava del suo brillante passato, delle sue motivazioni? Cosa era rimasto dell’ambiziosa, caparbia Aurora?

«D’accordo» sospirò per sfuggire al flusso di pensieri. «Conversazione sia.»

Bruno le rivolse uno sguardo perplesso.

«Allora, che tipo è?» chiese Aurora.

«Di chi stai parlando?»

«Elena.»

«Perché ti interessa?»

«Stiamo facendo conversazione.»

Bruno fece un ampio respiro. «Non c’è molto da dire. Se non che è incredibilmente paziente, considerando i miei orari.»

«Se fai il poliziotto non puoi farti anche una famiglia. Lo dicono tutti… un motivo ci sarà.»

«Elena ha avuto Chia da una relazione precedente.»

«Chia?»

«La chiamano tutti così, ma il suo nome è Chiara. Ha sedici anni.»

«È un bellissimo nome» ammise Aurora. «Ma non è un po’ grande per dormire con la mamma?»

Lui indugiò a lungo prima di rispondere. Quando si decise, venne distratto dalla porta del bar, che si aprì tintinnando.

D’istinto, Aurora lanciò un’occhiata all’ingresso e vide entrare un uomo dal viso rotondo, sulla quarantina, occhi sporgenti e capelli pettinati all’indietro, indosso un impermeabile chiaro.

«Bruno Colasanti» esultò. «Speravo proprio di incontrarti.»

Bruno gli lanciò un’occhiata ostile. «Cosa vuoi, Longhi?»

Longhi lo raggiunse e prese posto su una sedia a fianco del tavolino. Indicò Aurora con un cenno del capo. «Elena lo sa?» insinuò.

«Non fare l’idiota. È una mia collega» sospirò Bruno.

«Stavo solo scherzando.» Longhi appoggiò una mano sulla spalla di Bruno, che la scostò con un movimento brusco.

«Non mi toccare» sibilò.

«Nervi tesi?»

«Lasciami in pace» sbottò Bruno. Poi, guardandolo intensamente, aggiunse: «Vattene».

«Ehi, è un luogo pubblico» ribatté Longhi, estraendo un tablet dalla tasca interna del soprabito e iniziando ad armeggiare con una app di videoscrittura. «E poi la stampa ha il diritto di sapere cosa ha intenzione di fare la polizia per salvare la vita alla bambina. Perché state facendo qualcosa, oltre a starvene seduti al tavolo di un bar, vero?»

Bruno non disse nulla.

Longhi aggiunse: «Che c’è? Il caffè ti ha scottato la lingua? O senza Piovani che suggerisce non sai cosa dire?».

«Ci sarà una conferenza stampa nel primo pomeriggio» ribatté Bruno sforzandosi di parlare lentamente. «Non dirmi che non sei stato invitato.»

Longhi sogghignò. «Non sono interessato alla propaganda delle dichiarazioni ufficiali… sono un giornalista che ama mimetizzarsi dietro le quinte. Forza, non essere timido! Un’anticipazione dalla trincea per il notiziario di mezzogiorno.»

Da parte di Bruno seguì un lungo silenzio. Sembrava che stesse lottando per mantenere la calma.

«L’hai sentito, no?» intervenne Aurora. «Lascialo in pace.»

Longhi corrugò la fronte. «Potrebbe qualificarsi, agente?»

«Non sono un agente, ma un sottufficiale» lo corresse Aurora. «Vice ispettore Scalviati. E ora, se non ti dispiace, vorrei che ci lasciassi soli. Come immaginerai, abbiamo molto di cui discutere, io e il sovrintendente Colasanti.»

«L’unica cosa che mi dispiace è non avere avuto la possibilità di conoscerti prima. Non sei niente male, sai?» Longhi sorrise, e Aurora si accorse che gli mancava un molare.

Bruno si alzò di scatto, facendo stridere lo sgabello sulle piastrelle del pavimento. Afferrò il mento di Longhi con la mano sinistra e fece per caricare un diretto destro. La sedia cadde a terra seguita dal tablet. Lo schermo si frantumò nell’impatto.

«No!» gridò Aurora prima che Bruno potesse colpirlo.

La mano tremante di Bruno rimase sospesa a mezz’aria, mentre sul viso di Longhi compariva un’espressione di sfida.

Un cellulare cominciò a squillare. Il suono proveniva dalla tasca della giacca di Bruno.

«Lascialo andare, cazzo!» intimò Aurora.

Bruno tratteneva la mandibola di Longhi in mano come se volesse stritolarla. Tuttavia, alcuni secondi dopo, lasciò la presa.

Longhi barcollò all’indietro per qualche istante, poi ritrovò l’equilibrio. Raccolse da terra il tablet con lo schermo crepato e si affrettò verso l’uscita. Prima di aprire la porta, sembrò sul punto di dire qualcosa. Ma invece di parlare, scosse la testa con forza e si avviò fuori con passo veloce.

«Si può sapere che ti è preso?» sbottò Aurora. Poi, d’istinto, seguì Longhi all’esterno. «Va tutto bene?» chiese, dopo averlo raggiunto.

Longhi aveva lo sguardo avvilito. «Lasciami perdere» mugolò.

Aurora si morse il labbro inferiore. «Ti chiedo scusa per il mio collega, credo sia un po’ teso per quello che è successo stanotte.»

«Già, l’omicidio di Rossella Gualtieri. Ha scosso tutti in città, ma questo non giustifica il suo comportamento. Lo vedi il dente che mi manca? È stato Colasanti a farmelo saltare via. Con un pugno.»

«Cosa?» farfugliò Aurora.

«Tu non lo conosci, Colasanti. È un violento. Crede che essere poliziotto gli assicuri una specie di impunità.»

«È vero, non lo conosco» sospirò Aurora. «Ma…»

«E allora ti consiglio di stargli alla larga, finché puoi» la interruppe Longhi. Poi la guardò intensamente. «Non fidarti di lui. È un tipo pericoloso.»

Aurora era frastornata. Rimase immobile a osservare Longhi che raggiungeva la sua auto, avviava il motore e partiva sgommando.

Pochi istanti dopo, Bruno uscì dal locale, trafelato.

«Dove stai andando?» chiese Aurora.

«I tecnici della scientifica hanno bisogno di me. Devo tornare sulla scena.»

Aurora rimase combattuta per qualche istante. Dopo la piazzata di Longhi, non aveva idea se fidarsi del collega fosse la scelta giusta. Ma doveva rischiare. Era l’unico modo per partecipare, anche se indirettamente, alle indagini. «Portami con te» propose.

«Piovani andrà su tutte le furie.»

«Piovani non lo saprà» ribatté Aurora, determinata. «Ho la macchina parcheggiata qui fuori. Ma questa volta guido io.»

Aurora nel buio
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