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«Non c’è campo quassù» disse Aurora, osservando il display del cellulare. «Volevo chiamare Bruno per informarlo che siamo arrivate.»
Il viaggio era durato quasi due ore, un po’ per il traffico e un po’ per le strade tortuose del tratto appenninico. Silvia condusse l’auto attraverso la cancellata aperta, su cui dominava la scritta Villa Clara in caratteri di metallo. Percorse il vialetto d’accesso fiancheggiato da pioppi, poi parcheggiò di fianco alle altre automobili presenti, a ridosso di un cortile ben curato dominato da un pozzo centrale.
Da quella posizione si godeva di una splendida vista sui frutteti che si estendevano fino a valle. L’aria era pulita, spazzata da una leggera brezza che proveniva dal versante opposto del colle.
Prima di salire la gradinata che conduceva al porticato d’ingresso, Aurora si soffermò a osservare l’edificio. Si trattava di una villa settecentesca dall’intonaco color crema e finestre disposte su due piani, con cornici in rilievo dipinte di rosso borgogna e fasce marcapiano dello stesso colore. Un timpano curvo svettava al centro della facciata.
Attraverso la porta a vetri scuri si intravedeva l’interno. Da un salone dal pavimento a scacchi saliva una scalinata elicoidale. A lato c’era una guardiola fiancheggiata da colonne, ma dentro non c’era nessuno. Aurora suonò il campanello sotto la targhetta con scritto Istituto di igiene mentale e, dopo qualche istante, una voce la invitò a entrare.
Dopo che ebbe spiegato il motivo per cui lei e Silvia si trovavano lì, un’infermiera dai modi sbrigativi le condusse in una sala d’attesa, assicurando che sarebbero state raggiunte al più presto da un responsabile.
Pochi minuti dopo, fece la sua comparsa sulla soglia un ragazzo sulla trentina un po’ sovrappeso e con il naso a patata.
«Buongiorno, Guido Farneti» disse il ragazzo. «Sono uno dei volontari del centro.»
Aurora e Silvia si presentarono a loro volta.
Farneti le informò che in quel momento il direttore della struttura, il dottor Rambaldi, era in riunione e non le poteva ricevere. Per ingannare l’attesa si offrì per accompagnarle in una visita guidata della struttura.
Aurora acconsentì, e poco dopo Farneti condusse lei e Silvia in un lungo corridoio fiancheggiato da porte.
«Che tipo di pazienti sono ricoverati, qui?» chiese Aurora, come per prendere le distanze da un luogo che all’improvviso le sembrava tremendamente familiare. Non era passato molto tempo da quando era stata dimessa. Ricordò la sua stanza, la pianta grassa che aveva adottato e che aveva soprannominato Golem, da un romanzo preso in prestito dalla biblioteca dell’ospedale che aveva letto almeno sei volte.
«Quelli che nessuno vuole» rispose Farneti, evasivo.
Una donna in montura da lavoro uscì da una delle stanze spingendo un carrello di biancheria pulita.
Alle sue spalle spuntò una ragazza magra, sui venticinque anni, con i capelli corvini dal taglio maschile che incorniciavano un viso dall’ovale perfetto e grandi occhi neri. Indossava una T-shirt con la stampa del gatto Felix e un paio di pantaloni larghi di cotone. Li portava così bassi che si intravedeva l’elastico bianco delle mutandine.
Osservò per un po’ Aurora e poi le chiese: «Sei una nuova?».
Forse perché era accompagnata da un dipendente dell’istituto e da una ragazza in divisa.
«I-io?» balbettò Aurora. «No… sono soltanto in visita.»
La ragazza fece un sorriso sghembo, senza smettere di fissarla.
«Lena, non dovresti essere con gli altri alla terapia di gruppo?» intervenne Farneti. «Lo sai che non è consentito restare nella propria stanza durante il giorno.»
«Odio la terapia di gruppo» sbottò Lena, scandendo le parole con enfasi. «C’è quel tipo che mi molesta, non lo sopporto più.»
«Enrico se n’è andato da due mesi, Lena» puntualizzò Farneti, con tono conciliante. «Forza, non farmelo ripetere. Vieni con me, ti accompagno» e le tese la mano per incoraggiarla a seguirlo.
Aurora era imbarazzata e non sapeva dove stare. Fece un passo in avanti per togliersi di mezzo. Il cuore aveva iniziato a battere forte nel petto. Non poteva fare a meno di pensare che era stata nella stessa situazione di quella ragazza, e non molto tempo prima.
Si era illusa di essere guarita, Aurora, ma sapeva che avrebbe potuto avere una crisi da un momento all’altro. Aveva un disperato bisogno di procurarsi i farmaci che le aveva prescritto Mascarelli. Sapeva che non avrebbe potuto iniziare una terapia da un altro psicanalista, altrimenti Piovani sarebbe stato il primo a saperlo, e a quel punto niente lo avrebbe trattenuto dal farla cacciare dalla polizia.
Lena appoggiò la schiena allo stipite della porta. Rimase in silenzio, osservando la mano che Farneti tendeva verso di lei. «Hai portato le mie sigarette?» gli chiese, poi.
Farneti scosse la testa con forza. Guardò in basso, si grattò la nuca. Sembrava in imbarazzo. «Non le ho con me.»
«Eppure te lo avevo chiesto per favore» ribatté lei. «Ti avevo chiesto soltanto una cosa. Soltanto-una-stramaledettissima-cosa!»
Farneti si guardò intorno, imbarazzato. «Ti prego, Lena, non fare così. Sai che al dottor Savini non piace che si urli per il corridoio.»
«Me ne frego di Savini, e me ne frego della sua stupida terapia di gruppo» disse Lena con tono controllato. Il viso era corrucciato, ma sembrava aver improvvisamente ritrovato una parvenza di calma.
«Dovete scusarmi» disse impacciato Farneti ad Aurora. «Tutto questo non era previsto.»
Lo sguardo di Aurora rimbalzò dal giovane volontario a Lena, la quale, a sua volta, aveva ricominciato a fissarla.
«Be’?» disse Lena. «Che hai da guardare, tu?»
Aurora aveva le mani sudate. «N-niente.» Le sembrava di osservare se stessa com’era qualche anno prima, quando le crisi erano più frequenti, quando aveva perso il controllo delle emozioni. Quando gli sbalzi d’umore e le fissazioni le impedivano di distinguere la realtà dalla fantasia. Con un movimento involontario, scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, sfiorando con un polpastrello la cicatrice.
«Ti credi diversa da me?» la incalzò Lena.
«Lena, ti prego» si intromise Farneti. «Non importunare le nostre ospiti.»
«È lei che ha cominciato» sbottò Lena. «Mi guarda come se fossi una pazza. Ma non sono io la pazza, qui dentro.»
Farneti estrasse il cercapersone dalla tasca per chiamare aiuto.
Lena glielo strappò di mano con un movimento rapido. Iniziò a rigirarselo tra le dita. «E ora che fai?» gli chiese con tono di sfida. «Senza il tuo piccolo strumento di potere anche tu sei come me.»
«Signora Vincenzi» invocò Farneti in direzione della donna delle pulizie, che nel frattempo aveva raggiunto il fondo del corridoio.
«Mi dica» fece lei, arrestando il carrello con gli asciugamani.
«Potrebbe chiamare gli infermieri, per cortesia?» chiese, sforzandosi di parlare con un tono calmo.
«Che succede, Farneti?» lo incalzò Lena. «Non sei abbastanza uomo per tenere a bada una ragazza indifesa?»
«Vado subito» disse la donna delle pulizie, cercando di nascondere l’agitazione.
Senza alcun preavviso, Lena colpì Farneti con uno schiaffo. «Dove sono le mie sigarette?»
Silvia, che fino a quel momento aveva assistito alla scena incapace di reagire, scattò in avanti e bloccò i polsi di Lena. «Ferma» intimò. Ma ebbe un attimo di esitazione quando si accorse che erano solcati da due cicatrici profonde.
Lena ne approfittò per colpirla con una testata. «Non ti intromettere, tu» grugnì.
Silvia cadde sul pavimento, stordita. D’istinto si portò le mani al naso, sentendo colare del liquido caldo dalle narici.
Farneti sgranò gli occhi. «Che cosa hai fatto?»
«Oddio… scusa» mugolò Lena. Il suo sguardo fu attraversato da un lampo di pura disperazione. Si rivolse al giovane volontario. «Non volevo farle del male… io… volevo soltanto le mie sigarette.»
Aurora era impietrita. Non riusciva a trovare la forza di reagire. Il senso di dejà-vu era troppo forte; ogni muscolo del suo corpo era contratto, immobile come un blocco di cemento.
Silvia tirò fuori dalla tasca un fazzoletto per tamponare il naso, da cui continuava a colare sangue.
Farneti cercò gli occhi di Lena. «Guardami, Lena.» La voce gli uscì strozzata. Era evidente che stava lottando per mantenere il controllo. «Respira profondamente. Devi cercare di calmarti.»
Lena iniziò a singhiozzare sommessamente. «Non volevo» continuava a ripetere. Poi si scagliò nuovamente contro Farneti. «È colpa tua! Questa ragazza non c’entrava niente… Tu me l’hai fatto fare!»
Lui si coprì il viso con le mani e si rannicchiò su se stesso, mentre lei iniziava a tempestarlo di pugni e calci.
«Smettila, ti prego» implorò Farneti.
Si sentirono dei passi concitati nel corridoio, poi Lena venne immobilizzata da due infermieri.
Lena scalciò, sbraitando. Si contorceva con una forza insospettabile in una ragazza tanto esile. Con una gomitata riuscì a colpire allo stomaco uno dei due infermieri, che si piegò in due dal dolore. Poi sferrò una ginocchiata nelle parti intime dell’altro e, dopo essersi divincolata, si mise a correre verso l’uscita.
Silvia iniziò a inseguirla e, quando fu abbastanza vicina, si lanciò in avanti e le afferrò le gambe. Le due ragazze rotolarono sul pavimento.
Lena cercò di colpire Silvia con una gomitata, ma lei riuscì a schivare il colpo.
Poi cinse con un braccio il collo della ragazza e strinse per un paio di secondi. Nella concitazione, sembrò che la stesse soffocando, perché i due infermieri, che nel frattempo si erano rialzati e le stavano correndo incontro, si misero a urlare di lasciarla stare.
Silvia alzò le mani, come in segno di resa. «Ehi, l’ho soltanto addormentata.»
Lena si divincolò dalla presa e si alzò barcollando. Fece qualche passo incerto, poi crollò a terra priva di sensi. Farneti e i due infermieri la raggiunsero e cercarono di sollevarla.
«Mi spiace tantissimo» disse Farneti a Silvia. «Non ho idea di cosa le sia saltato in mente… era da parecchio tempo che non aveva una crisi.»
«Nessun problema» ribatté lei. «Ho solo bisogno di un po’ di ghiaccio.»
In quei momenti concitati, nessuno si era accorto di Aurora, che si era appoggiata con la schiena alla parete e si era lasciata scivolare sul pavimento, incapace di fare altro se non osservare la scena in disparte. Detestava la sensazione che stava provando. Era sconvolta, e continuava a ripetersi che avrebbe potuto esserci lei al posto di Lena. Che se non avesse trovato la forza di reagire sarebbe stata ancora rinchiusa in un istituto come quello.
Alle sue spalle c’era una stanza completamente immersa nel buio. La porta era socchiusa, e dall’interno proveniva una voce profonda.
«Chi sei?» mormorava.
Aurora rimase a lungo con lo sguardo immobile. Si stava chiedendo se la voce che aveva sentito era reale, o se stava immaginando tutto.
«Vice… ispettore Scalviati» riuscì a dire, poi.
«Scalviati» continuò la voce. «Entra, ti prego.»