18
«È finita» disse amaramente Aurora tra sé, rivolgendo un’occhiata all’insegna del b&b La piccola fattoria. Ma come poteva rassegnarsi, sapendo che la piccola Aprile era prigioniera di una mente criminale?
Si diresse verso l’ingresso con passo sicuro. Incrociandola, la vecchia proprietaria le rivolse un sorriso, a cui Aurora rispose con una smorfia delusa.
«Va tutto bene?» le chiese la signora.
Aurora annuì d’istinto, ma la sua scarsa convinzione non sfuggì agli occhi indagatori dell’anziana proprietaria.
«È per via di quella bambina che hanno rapito, vero?»
Aurora si morse il labbro inferiore, sforzandosi di controllare l’espressione. Non voleva sembrare insicura. Apparteneva alle forze dell’ordine, dopotutto: quelli che avrebbero dovuto salvare la piccola Aprile, e non avere paura per lei. Paura per quello che le sarebbe successo, per quello che le avrebbero fatto. Quando la notte prima aveva rivelato alla proprietaria dell’albergo di essere un sottufficiale di polizia, la signora era apparsa… sollevata. Forse era persino orgogliosa di avere una poliziotta come ospite. Aveva fiducia in lei e nelle sue capacità. E ora Aurora non poteva permettersi di apparire debole.
«Io sono… l’ultima arrivata» farfugliò. «Temo soltanto di non poter fare abbastanza.»
La vecchia la scrutò con aria furba. «Si vede che lei è scaltra. Sono certa che farà tutto il possibile per ritrovarla.»
Aurora rimase pensierosa per un lungo istante. «Già» constatò poi. «Ma a volte il possibile non è abbastanza.»
La signora rimase per un attimo interdetta, poi fece un sorriso cordiale e tornò alle sue occupazioni.
Aurora rimase immobile a osservarla, chiedendosi se non fosse stata scortese. Forse Bruno aveva ragione. Stava permettendo alle sue emozioni di prendere il sopravvento.
Dopo aver salito le scale, entrò nella sua stanza.
Il trolley era abbandonato in un angolo, come in attesa. Ciò che rimaneva del suo passato era tutto lì. Ma il bagaglio che Aurora si portava dentro era di gran lunga più ingombrante. Era finito il tempo delle abitudini, delle certezze. E non c’era spazio nemmeno per la nostalgia, adesso: tutto spazzato via da ciò che era successo al vecchio mattatoio, una notte di quasi due anni fa. L’aveva svuotata, annientata. E aveva finito per riempirle la vita di segreti.
Dal trolley tirò fuori un vecchio volume dalla copertina sgualcita. Lesse il titolo distrattamente: La vita di Maria Callas. Poi lo appoggiò sul comodino.
Ripose ordinatamente la biancheria nei cassetti. Dopo aver appeso le camicie nell’armadio, si sorprese di non riuscire a trovare le scatole delle medicine.
Le tempie iniziarono a pulsare; il frammento del proiettile nella sua testa reclamava attenzione. Controllare il respiro diventò difficile. La vista si annebbiò per qualche attimo. Aurora rovesciò il beauty, rovistò nelle tasche delle giacche e dei pantaloni ancora ripiegati, ma senza risultato.
Poi, come un flash, l’istantanea di un ricordo le perforò la mente: la busta con i farmaci e le ricette false del professor Mascarelli era rimasta nel suo appartamento a Torino, appoggiata sul mobile all’ingresso, in bella vista, una posizione da cui sarebbe stato impossibile dimenticarla. Eppure era successo.
Le sedute clandestine di ECT avevano inizialmente contribuito a stabilizzare gli sbalzi d’umore e curare la depressione. Ma poi, con la notizia del trasferimento c’era stata la ricaduta. Aurora aveva appena ricominciato la terapia farmacologica e sapeva che ci sarebbero volute settimane prima che desse risultati. Ma aveva fatto tardi per sbrigare le ultime pratiche ed era uscita di casa in tutta fretta. Così, la busta era rimasta lì.
Aurora aprì il portapillole d’argento che portava al collo. Ma ebbe solo la conferma che era vuoto.
Percorse la stanza avanti e indietro dandosi della stupida. D’un tratto si sentì perduta, scoraggiata. Si sedette sul letto, sforzandosi di trattenere le lacrime. Poi si stese e sollevò lo sguardo fino a incontrare il soffitto, su cui una sottile crepa nell’intonaco strisciava verso la parete come un serpente. Aurora si incantò a guardarla, finché gli occhi iniziarono a bruciare e la visione si fece appannata. Sbatté ripetutamente le ciglia per rimettere a fuoco l’immagine. Ma la sua mente era già altrove.
D’un tratto, non era più nella stanza di un bed & breakfast in una città che non conosceva e che sembrava volerla respingere. Si trovava sulla soglia di un lungo corridoio fiancheggiato da colonne in metallo, a loro volta collegate alle pareti tramite dei tubi circolari fissati con dei tasselli.
Dal soffitto pendevano dei ganci arrugginiti. Ai lati si aprivano degli spazi con al centro delle vasche rettangolari.
Il vecchio mattatoio.
Aurora camminava con circospezione. Nella mano destra impugnava la pistola d’ordinanza. Con l’altra stringeva la torcia elettrica con cui fendeva l’oscurità.
Non smettere di muoverti. Così non ti potranno prendere.
Procedeva a piccoli passi, calpestando con gli anfibi le pozzanghere d’acqua stagnante che si erano formate sul pavimento di cemento per via delle infiltrazioni. Rischiò di inciampare in qualcosa di solido. Diresse il fascio della torcia sul pavimento e vide che si trattava soltanto di un piccolo cumulo di detriti. Guardò il soffitto, era crollato in più punti. Sperò che proprio in quel momento non le cadesse addosso una tegola o una delle assi che sostenevano quello che restava del tetto.
Qualcosa si mosse al limitare del suo campo visivo. Aurora puntò la pistola e un grosso ratto scomparve all’interno di una fessura del muro. Quel luogo, abbandonato da decenni, era diventato un covo di topi e un rifugio per piccioni durante la stagione fredda.
All’improvviso iniziarono le grida. Una voce femminile echeggiava nell’aria. Lamenti che sembravano provenire da tutte le direzioni.
Poi avvenne l’inaspettato.
Su una parete iniziò a disegnarsi una scritta che sembrava fatta di sangue.
Le lettere comparvero una dopo l’altra, formando una frase. Un particolare che non faceva parte del ricordo di quella notte, e che non era mai apparso prima negli incubi di Aurora.
Tu non farai alcun male.
Aurora si sollevò sui gomiti di scatto, ingoiando l’aria con avidità, come dopo una lunga apnea.
Nelle orecchie continuavano a rimbalzare quei lamenti, ma sempre più flebili. Immaginò che fosse la piccola Aprile che invocava aiuto, persa da qualche parte nella campagna emiliana.
«È un’illusione» si ripeté Aurora, cercando di riprendere contatto con la realtà.
Era ancora stesa sul letto della sua stanza d’albergo. A sovrastarla c’era il soffitto con una crepa. Intorno a lei c’era soltanto silenzio.
Dopo un lungo istante di smarrimento, Aurora estrasse il cellulare con cautela, come se stesse maneggiando dell’esplosivo. Guardò l’ora nel display. Il tempo stava scorrendo inesorabile. Ogni minuto che passava, più si avvicinava il termine dell’ultimatum del killer.
Aurora fece un ampio respiro, sforzandosi di scacciare le immagini che erano emerse dai recessi della sua mente.
Scorse la rubrica e di nuovo cercò il numero di Flavio. Questa volta fece partire la chiamata, ma riagganciò dopo appena uno squillo. Si sorprese nello scoprire che l’utenza era ancora attiva.
Ripensò a tutte le volte che si era ripromessa di cancellare quel numero dal telefono, ma a cosa sarebbe servito? Aurora sapeva che non avrebbe mai potuto dimenticare. Le conseguenze di quella notte erano incise nella sua carne come un frammento di proiettile.
«Si faccia una doccia» disse tra sé, per poi stringersi nelle spalle. «’Fanculo.»
Si alzò. Fece una veloce ricerca su internet e individuò l’indirizzo del negozio di elettronica più vicino, dove si procurò una stampante wireless, inchiostri di ricambio, una risma di carta normale e una di carta fotografica, dei post-it, un pennarello rosso e del nastro adesivo.
Tornata nella sua stanza, Aurora sgomberò la parete dai quadri, spostò la scrivania a ridosso della finestra e vi appoggiò sopra la stampante. Dopo averla configurata per funzionare col cellulare, si mise a stampare quadrante per quadrante lo stradario della città per costruire una cartina che fissò al muro usando il nastro adesivo. Infine, stampò la foto che aveva scattato alla pagina del calendario di casa Gualtieri e la incollò di fianco.
Probabilmente la vecchia proprietaria non avrebbe apprezzato gli sconvolgimenti che Aurora aveva apportato all’arredamento della stanza, ma al momento non l’avrebbe scoperto. Erano d’accordo che ci avrebbe pensato Aurora alle pulizie e a richiedere la biancheria di ricambio quando le serviva. Motivi di riservatezza, le aveva detto.
Aurora osservò la foto della pagina del calendario per qualche istante.
Un’asta spessa verticale al centro, con sopra e sotto delle specie di filamenti che si allargavano ai lati come sottili tentacoli.
Dalla tasca della giacca recuperò la lista delle ispezioni che le aveva dato Di Blasi. Aiutandosi con il navigatore del cellulare per individuare gli indirizzi, iniziò a tracciare sulla cartina dei segni col pennarello in corrispondenza di ognuno di essi.
Era circa a metà della lista quando il cellulare cominciò a squillare. Era Bruno.
«Mi stai controllando?» fece Aurora, rispondendo alla chiamata.
«Hanno trovato l’auto di Gualtieri» ribatté dall’altro capo.
I battiti del cuore accelerarono. «Dove?»
«Fuori città, a una ventina di minuti, parcheggiata sull’argine del Cavo Napoleonico.»
«Aprile?»
«Per ora niente. L’auto è chiusa a chiave, ma stanno arrivando i vigili del fuoco per aprire il bagagliaio.»
«Faranno un macello con le impronte.»
«Il rischio di contaminazione della scena è altissimo, anche perché tutti danno per scontato che Gualtieri si sia buttato in acqua con la figlia. Ci vorrà un po’ prima che arrivi la scientifica, dato che la maggior parte dei tecnici è ancora impegnata a casa Gualtieri. Io non potrò essere sul posto, devo andare con Piovani alla conferenza stampa. Insomma, non ti ho detto nulla, ma se ti dovesse capitare di passare da quelle parti e volessi dare un’occhiata…»
«Dammi solo le coordinate GPS» lo incalzò Aurora. «Sarò lì più in fretta che posso.»
«Te le sto inviando in questo momento.»
Seguì un istante di silenzio. Poi Aurora riprese: «Un’ultima cosa, Bruno».
Lui rimase in attesa.
«Grazie.»