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Mentre Silvia guidava, Aurora osservava incantata il paesaggio che scorreva dal finestrino. Un paesaggio piatto, fatto di ampiezze vuote su cui spuntavano di tanto in tanto vecchie case coloniche, di strade a tratti tortuose e a tratti diritte come lunghi scivoli di asfalto, di terra che abbraccia la pietra e di alberi alti come severi guardiani.

Il fluire indolente dell’acqua dei canali che solcavano il terreno trascinava vie di fuga per lo sguardo. L’orizzonte creava dissolvenze inattese, nel momento in cui dalla foschia emergeva il rudere di un’abbazia o di una torre che assomigliava al relitto sopravvissuto a un naufragio. Era come navigare su un oceano di tracce appartenenti ad antiche consuetudini, ora dimenticate. Su tutto dominava il biancore di un cielo immobile, in cui fluttuava un sole pallido dal bagliore ovattato.

L’auto oltrepassò una casa puntellata con delle travi che la rivestivano come un esoscheletro.

«Queste sono le zone del terremoto?» chiese Aurora, rompendo il silenzio che aleggiava nell’abitacolo fin da quando erano partite.

Silvia annuì. «Ci stiamo avvicinando all’epicentro della prima scossa, quella del 20 maggio 2012. In certe zone isolate si ha l’impressione che la natura si stia riappropriando dei suoi spazi. È passato poco tempo, ma sembra che nessuno abbia mai abitato i casolari che vedi dispersi nella campagna.»

«È vero» commentò Aurora. «Posso solo immaginare come dev’essere stato risvegliarsi nel cuore della notte con il pavimento e il soffitto di casa che tremano, chiedersi se ce la farai a uscire in tempo, se riuscirai a salvare le persone che ami, se ce la farai a sopravvivere.»

«Nei paesi, come nei centri più grandi, è stato sconvolgente trovarsi catapultati all’improvviso in una realtà da girone infernale. Venti secondi sembrano pochi, nella vita di tutti i giorni. Ma moltissime persone, qui, nel giro di venti secondi hanno perso praticamente tutto. Si sono trovati sulla strada, senza un posto dove dormire, senza sapere come procurarsi da mangiare. La protezione civile ha fatto molto per dare un riparo e offrire un pasto a chi non aveva più modo di procurarselo, ma nelle tende non c’era spazio per tutti. Ci sono persone che hanno vissuto per mesi nella propria auto, senza più una casa, un lavoro, delle prospettive. Persone come noi, che sono state private della dignità, che non sono state in grado di chiedere aiuto o che non sono state ascoltate. Nei mesi dopo il terremoto c’è stata un’escalation di suicidi senza precedenti, in questa regione.»

«Non lo sapevo.»

«Nessuno ne ha mai parlato, né i giornali né, tantomeno, la tv. Erano troppo occupati a puntare le telecamere sui pochi monumenti rimasti in piedi nella speranza di vederli crollare in diretta. Oppure, semplicemente, della gente che muore non importa a nessuno.»

«Posso immaginare la rabbia di chi abita qui nei confronti di certi sciacalli.»

«Quella rabbia l’ho vissuta in prima persona» affermò Silvia. «Questi paesi, una volta sedi di piccole realtà industriali virtuose, hanno avuto la schiena spezzata prima dal terremoto e poi dalle stesse istituzioni che avevano promesso di aiutarli. Indosso con orgoglio la mia uniforme, ma a volte sono davvero delusa dal comportamento dello Stato. Quando c’è stata la prima scossa, ero ospite da mia zia. Lei abita poco distante da Finale Emilia, uno dei centri più colpiti dal sisma. Casa sua non si regge in piedi, eppure gli ispettori del ministero l’hanno dichiarata agibile, in modo che non avesse diritto ad alcun contributo. E hanno fatto pure di peggio…»

«Ne so qualcosa» mormorò Aurora. Fin dall’epoca della morte di suo padre si era resa conto che le promesse di certi alti funzionari sono troppo spesso atteggiamenti di facciata. «Sei molto legata a tua zia, vero?»

Silvia fece un sorriso colmo di nostalgia. «Casa sua è sempre stata una sorta di rifugio dai problemi familiari, per me. Quando ero piccola adoravo stare da lei, vivere circondata dalla campagna. A quell’epoca aveva nove gatti, e ricordo che ogni estate mi divertivo a scovare le nidiate dei cuccioli. Dopo la seconda scossa, quella del 29 maggio, nonostante fossi in aspettativa per malattia mi sono unita ai miei colleghi e ai volontari. Ho dato una mano come potevo per aiutare a distribuire gli aiuti che arrivavano dalle donazioni spontanee dei cittadini delle altre regioni. Dato che la casa di mia zia era pericolante, io e lei ci siamo organizzate per dormire nella serra. Considerando le temperature che si raggiungevano lì dentro, non era certo una condizione ideale per una signora anziana e per me che avevo appena finito un ciclo di chemioterapia.»

Aurora la guardò con stupore, come se improvvisamente stesse riuscendo a vedere Silvia oltre il muro dei pregiudizi. A prima vista, la cosa che colpiva di Silvia era il suo aspetto. La sua bellezza, i suoi occhi limpidi, i lunghi capelli biondi. Niente faceva presupporre che potesse aver avuto una vita difficile.

«Dev’essere stata dura» riuscì soltanto a dire Aurora, dopo un istante di esitazione.

Silvia le rivolse un’occhiata fugace. «Avevo ventitré anni quando mi hanno diagnosticato un linfoma di Hodgkin. È stato per caso, in principio credevo fosse soltanto un’influenza da cui non riuscivo a guarire. Avevo una febbre persistente e non dormivo bene, la notte mi svegliavo madida di sudore. È stato il mio medico di base ad accorgersi che doveva essere qualcosa di serio. È grazie a lui se ho potuto curarmi in tempo, un uomo modesto col riporto e gli occhiali spessi come due fondi di bottiglia. A vederlo non gli daresti due lire. Eppure mi ha salvato la vita.»

Aurora si sentiva spaesata, e non riuscì a vincere l’indecisione e chiederle qualcosa di più. Aveva scoperto di avere in comune con Silvia molto di più di quello che aveva immaginato, e non voleva sembrare indiscreta.

«La signora che mi ha venduto questa parrucca mi ha assicurato che sarebbero sembrati veri» continuò Silvia. «D’altronde, assomigliano molto ai capelli che avevo prima di iniziare la cura. Anche dopo essere guarita, non ho più avuto il coraggio di farli ricrescere. Ho continuato a rasarli a pelle. Prendermi cura degli altri in un periodo difficile della mia vita mi ha aiutato a non pensare al prezzo della mia guarigione, ai mutamenti nel mio aspetto con cui avrei dovuto convivere per il resto della vita. Anche per questo sono stata felice di essere stata al fianco di mia zia, quando c’è stato il terremoto. D’altronde, non avrei potuto fare altrimenti. Non potevo stare da mio padre. I miei sono divorziati e non sono mai andata d’accordo con la sua nuova compagna, mentre mia madre si è rifatta una vita con un ragioniere di Reggio Emilia.»

«Perché mi stai dicendo queste cose?»

Silvia si strinse nelle spalle. «Il viaggio è lungo. Dovevamo pur rompere il ghiaccio, in qualche modo.»

«Potevamo parlare della nostra musica preferita.»

«Giusto» convenne Silvia. «Allora, qual è la tua musica preferita?»

Aurora fece un sorriso sarcastico. «Lascia perdere.»

Silvia si strinse nelle spalle. «Come vuoi.»

Aurora tornò a guardare fuori dal finestrino. Non che Silvia le fosse sembrata una ragazza introversa, tutt’altro. Eppure c’era una luce nel suo sguardo che faceva intuire che anche lei doveva essere molto sola. Forse tutto ciò di cui aveva bisogno in quel momento era proprio confidarsi con un’estranea. A volte niente è più liberatorio che raccontare a un perfetto sconosciuto qualcosa che faticheresti a dire a te stesso.

«Senti, io…» bofonchiò Aurora, per poi tornare in silenzio per qualche istante. «Mi spiace per le cose che ti ho detto dopo il briefing» continuò poi. «Ho decisamente esagerato.»

«Non provare a farlo» sbottò Silvia.

«Che cosa?»

«A trattarmi con condiscendenza» precisò. «Odio quando le persone cambiano atteggiamento solo perché sanno che sono stata malata.»

Aurora si schermì con la mano. «Non è così, anch’io odio quando lo fanno con me. E al tempo stesso sono consapevole che certe cose, come i tumori o le malattie mentali, fanno ancora troppa paura perché la gente riesca a comportarsi normalmente con chi le ha vissute. Non è per questo che ti sto chiedendo scusa. La verità è che dopo la riunione mi sono comportata da autentica stronza, e non te lo meritavi. Non avevo il diritto di fare quelle insinuazioni. Ti ho giudicata, proprio come gli altri fanno con me. E non sai quanto lo detesto.»

«Probabilmente, al tuo posto mi sarei comportata allo stesso modo» ammise Silvia. «Posso immaginare quanto tu sia sotto pressione, dopo quello che hai passato. E poi, comunque, neanch’io mi fido di Torrese. Forse vuole davvero mandarci alla gogna come dici tu. Ma, in ogni caso, penso che valga la pena correre il rischio. Anch’io, come tutti, mi sono indignata quando ho saputo che una bambina era stata strappata via dalla sua famiglia. Mi sono sentita impotente di fronte a un tale atto di violenza, vigliacco e ingiustificato. Quando Torrese mi ha chiamato mi sono sentita lusingata, lo ammetto. Ma dopo aver parlato con te ci ho riflettuto e mi sono resa conto che forse era proprio quello che lui voleva. Farmi sentire importante per tenermi in pugno, essere sicuro di potermi controllare, all’occorrenza.»

«E meno male che ero io quella tosta» scherzò Aurora.

Silvia le fece un cenno d’intesa. «Dovresti saperlo. Non è facile per una donna indossare un’uniforme.»

Aurora nel buio
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