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Elena comparve sulla soglia pochi istanti dopo che Aurora aveva premuto il pulsante sul citofono. Era una donna dalla pelle chiara e gli occhi con il taglio all’ingiù, circondati da piccole rughe. Aveva capelli ondulati, castani, che le lambivano le spalle. Nonostante indossasse un abito da sera dallo scollo generoso e avesse steso un velo di rossetto sulle labbra, nell’insieme aveva un’aria dimessa, forse per via della sua espressione insicura.
«Tu devi essere Aurora.» La sua voce era acuta, sottile.
Aurora le tese la mano. «Così pare.»
La stretta di Elena era debole e frettolosa, come se non vedesse l’ora di liberarsi dal contatto. «Piacere, Elena» disse. «Bruno mi ha parlato molto di te.»
«Spero ti abbia risparmiato i particolari» cercò di scherzare Aurora.
Elena abbozzò un sorriso e la condusse all’interno. L’ingresso si affacciava su un piccolo soggiorno con una porta che, a giudicare dal profumo che ne proveniva, si intuiva fosse quella della cucina. Una scala a chiocciola in legno conduceva al piano superiore.
Stesa sul divano c’era una ragazza con indosso un paio di pantaloni grigi della tuta e una felpa di Topolino, che armeggiava con il telecomando della tv satellitare facendo zapping da un canale all’altro.
«Chia, ti prego» la rimproverò Elena. «La nostra ospite è arrivata.»
La ragazza si alzò svogliatamente e rivolse un’occhiata fugace in direzione di Aurora. «Ciao» bofonchiò, sventolando la mano.
Aurora ricambiò con un sorriso impacciato.
«Bruno sarà qui a momenti» continuò Elena. «Lui è fatto così, al lavoro non conosce orari.»
«Ne so qualcosa» farfugliò Aurora, liberandosi del soprabito bagnato. Pioveva forte e non voleva lasciare una scia d’acqua sul pavimento. Si guardò intorno per qualche istante, poi si decise a chiedere: «Dove posso metterlo?».
Elena si scosse, come se fosse sovrappensiero. Si affrettò a prendere il soprabito dalle mani di Aurora. «Scusami» mormorò. «L’appendiabiti è qua dietro» e lo appese a uno dei ganci di metallo fissati sulla parete dell’ingresso. Poi invitò Aurora a prendere posto a tavola.
Chia tornò a rivolgere la sua attenzione al televisore. «Quindi sei una poliziotta?» chiese senza convinzione.
«Sì» rispose Aurora, cercando di nascondere l’imbarazzo. Trovarsi a casa di perfetti sconosciuti la metteva a disagio; dovette reprimere l’impulso di alzarsi di scatto e andarsene. Si sentiva un’intrusa, e pensò che era stata una pessima idea accettare l’invito di Bruno.
Elena si sedette di fronte a lei. Piegò la testa di lato e guardò con attenzione che le posate fossero disposte correttamente ai lati del suo piatto. Dopo qualche istante, spostò la forchetta in modo impercettibile, poi fece lo stesso con il coltello. Infine alzò lo sguardo e rivolse ad Aurora un timido sorriso. Senza dire una parola.
Per alcuni secondi Aurora provò a immaginarsi un argomento di cui parlare, sperando che Bruno arrivasse al più presto. Le venne in mente di chiedere: «Allora, come vi siete conosciuti?».
I rimbalzi della tv da un canale all’altro si interruppero quando sullo schermo comparvero delle riprese effettuate fuori dalla rimessa di casa Ranuzzi. Aurora non riuscì a trattenere un sussulto.
«Chi?» ribatté Elena. Era chiaramente distratta. Forse anche lei avrebbe voluto essere altrove.
«Tu e Bruno» puntualizzò Aurora.
Elena rimase con lo sguardo fisso sul bicchiere di fronte a lei, poi sbatté le ciglia e tornò a posarlo su Aurora. «In commissariato» disse con voce così bassa che, disturbata dal sottofondo del cronista del notiziario, risultò a malapena udibile. «Ero andata lì a sporgere denuncia contro il mio ex» continuò, con un sorriso sarcastico. «Il padre di Chia» aggiunse, sottovoce. «Ero così malconcia, dopo l’ennesima volta in cui mi aveva messo le mani addosso, che Bruno dovette accompagnarmi al pronto soccorso.»
Aurora si rese conto di avere le mani sudate e iniziò a strofinare ripetutamente i palmi sul tessuto della gonna. «Mi spiace» mormorò.
La voce della tv raccontava particolari macabri sui cadaveri di casa Ranuzzi, sottolineando che proprio quella era stata l’abitazione dell’uomo che in passato aveva sterminato un’intera famiglia. Con lo stesso tono con cui avrebbe letto le previsioni del tempo, la voce parlò di una città in preda alla psicosi da mostro.
Ho paura che l’uomo dei chiodi prenda anche me. Ad Aurora tornò in mente il viso spaventato del bambino che aveva incontrato in ospedale mentre si recava da Aprile.
Le era impossibile ignorare la voce interiore che suggeriva l’esistenza di un legame tra il caso Ranuzzi e quello su cui stava indagando. Pensò che ormai fosse evidente per chiunque, perfino per uno spettatore distratto del telegiornale, tranne che per Piovani e Torrese.
Aurora sperò che da un momento all’altro squillasse il cellulare e Tom Carelli le comunicasse qualcosa di utile sul fascicolo Ranuzzi. E ancora una volta si chiese per quale motivo si trovava lì, mentre avrebbe dovuto occuparsi personalmente di effettuare la ricerca nell’archivio del commissariato. Tom le era sembrato affidabile, ma anche dispersivo. E sicuramente incostante, soprattutto quando si trattava di attività poco stimolanti dal suo punto di vista. Quanto tempo avrebbe dedicato ad assemblare il suo computer prima di cominciare una noiosa ricerca in archivio?
«Anche tu stai lavorando su questa roba?» chiese Chia, senza smettere di guardare la tv.
L’immagine sullo schermo ora mostrava il viso di Manzèna, l’uomo che Torrese aveva fatto fermare. Aveva l’aria sfatta di uno che ha buttato la vita in fondo a una bottiglia di vino a buon mercato. Sembrava a malapena consapevole di essere vivo, figuriamoci se era capace di elaborare un piano complesso e cancellare ogni traccia sulla scena di un crimine. Ma forse aveva davvero ragione Torrese. La gente non vuole la verità. Vuole soltanto dormire tranquilla.
«Non è educato dare le spalle al proprio interlocutore» disse Elena a Chia.
Quello che Torrese non aveva valutato è che i serial killer non amano che qualcuno si prenda i meriti del loro operato. Arrestare la persona sbagliata poteva stuzzicare il narcisismo del soggetto, spingendolo a compiere un’azione eclatante. Mentre formulava questo pensiero, un’ipotesi prese forma nella mente di Aurora: e se fosse stato proprio per questo che Torrese aveva arrestato un innocente? Se in realtà stesse cercando di spingere il killer a fare un passo falso?
Era difficile per Aurora decifrare Torrese. Quell’uomo era abile a nascondere le sue intenzioni come un burattinaio che si muove dietro le quinte di un teatrino.
Chia appoggiò il viso sullo schienale del divano, rivolgendo lo sguardo verso Aurora. «Allora?»
Aurora si scosse dalle sue riflessioni. «Che cosa?»
«Anche tu stai seguendo il caso del Lupo Cattivo?»
Il Lupo Cattivo è tornato. Quelle parole esplosero nella testa di Aurora come una bomba. La polizia stava forse dando la caccia a un fantasma?
Chia continuò. «L’hanno chiamato come quel tizio che ha fatto a pezzi una famiglia, tipo vent’anni fa.»
I fantasmi non uccidono, si ripeté Aurora, persa nei suoi pensieri.
«Oh, merda» si lamentò Chia. «C’è il mio ex padre in tv.»
Lo schermo rimandava l’immagine di un giornalista con un impermeabile chiaro, che dava le spalle al tribunale e parlava con un microfono in mano. Longhi.
Adesso era chiaro il motivo per cui Bruno lo odiava tanto.
«Spegni quell’affare» intimò Elena, alzandosi di scatto.
«Scusa» farfugliò Chia, e si affrettò a sintonizzarsi su un canale che trasmetteva la centesima replica di una puntata dei Simpson.
Elena scomparve in cucina e Chia la seguì. Pochi istanti dopo, Aurora le sentì parlare fitto, a voce bassa.
Chia doveva essere molto legata a sua madre. Aurora immaginò le notti interminabili che avevano trascorso, sperando che quell’uomo arrogante e violento non fosse troppo di cattivo umore quando rientrava. Questo spiegava perché Chia dormisse con la madre quando erano sole in casa. Non è facile risvegliarsi da certi incubi. Ti rimangono addosso come un vestito scomodo. Anche dopo anni, anche dopo che il peggio sembra passato. Anche Elena era una sopravvissuta, nonostante una vita di maltrattamenti le avesse lasciato segni più profondi delle cicatrici.
Il rumore di una chiave che girava nella serratura annunciò l’ingresso di Bruno in casa.
Elena comparve sulla soglia della cucina. «Bentornato» annunciò. Gli occhi arrossati mostravano che aveva lottato per non piangere.
Bruno si guardò intorno, disorientato, come alla ricerca di una spiegazione per quell’aria così turbata.
Elena scrollò le spalle. «Ho preparato le lasagne, spero ti piacciano.»
«Il profumo è delizioso» commentò lui, baciandola sulla guancia.
Lei cercò di sorridere, poi si ritrasse e rientrò in cucina. Aurora non poteva immaginare quanto fosse complicata la vita di Bruno. Dalla sua reazione quando era stato stuzzicato da Longhi le era parso un tipo intollerante, persino litigioso. Ma la verità era molto diversa. Elena era una creatura fragile, e Bruno aveva scelto di prendersi cura di lei.
«È molto che sei arrivata?» chiese Bruno ad Aurora, imbarazzato.
«Giusto cinque minuti. Piuttosto, come mai ci hai messo tanto?»
«Ho dovuto scrivere il rapporto per Piovani.»
Solo a sentir nominare quel nome ad Aurora tornò in mente la conversazione di poco prima con Torrese. Sentì una stretta allo stomaco e fece una piccola smorfia. «Piovani, possibile che il mondo intero giri intorno a lui?»
«Calmati» disse Bruno conciliante. «È il mio capo, non posso certo far finta di niente.»
«Oh, no, lui non è soltanto il tuo capo! Lui è l’uomo al di sopra di ogni sospetto, il funzionario meno che irreprensibile, ma che tutti voi vi ostinate a proteggere!»
«Cosa intendi?»
«Ho letto il fascicolo con le sue dichiarazioni sul caso Gualtieri.»
Bruno si strinse nelle spalle. «Non sapevo che Torrese l’avesse già sentito in merito…»
«Nel verbale non ci sono accenni a questioni che abbiano attinenza con il caso. Né all’amicizia di lunga data tra Piovani e Carlo Gualtieri, né, tantomeno, alla presunta relazione tra Piovani e la moglie dell’amico.»
«Non so cosa dirti» mormorò Bruno, allargando le braccia. «Però devi ammettere che la situazione è piuttosto delicata, e nemmeno Torrese si trova in una posizione facile.»
Aurora fece un bel respiro. «Ho parlato con lui» disse poi, d’un fiato.
Bruno le parve stupito. «E…?»
«Ha implicitamente ammesso di aver usato i guanti di velluto con Piovani. Ha volutamente omesso di chiedere delucidazioni su ogni questione che potesse metterlo in imbarazzo, in nome di un presunto… bene superiore.»
«Mi sembra ovvio» affermò Bruno. «Con la situazione che c’è là fuori, credevi davvero che Torrese avrebbe torchiato Piovani come un criminale? Piovani si è trovato coinvolto suo malgrado in una situazione più grande di lui, ma questo non vuol dire che sia implicato negli omicidi!»
Aurora sentì le tempie scaldarsi per la rabbia crescente. «No» ammise. «Non sto dicendo che Piovani sia un assassino. Ma sento che sta nascondendo qualcosa.»
«Su quale base?»
«Me lo sento. È il mio istinto a dirmi che Piovani sa molto di più di quanto vuol far credere. E probabilmente Torrese lo sa, e per questo cerca di ostacolarmi in ogni modo.»
«Maledizione, Aurora, piantala di dire sciocchezze!» ringhiò Bruno. «È vero, Piovani non aveva nessun diritto di aggredirti in quel modo quando sei arrivata, ma non significa che tu debba continuare a fargli la guerra.»
Elena uscì dalla cucina tenendo tra le mani una pirofila piena di pasta fumante.
Chia, dietro a lei, andò a prendere posto al tavolo in silenzio.
«Qualcosa non va?» chiese Elena.
«Niente» risposero all’unisono Bruno e Aurora.
Elena osservò la sua ospite con una certa apprensione, poi appoggiò al centro del tavolo la pirofila con le lasagne. «Be’, la cena è pronta» sospirò. «Vogliamo cominciare?»
«Scusate» fece Aurora, alzandosi. Le mani avevano cominciato a tremare. «Devo rinfrescarmi. Posso sapere dov’è la toilette?» chiese, sforzandosi di controllare il tono.
Chia indicò una porta in fondo alla sala. «Laggiù.»
Aurora entrò in bagno e si sciacquò il viso con acqua fredda. Osservò per una manciata di secondi la sua immagine riflessa nell’ampia specchiera. Dentro di sé era in atto una lotta per mantenere il controllo. Forse Bruno aveva ragione e la sua reazione alle provocazioni di Piovani era sproporzionata, ma aveva voglia di urlare.
Questo è il mio territorio, le aveva detto. E aveva fatto in modo che non lo dimenticasse.
Le sembrava che il soffitto del mondo le stesse crollando addosso. Doveva reagire, fare dei respiri profondi e respingere l’ondata di panico che stava per sommergerla. Cosa le stava accadendo?
Aveva imparato da tempo che non è giusto farsi coinvolgere a livello personale da un caso, ma continuava a rivedere la sagoma della piccola Aprile, infagottata nei vestiti come una bambola di stracci, col viso infangato, sotto il vagone abbandonato.
I grandi occhi della bambina la guardavano, ma sembravano non vederla. Ricordò di aver provato il bisogno di proteggerla, e in qualche modo sentì di aver fallito.
Le aveva promesso che tutto sarebbe andato bene. Ma come poteva andare tutto bene, se ogni sforzo alla ricerca della verità si infrangeva contro un muro di indifferenza?
Non sono stata abbastanza veloce, si disse.
Non abbastanza per lasciare indietro la paura e l’insicurezza. Non abbastanza per salvare la vita di chi contava su di lei. Alla figura gracile di Aprile si sovrappose quella della ragazza aggredita all’ex mattatoio. Dai recessi della mente riemerse Valentina, quattordici anni. Intorno a lei, il branco che rideva sguaiatamente. Aurora sentì sulla mano il tocco freddo della sua pistola, esattamente come la notte di quasi due anni fa.
Ma era come se fossero passati appena due secondi. «L’orrore» sussurrò allo specchio.
Il suono di un cellulare in lontananza attirò la sua attenzione, scuotendola dall’agghiacciante familiarità di quelle visioni. La sua mano non stava stringendo la pistola, ma il pomello dell’acqua fredda, che continuava a scorrere dal miscelatore. Aurora chiuse il rubinetto e si guardò intorno con frenesia, senza riconoscere il luogo dove si trovava. Era forse tornata a casa? D’istinto aprì lo sportello della specchiera. Invitante come una scatola di caramelle, sul ripiano dei medicinali comparve una confezione di Xanax.
Aurora sorrise, sfiorando il cartoncino con le dita. «Bentrovato» disse poi, rigirandosi la scatola tra le dita.
Mentre la apriva, un lampo di luce richiamò il suo sguardo verso la porta. Chia era immobile sulla soglia, con la fronte corrugata e l’espressione inquisitoria. «Cosa stai facendo?»
Questa non è casa mia, si disse Aurora. Non sono all’ex mattatoio, non sono nemmeno a Torino. Sono in una zona sperduta della Bassa emiliana dove non succede mai nulla.
Aurora riprese consapevolezza di dove si trovasse. Era a casa di un’estranea, ed era appena stata sorpresa a rovistare nell’armadietto dei medicinali. Cercò di rimettere a posto la confezione di Xanax, ma i suoi movimenti impacciati finirono per urtare le altre scatole, che caddero una dopo l’altra all’interno del lavandino, mentre lei cercava freneticamente di riporle di nuovo sul loro ripiano.
«N-no… niente. Io…» balbettò. «Va tutto bene. Sto bene.» Si stropicciò il naso con le dita e aspirò profondamente.
Il mostro è più vicino di quanto tu pensi, aveva detto Curzi. Adesso Aurora intuiva il significato profondo di quelle parole.
Il mostro era lì con lei. Anche in quel momento.
Perché era dentro di lei, era rinchiuso nelle pareti della sua mente e stava giocherellando con il proiettile che le si era piantato in testa.
Il mostro conosceva tutti i suoi segreti e tutte le sue bugie. Era sempre un passo avanti. Si nutriva di ossessioni e viveva per cacciare i suoi simili, tra i quali un assassino morto da più di vent’anni, ritornato per celebrare riti funebri in presenza di testimoni oculari.
«Mia madre ha dei frequenti attacchi d’ansia» balbettò Chia. «Cerco di rassicurarla, le ripeto che è finita, che lui non è più con noi e non deve avere paura di niente. Ma qualche volta non è abbastanza.»
Aurora era allibita. Chia era convinta di dover giustificare il comportamento della madre, come se non fosse stata Aurora a violare il santuario dell’imperfezione di Elena.
«Non stavo…» Aurora cercò di sorridere, anche se si sentiva sprofondare dall’imbarazzo. «Non volevo ficcare il naso tra le cose di tua madre.»
Chia rimase a fissarla per alcuni lunghissimi secondi. «Forse è meglio che torni di là. Il tuo telefono non smette di squillare.»
«Certo» assentì Aurora. Finì di risistemare l’armadietto dei medicinali, e prima di compiere un passo fece un ampio respiro. «Non dirai niente a tua madre, vero?»
Chia non rispose. Nel suo sguardo c’era stanchezza, e una maturità superiore alla sua età.
Aurora attraversò la soglia del soggiorno con passo malfermo. I capelli erano scompigliati e gli occhi velati di un alone rossastro.
Bruno le rivolse uno sguardo preoccupato. «Tutto bene?»
Aurora annuì, poco convinta.
«Hanno appena chiamato dalla centrale» continuò lui. «Stanno evacuando il commissariato. È scoppiato un incendio.»
Aurora sentì le gambe diventare di burro. «Cosa… come è successo?» balbettò.
«Non si sa ancora niente. Ma sembra che le fiamme si siano propagate dall’archivio.»