14
Un piccolo scorpione risalì lungo la corteccia dell’albero e ad Aprile sfuggì un gemito soffocato. Doveva sforzarsi di non gridare o l’uomo con la maschera da lupo cattivo l’avrebbe sentita. Era là fuori, da qualche parte. La bambina sapeva che la stava cercando.
Aprile continuava a ripetersi mentalmente gli insegnamenti del nonno, quando le aveva raccontato come con certi predatori l’unica difesa è rimanere immobili. E così fece. Non si mosse, cercando di controllare il respiro. Anche se il cuore batteva così forte che sembrava volerle balzare fuori dal petto.
Un giorno di qualche anno fa, Aprile aveva accompagnato il nonno a visitare un amico, Sante. La sua casa era spersa nella campagna, circondata da un grande cortile con alberi da frutto, tra cui un meraviglioso ciliegio. Aprile era salita con lo scalone appoggiato all’albero e si era riempita le tasche di ciliegie. Erano le più buone che avesse mai mangiato in vita sua.
Per vivere, Sante faceva il pastore. Mentre lui e il nonno sedevano all’ombra di un gazebo a chiacchierare, Aprile si era intrufolata nella stalla. Vedendola entrare, le pecore – saranno state almeno una cinquantina – si erano messe a fissarla, incuriosite dalla visita inattesa. Poi Aprile aveva sentito uno scalpiccio alle sue spalle e si era voltata di scatto. Da qualche parte era sbucato un cane imponente, dal manto bianco e lunghe zanne affilate e si era frapposto tra lei e l’uscita, ringhiando minaccioso.
Per fortuna nonno Corrado era accorso in suo aiuto. Il cane si chiamava Marte, ma i tentativi di richiamarlo da parte di Sante erano inutili, così il nonno aveva preso in mano la situazione. Aveva raccomandato ad Aprile di non muoversi, di rimanere immobile, perché qualsiasi movimento avrebbe potuto essere frainteso come un’aggressione. Il compito di Marte, dopotutto, era quello di proteggere il gregge.
Quando Marte aveva smesso di ringhiare, Aprile aveva seguito le indicazioni del nonno, protendendo il dorso della mano verso di lui per permettergli di annusarla. Secondo il linguaggio dei cani, è un gesto che significa amicizia. Poi Sante le aveva suggerito che Marte andava ghiotto per le ciliegie, e Aprile ne aveva tirata fuori una dalla tasca e gliel’aveva offerta.
Era stato così che lei e Marte erano diventati amici.
Mai come adesso Aprile sentiva la mancanza di un amico così. Sapeva che l’avrebbe difesa dall’uomo con la maschera che aveva aggredito la mamma, perché Marte non indietreggiava nemmeno di fronte ai lupi. E quello che era entrato in casa sua era sicuramente il lupo più cattivo che si potesse immaginare.
Ripensare a quei momenti terribili le provocò una stretta allo stomaco e gli occhi le si riempirono nuovamente di lacrime.
Tutto era cominciato con degli strani rumori alla porta d’ingresso, come se qualcuno stesse cercando la chiave giusta da infilare nella serratura. La mamma, insospettita, si era alzata da tavola. Aveva avvicinato gli occhi allo spioncino per guardare fuori e non era riuscita a trattenere un urlo di sgomento. Qualcuno stava cercando di entrare in casa. E non era papà.
«Chi c’è là fuori?» aveva chiesto Aprile.
La madre aveva scosso la testa senza rispondere, mentre fuori i rumori continuavano. In fretta, aveva agganciato la catenella fermaporta. Sapeva che non sarebbe bastato, che una volta trovata la chiave giusta sarebbe bastato infilare la mano per rimuoverla, ma le avrebbe concesso un po’ di tempo. Aveva trascinato Aprile verso la scala e le aveva chiesto di correre a nascondersi nella sua stanza. «Non fare rumore» le aveva detto. «Qualsiasi cosa succeda, non gridare. Qualsiasi cosa tu dovessi sentire, rimani nascosta. In silenzio.»
Aprile aveva fatto sì con la testa.
«Voglio che me lo prometti. È importante» aveva insistito la mamma, stringendole entrambe le mani, come faceva quando si trattava di qualcosa di grave. Per la prima volta, Aprile aveva visto negli occhi della madre un sentimento di puro, autentico terrore.
«Vieni con me, mamma» l’aveva incalzata Aprile, con voce tremante. «Nasconditi con me.»
«Non posso» le aveva risposto. «Devo recuperare il cellulare. Devo… chiamare aiuto.» Lo sguardo di Rossella aveva vagato per la stanza alla ricerca del telefono. Poi si era incollato al volto della figlia. «Adesso, vai» aveva sussurrato.
Aprile aveva obbedito, anche se l’ultima cosa che avrebbe voluto fare era separarsi dalla mamma. Era corsa su per le scale, con le gambe che le tremavano forte. Ma prima di imboccare il corridoio si era voltata indietro.
Era stato in quel momento che l’aveva visto.
Alla finestra era comparsa la sagoma minacciosa di un uomo che indossava una maschera che sembrava uscita da un libro di fiabe dell’orrore. La maschera di un lupo cattivo.
Ma, a differenza dei lupi delle fiabe, anziché gli artigli, nelle mani aveva un’ascia.
Era corsa nella sua stanza e si era nascosta, Aprile. Aveva rovesciato tutti i peluche sul pavimento e si era rifugiata sotto il letto.
Il tempo aveva smesso di scorrere. Era peggio che a scuola, quando arrivava l’ultima ora di lezione prima delle vacanze e non ce la faceva più a stare composta nel banco.
Poi, all’improvviso, erano cominciate le urla della mamma.
Aprile si era tappata la bocca per non urlare a sua volta, pregando che qualcuno arrivasse a salvarle.
Era stata obbediente, Aprile. Si era sforzata di non fare alcun rumore, anche se il cuore le batteva in gola e le strozzava il respiro. Era rimasta immobile anche quando aveva sentito dei passi che si avvicinavano.
Ma quando il Lupo cattivo si era chinato per guardare sotto il letto, aveva visto le sue mani e i suoi abiti sporchi di sangue. E tutto si era fatto buio.
Si era risvegliata nel cuore della notte, all’interno di una specie di stanza di metallo con solo uno spiraglio da cui vedeva soltanto nebbia.
Aprile aveva sentito l’uomo con la maschera smuovere il terreno intorno a lei. I suoi passi sembravano risuonare da tutte le direzioni. Aveva finto di dormire, finché l’uomo si era allontanato. Lo aveva spiato attraverso lo spiraglio. Lo aveva visto trascinare qualcosa di pesante, ansimando.
E aveva deciso che quella sarebbe stata la sua occasione per fuggire.
Aprile era sgattaiolata fuori e aveva corso più forte che poteva senza mai voltarsi. Poi, quando la milza aveva iniziato a bruciare, si era appoggiata a un grande albero, così largo che ci sarebbero voluti tre uomini per abbracciarlo. Si era guardata intorno, ma la nebbia non le aveva permesso di vedere nient’altro che il buio. Così si era intrufolata nella cavità del tronco, che sembrava fatta apposta per accoglierla.
Rannicchiata all’interno del rifugio, Aprile sperò che l’uomo con la maschera non riuscisse a trovarla.
Come intuendo che la bambina aveva una paura più grande da tenere a bada, lo scorpione scomparve all’interno di una crepa nella corteccia. Aprile lo guardò scivolare via e desiderò di fare lo stesso.
Tentò di raggiungere con la mente un posto bello in cui non avere più paura, perché la paura, adesso, le mordeva il petto come una belva affamata. Un posto come il campo di girasoli in cui suo padre le aveva scattato quella fotografia che adorava. Un posto in cui sentirsi al sicuro dai predatori.
«Ti ho trovato, piccolina» cantilenò una voce.
La maschera del lupo cattivo comparve davanti a lei.
Aprile non riuscì a trattenere un grido.
Ma nessuno, oltre la coltre di nebbia, poteva sentirla urlare.