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Mentre guidava in direzione dell’albergo, Aurora si trovò a riflettere sull’incendio al commissariato e sul fatto che si era propagato proprio a partire dall’archivio. Era possibile che si fosse scatenato a causa di una disattenzione di Tom, durante l’assemblaggio del computer? Sembrava impossibile; Tom le aveva dato l’idea di sapere il fatto suo, riguardo l’elettronica. Doveva saperne di più, e il primo passo era chiedere a Tom la sua versione dei fatti.
Si ripromise di farlo l’indomani mattina, sperando che nel frattempo i vigili del fuoco fossero già in grado di stabilire se la causa dell’incendio era accidentale oppure dolosa.
Aurora non credeva alle coincidenze. E non poteva fare a meno di pensare che l’incendio era scoppiato proprio quando stava per mettere le mani sul fascicolo Ranuzzi. Possibile che quelle pagine fossero tanto importanti da far sì che qualcuno appiccasse un incendio al solo scopo di distruggerle? Un brivido le percorse la schiena nel ripensare al povero Bonaccorsi.
Pensò al profilo che aveva tracciato insieme a Silvia: era compatibile con un comportamento del genere; una persona incapace di provare sentimenti o empatia, determinata a soddisfare le sue pulsioni al punto da ritenere accettabile qualsiasi danno collaterale.
Tornò ad affacciarsi alla mente l’ipotesi che il killer potesse nascondersi tra i ranghi della polizia. E il volto di Piovani le si materializzò davanti agli occhi, in un’automatica associazione di idee. Chi più di lui la stava ostacolando nella sua ricerca della verità?
Ma era ridicolo. Quell’uomo, per quanto sgradevole, non aveva certo le caratteristiche dell’assassino seriale. Per non parlare del fatto che per un dipendente del commissariato sarebbe stato più semplice – e discreto – sottrarre dall’archivio il fascicolo Ranuzzi, piuttosto che appiccare un incendio.
Aurora parcheggiò a ridosso della recinzione della ferrovia, scese dalla macchina e attivò l’antifurto. Camminò a passo veloce verso l’albergo, persa nelle sue riflessioni. Una domanda non smetteva di tormentarla: di chi poteva fidarsi davvero?
La pioggia era calata d’intensità, e ora dal cielo cadevano minuscole gocce che sospinte dal vento fluttuavano come nevischio. Aurora si fermò a metà strada per rovistare nella borsa alla ricerca delle chiavi del portone d’ingresso. Alzando lo sguardo, si rese conto che c’era qualcosa di insolito. Una delle finestre al primo piano era illuminata. E non era quella della stanza della proprietaria.
Lo sapeva per certo, Aurora, perché quella era la sua stanza.
Il cuore iniziò a martellarle veloce nel petto, il respiro si spezzò. Aurora era sicura di aver spento la luce prima di uscire. All’interno della stanza ci fu un movimento. Attraverso il tessuto delle tende, intravide una sagoma spostarsi da un’estremità all’altra.
Non poteva certo trattarsi di un ospite dell’albergo che aveva sbagliato camera: Aurora era l’unica cliente. D’istinto portò la mano alla cintura dove di solito teneva la fondina, alla ricerca del calcio della pistola. Ma le sue dita non trovarono niente.
Aveva lasciato la pistola accanto al letto, ancora rinfoderata.
Si diede della stupida e dell’irresponsabile. Ma era successo perché, per una volta, avrebbe voluto soltanto passare una serata tranquilla, a cena da un collega. Aveva persino indossato un abito al posto degli abituali pantaloni. Era la prima occasione sociale che si era concessa da… quanto tempo?
Non poteva negare, Aurora, che se l’era immaginata molto diversa, la sua serata di svago. Bruno avrebbe raccontato qualche aneddoto divertente, Elena le avrebbe spiegato qualche ricetta che Aurora avrebbe finto di saper riprodurre e forse avrebbe scoperto di avere più cose in comune con Chia che con sua madre.
Non si aspettava certo di essere sorpresa mentre cercava di sottrarre un ansiolitico dall’armadietto dei medicinali e di dover affrontare un incendio per salvare la vita a uno dei suoi uomini. E ora eccola, immobile su una striscia di asfalto a fissare la finestra della sua stanza. C’era un intruso, e doveva agire al più presto. Non c’era un attimo da perdere. Eppure non riusciva a trovare la forza di reagire.
L’incontro con Curzi le aveva lasciato addosso una sottile inquietudine da cui non riusciva a liberarsi. Era come se dalla visita a Villa Clara avesse portato qualcosa con sé, come se le ossessioni di cui erano permeate le pareti della stanza buia dove viveva l’ex neurochirurgo la stessero seguendo, camminando al suo fianco.
Aurora si sentì improvvisamente come al centro di un lago ghiacciato dove ogni passo poteva rivelarsi fatale e farla affondare. Se sbagli muori, bisbigliò una voce nella sua testa.
Chiamare Bruno le sembrò l’unica cosa sensata da fare. Prese il cellulare e compose il numero. La linea era libera.
«Andiamo, rispondi» borbottò tra sé.
Il telefono squillò a lungo, ma non ci fu nessuna risposta.
Lo sferragliare di un treno merci di passaggio la fece trasalire. Lo spostamento d’aria le scompigliò i capelli, mentre i vagoni sfilavano lungo le rotaie come un enorme serpente di metallo.
Resta lucida, si ripeté mentalmente Aurora. Non era il caso di spaventarsi al minimo rumore. Poteva esserci una spiegazione banale a quella presenza inattesa nella sua stanza, no? Forse la proprietaria dell’albergo le aveva soltanto riportato la biancheria che aveva lasciato in lavanderia. Erano le due di notte, certo, ma poteva essersi svegliata per il trambusto causato dalle sirene di tutti i mezzi d’emergenza intervenuti per domare l’incendio al commissariato.
Aurora scosse la testa con forza. Chi stava cercando di prendere in giro? Non aveva alcun senso…
Ho paura che l’uomo dei chiodi venga a prendere anche me. Le parole del bambino che aveva incontrato fuori dall’ospedale le rimbalzarono nella mente.
Fece un respiro profondo, attraversò il cancello dell’albergo e salì i pochi gradini che la separavano dall’ingresso. Con le mani che tremavano, inserì la chiave nella porta a vetri e la aprì, poi fece lo stesso con il portoncino di ingresso. Quando lo richiuse dietro di sé, si guardò intorno con apprensione.
Sa dove abito. È venuto a prendermi.
Il salone era immerso nel silenzio. Nella penombra, i mobili sembravano antiche creature assopite. Dal primo piano proveniva una tenue luce che filtrava dalla porta della sua stanza. Aurora rimase in attesa per alcuni, lunghissimi istanti, sperando di udire i passi dell’intruso. Ma non percepì alcun rumore. Soltanto quello del suo respiro.
Si diresse verso la cucina e prese un coltello. Lo impugnò stringendolo con tanta forza da far guizzare i tendini sul polso.
Il cellulare iniziò a squillare. Aurora sobbalzò per lo spavento.
Era Bruno.
Aurora rispose sottovoce. «Pronto?»
«Tutto bene?» ribatté lui, senza riuscire a nascondere una certa apprensione. «Ho visto solo adesso la tua chiamata.»
«No, non va bene» mugugnò lei. «C’è qualcuno nella mia stanza.»
«Che cosa?» sbottò Bruno.
«Non so nemmeno io cosa pensare. Non riesco a ragionare. Quando mi sono resa conto di aver lasciato la pistola in camera mi è preso il panico.»
«Dove ti trovi adesso?»
«Nella cucina dell’albergo. Ho preso un coltello.»
«Allora resta lì» intimò Bruno, dall’altro capo della linea. «Non ti muovere per nessun motivo. Indossa gli auricolari del telefono e resta con me. Ti raggiungo. Parto adesso.»
Aurora fece come Bruno le aveva chiesto. Infilò gli auricolari nelle orecchie e alzò il volume. «Quel figlio di puttana sa dove abito» mugolò. «Vuole piantarmi un chiodo nel cuore.»
L’uomo a cui stava dando la caccia era un predatore astuto. Era così che aveva attirato nella tela Carlo Gualtieri? Aveva forse lasciato una traccia visibile a casa Ranuzzi perché la guardia giurata scoprisse i cadaveri di Celeste Martini e suo figlio?
«Non glielo permetteremo» affermò Bruno.
«Non ce la faccio ad aspettare» ribatté lei.
«No! Non muoverti da lì, sto arrivando. Sono già in auto.»
Attraverso gli auricolari, Aurora sentì il rumore della portiera che veniva chiusa.
Poi, il respiro concitato di Bruno e il rombo del motore che veniva avviato. «Pensaci, Bruno. L’uomo che stiamo cercando è a pochi passi da me. È un’occasione da non perdere.»
«Non hai nemmeno la pistola» protestò Bruno. «Non dimenticare che hai di fronte un assassino spietato.»
«Credo che non mi abbia sentito entrare» sussurrò Aurora. «Forse era convinto che sarei stata via tutta la notte a causa dell’incendio. Forse sta rovistando nella mia stanza per sapere cosa ho scoperto.»
«Cosa c’entra l’incendio?»
«Credo che sia stato lui» rispose Aurora.
Bruno fece un profondo respiro. «Ne riparleremo.»
«Ora ti devo lasciare.»
«Aurora, non farlo. Ti prego.»
«Non posso rischiare di farlo scappare.»
«Rimani dove sei. È troppo rischioso!»
Aurora non interruppe la comunicazione, ma uscì dalla cucina. Camminò fino alle scale. Salì i gradini, un passo dopo l’altro, con lentezza estenuante. Nel suo campo visivo apparve la porta della stanza. Era chiusa. Una lama di luce proveniva dalla fessura tra il battente e il pavimento.
«Aurora, ci sei?» chiese Bruno attraverso gli auricolari.
Lei non poteva rispondere. Brandiva il coltello mentre avanzava sul pianerottolo, attenta a non fare rumori che tradissero la sua presenza.
Quando toccò la maniglia, un brivido le percorse la schiena. Tolse gli auricolari e li infilò in tasca, mentre Bruno continuava a parlarle. Appoggiò l’orecchio alla superficie di legno, ma dall’interno non proveniva alcun suono. Cercò di regolarizzare il respiro. Ma controllare l’ansia era impossibile.
Con uno scatto, Aurora abbassò la maniglia e con un calcio spinse la porta, spalancandola. Poi si nascose dietro lo stipite.
Quando si decise a entrare, lo fece in posizione ribassata, in modo da disorientare un eventuale aggressore. Si voltò a destra, poi a sinistra, brandendo il coltello avanti a sé, disegnando figure affilate nell’aria.
Ma non c’era nessuno.
Il letto era intatto, esattamente come l’aveva lasciato prima di uscire. Il pavimento era pulito, asciutto. Nessuna impronta lasciata da qualcuno che provenisse dall’esterno, dove le strade erano bagnate. La fondina con la pistola era sul comodino, esattamente dove l’aveva lasciata.
Aurora osservò la cartina del turno di notte, passò in rassegna ognuna delle foto appese alla parete. Immaginò di farlo attraverso gli occhi dell’assassino. Cosa avrebbe pensato? Che idea si sarebbe fatto di chi gli stava dando la caccia?
Dopo aver ispezionato il bagno, Aurora si sedette sul pavimento. Si sentiva priva di forze.
Non era un fantasma, quello che dalla strada aveva visto camminare nella sua stanza. Era una presenza reale.
Oppure no?
Possibile che si fosse immaginata tutto? Possibile che la sagoma che aveva intravisto attraverso la tenda fosse frutto di una visione che esisteva soltanto nella sua testa?
Il rumore del motore di un’auto che veniva avviato attirò la sua attenzione. D’istinto corse alla finestra e guardò fuori.
E lo vide.
In strada c’era un pick-up grigio come quello che avevano descritto i testimoni. Dopo una lunga accelerata, imboccò una curva troppo velocemente e perse leggermente stabilità, poi riprese la traiettoria e sfrecciò via, fino a uscire dal suo campo visivo.
Aurora lasciò cadere il coltello a terra e, d’istinto, si precipitò giù dalle scale, poi fuori dall’albergo.
L’auto di Bruno sopraggiunse dalla direzione opposta a quella da cui era appena scomparso il pick-up.
Aurora si aggrappò alla maniglia della portiera prima che Bruno avesse il tempo di fermarsi e salì mentre l’auto era ancora in movimento.
«Tutto bene?» chiese Bruno.
«L’ho visto!» disse Aurora, trafelata. «È andato da quella parte.»
Bruno premette a fondo il pedale dell’acceleratore e si lanciò all’inseguimento, seguendo le indicazioni di Aurora.
Quando incrociavano i fanali di un veicolo, Aurora si sporgeva per controllare il tipo di mezzo, sperando di riconoscere quello che aveva visto dalla finestra della sua camera, ma ogni volta le sue speranze venivano deluse.
Per le strade non c’era traccia di un pick-up grigio. A ogni bivio Aurora e Bruno dovevano procedere per tentativi, tornando sui propri passi ogni volta che si trovavano a un punto morto. Perlustrarono ogni strada che portava fuori città, percorsero ogni via secondaria, ma non ci fu niente da fare. Il pick-up sembrava scomparso.
«Cosa facciamo adesso?» si decise a chiedere Bruno un’ora dopo, dopo l’ennesimo giro a vuoto.
«Riportami all’albergo» mormorò Aurora.
Bruno la accompagnò fino all’interno della sua stanza.
Aurora si sedette sul letto e nascose il volto tra le mani. La tensione si scaricò di colpo, strozzandole la base del ventre. Le gambe le tremavano.
«Sicura di stare bene?» chiese Bruno.
«Sì.» Aurora tirò su con il naso. «È tutto ok. Sto bene.»
Bruno si chinò di fronte a lei e le scostò delicatamente le mani dal viso. «Da quanto tempo non dormi?»
Lei socchiuse gli occhi per un istante. «Domanda di riserva?»
«Sai cosa facciamo adesso?» fece lui, sforzandosi di risultare conciliante. «Prendi le tue cose e vieni con me a casa di Elena. Sono sicuro che Chia sarà felice di cederti la sua stanza.»
«E tu?»
«Dormirò sul divano. Ci sono abituato.»
«No, grazie» ribatté Aurora. «Preferisco restare qui, a contatto con le poche cose che mi fanno sentire in qualche modo a casa.»
«Lo capisco, ma…»
«So badare a me stessa» lo interruppe lei.
«Lo so» ribatté Bruno. «Ma mi sentirei più tranquillo sapendo che non sarai sola, questa notte.»
Aurora scosse la testa. Poi si passò una mano tra i capelli per sistemare le ciocche ribelli dietro le orecchie. «Non ti preoccupare. Non credo che tornerà.» Lo disse ostentando sicurezza, ma i suoi occhi inquieti vagavano per la stanza alla ricerca di un oggetto fuori posto. Poi, con un cenno della mano, si scusò con Bruno e si allontanò in direzione del bagno.
Osservò il suo viso stravolto allo specchio. Aveva la pelle opaca e occhiaie profonde. I capelli sembravano impastati col catrame. «Dio, Aurora, sei un disastro» disse alla sua immagine.
Si sciacquò con acqua fredda, si liberò dell’abito e fece scivolare via le calze, talmente malridotte da farla sembrare reduce da un campo di battaglia. E in effetti era proprio così che si sentiva.
Indossò l’ampia maglietta con Gatto Silvestro che di solito utilizzava come pigiama. Lanciò un’occhiata al cellulare. Mancavano solo un paio d’ore all’alba, ma era talmente esausta che forse sarebbe riuscita a riposare un po’. Si spazzolò i denti in fretta e legò i capelli in un codino che lasciava libere le ciocche davanti al volto. Sospirò, immaginando che l’ansia che le opprimeva il petto fosse una massa di colore grigio che poteva cacciare dai polmoni insieme all’aria. Un respiro dopo l’altro, se ne sarebbe liberata.
Ma ci sarebbe voluto troppo tempo. Dentro, Aurora si sentiva grigia, ed era troppo stanca. Aveva bisogno di stendersi e riposare almeno le gambe.
Uscì dal bagno e camminò in punta di piedi fino a raggiungere il letto. Aveva lo sguardo lontano, sembrava persa nel suo universo, forse in una galassia parallela, e talmente sovrappensiero che non si rese conto che Bruno era ancora nella stanza.
Era appoggiato alla scrivania in attesa che lei ricomparisse. Voleva riprendere il discorso da dove lo avevano interrotto, chiederle se era davvero certa che fosse proprio un pick-up grigio quello che aveva visto dalla sua finestra. In fondo era l’ora più buia e la visibilità scarsa.
Bruno azzerò ogni pensiero appena si trovò Aurora davanti. Era esile come un filo di seta, in quella maglia extralarge in cui sembrava nuotare. Eppure, a suo modo, era così seducente. Camminava senza far rumore, a piedi scalzi, le labbra corrucciate e l’espressione distante. Sembrava fragile, sul punto di essere spazzata via dal primo accenno di vento. Ma negli occhi c’era il guizzo di una determinazione feroce.
Bruno si schiarì la voce.
Aurora si ricordò della sua presenza, e la sua prima reazione fu quella di rifugiarsi sotto le coperte.
Accorgendosi che era avvampata, anche Bruno provò un improvviso imbarazzo, come un estraneo che stesse violando l’intimità di quella ragazza delicata e fiera.
Così si avviò verso la porta e afferrò la maniglia. «Se non ti senti tranquilla, posso fermarmi nell’atrio» disse senza guardarla. «C’è un divano, potrei stare lì…»
«Non ho bisogno di un cane da guardia» lo freddò Aurora.
Bruno si voltò verso di lei e tentò di sorridere. «Buonanotte, allora» disse con una nota di malinconia nella voce.
Aurora appoggiò il dorso della mano sulla fronte, come se si stesse misurando la febbre. «Non… volevo» disse con un filo di voce.
«Non ti preoccupare.»
«No, davvero. Scusami, sono stata sgarbata. E non te lo meritavi.»
«È tutto a posto.»
Aurora aveva la sensazione che la presenza dell’intruso aleggiasse nell’aria come il residuo di un incubo. Le percezioni erano amplificate, i piedi del letto erano i pilastri di una prigione sospesa su una palude. «Sono sconvolta. Non mi sento più sicura di niente. Ho paura che potrei affondare nell’oscurità.» Cercò gli occhi di Bruno. Non aggiunse altro.
Bruno pensò che era davvero bella. Più bella di qualsiasi ragazza che avesse mai conosciuto. Perché la bellezza è una gemma. E brilla. E Aurora brillava, proprio come la luce improvvisa, inaspettata dei bagliori sul confine tra la notte e il giorno. Era la cosa più bella che avesse mai incontrato in vita sua, e proprio per questo temeva che il solo osservarla da lì, in piedi come un passante casuale, con le spalle alla porta, potesse farle del male.
Lo sguardo di Aurora scivolò via, posandosi sulla parete accanto a sé, su cui le luci della stanza proiettavano la sua ombra leggera. «Resta con me questa notte» sospirò, sulla punta delle labbra, come se tra i denti e la lingua fosse in agguato un predatore silenzioso che non voleva svegliare.
Bruno scattò all’indietro, come se fosse stato colpito da un proiettile invisibile. «Io… non so se…»
«Non… in quel senso» farfugliò Aurora, con un sorriso abbozzato, veloce, per poi nasconderlo dietro un piccolo broncio.
«No, certo che no» si affrettò a precisare Bruno.
«Vorrei che restassi a dormire qui» aggiunse lei. «Ho davvero bisogno di riposare. Vorrei poter chiudere gli occhi senza aver paura che qualcosa mi afferri e mi trascini in un incubo.»
«Va tutto bene» sussurrò Bruno, guardandola con intensità. Si incamminò verso di lei, sfilandosi le scarpe, poi si intrufolò, ancora vestito, sotto le coperte, accanto a lei, pur mantenendo una rispettosa distanza.
Aurora spense la luce. Il buio ingoiò i loro respiri. Corti, come se avessero salito una lunga scalinata senza mai fermarsi.
Adesso, nell’oscurità, fu Bruno a sentirsi annegare. Non c’era scampo dalle emozioni che gli stavano riempiendo il petto, accelerando il battito del cuore, riempiendo le vene di un veleno dolce. Per un attimo fu preso dal bisogno di scappare via. Si sentiva sopraffatto da qualcosa che assomigliava alla torbida consapevolezza di vivere un istante perfetto, e non era sicuro di meritarlo.
Chiuse gli occhi, poi li riaprì e si mise a fissare il soffitto. Dopo qualche secondo avvertì un lieve fruscio. Aurora si mosse furtivamente e appoggiò la testa sulla sua spalla. Lui allargò il braccio e la accolse senza dire una parola. Era leggera, come una foglia caduta da un albero sul suo petto.
Quando Bruno avvertì che il respiro di Aurora era diventato più profondo, cadenzato, capì che si era addormentata.
Sospirò. Non avrebbe dormito quella notte, ne era certo. Ma di un’altra cosa era sicuro. Non avrebbe permesso a nessun incubo di raggiungere Aurora.