73

La coscienza di Aurora si risvegliò poco a poco. La testa le faceva male e i sensi erano intorpiditi. Quando gli occhi si abituarono all’oscurità, si rese conto di trovarsi in un ampio salone in cui lo spazio era delimitato da imponenti colonne. Le pareti avevano l’intonaco parzialmente scrostato. Una finestra laterale si affacciava su uno scenario che Aurora riconobbe immediatamente: i colli che circondavano Villa Clara. Il temporale, fuori, continuava a imperversare. A lampi accecanti si susseguiva il borbottio dei tuoni, sempre più vicino.

Aurora si ritrovò seduta su un pavimento sconnesso. Cercò di muovere le braccia, ma senza successo. Scoprì di avere le mani legate dietro la schiena, probabilmente con lo stesso nastro adesivo telato con cui erano legati i piedi. L’ultima volta che aveva visto quel tipo di nastro adesivo era stretto ai polsi e alle gambe delle vittime trovate a casa Ranuzzi.

Intorno a lei c’erano alcune pile di piastrelle di ceramica, mucchi di cianfrusaglie e degli scatoloni da cui spuntavano attrezzi da carpentiere.

Chia era a qualche metro di distanza, stesa sul pavimento al centro della stanza, anch’essa legata. Il petto si alzava e si abbassava al ritmo di un respiro affannoso. Intorno a lei erano disposti alcuni lunghi chiodi arrugginiti.

Ma il sollievo nello scoprire che era ancora viva durò il tempo di un battito di ciglia. Il killer aveva soltanto predisposto una scena che gli permettesse di rivivere i suoi traumi e catalizzare le sue ossessioni in un macabro rituale.

Loro continuano a ritornare.

Per cacciare i suoi fantasmi, aveva scelto Chia come vittima designata. E Aurora per il ruolo della spettatrice.

«Chia» invocò Aurora. «Stai bene?»

La ragazza si voltò verso di lei, e Aurora vide che aveva la bocca tappata con un ritaglio dello stesso nastro adesivo che la teneva immobilizzata. Mugolò qualcosa che assomigliava a un assenso.

Il suo sguardo esprimeva puro terrore. Era questo che avevano provato le vittime del Lupo Cattivo? Una lunga agonia nell’attesa di vederlo comparire, un’attesa, svuotata di ogni speranza, verso un fato ineluttabile.

Con un cenno del capo, Chia indicò la porta. Era di legno, dall’aspetto antico, con la vernice sbucciata dal tempo e una maniglia di metallo ricurva che sembrava un piccolo serpente attorcigliato su se stesso.

«Siamo al primo piano di Villa Clara» mormorò Aurora, come se stesse riflettendo tra sé, ricordando le parole del professor Rambaldi. Aveva detto che quel piano non era ancora stato ristrutturato per mancanza di fondi. Un luogo perfetto per Filippo Rovere per concludere il suo rituale. Il luogo che avrebbe consacrato la sua rinascita.

Aurora si concentrò per riuscire a isolare dallo scroscio della pioggia i rumori che provenivano da oltre la soglia, e sentì dei passi. A uno scalpiccio deciso seguiva un passo strascicato.

Aurora si guardò intorno febbrilmente alla ricerca di uno strumento per liberarsi. Strisciò con la schiena sulla parete, ma non riuscì a rimettersi in piedi. Il nastro intorno alle caviglie era troppo stretto e non le permetteva di mantenersi in equilibrio. Si spinse verso le piastrelle, sperando di utilizzarle per tagliare il nastro adesivo che le bloccava i polsi.

La porta si aprì. Un lampo illuminò la maschera da lupo cattivo che l’uomo indossava.

Chia iniziò a singhiozzare sommessamente.

«È questo che mi piace di te, Aurora» disse l’uomo con voce controllata. «La tua determinazione, la tua ostinata fede nella speranza. E il tuo desiderio di rivalsa. In questo siamo molto simili.»

«Puoi toglierti la maschera» lo incalzò Aurora. «So chi sei.»

Con un movimento lento l’uomo rimosse la maschera dal viso, rivelando il volto di Aldo Bucci. Lo psichiatra dell’ospedale. Ironicamente, proprio colui che avrebbe dovuto prendersi cura della piccola Aprile era anche l’assassino dei suoi genitori.

La sua espressione non era diversa dalle altre volte che Aurora l’aveva incontrato. Era fredda, distante. Eppure adesso quegli occhi grigio nebbia tradivano una certa impazienza.

Lasciò cadere la maschera a terra e Aurora la osservò per un lungo istante, poi tornò con lo sguardo sul volto di Bucci.

«Immagino che dovrei chiamarti Filippo Rovere.»

«È passato molto tempo dall’ultima volta che qualcuno mi ha chiamato così.»

«Dal giorno in cui hai inscenato la tua morte nel rogo della tua auto, immagino. Chi c’era davvero in quell’auto?»

Bucci curvò le labbra in un sorriso compiaciuto. «Saperlo non cambierebbe la tua condizione. Tu mi appartieni, ormai.»

«Dio, sei così patetico» lo incalzò Aurora. «I tuoi rituali sono solo un palliativo. Gli incubi non ti lasceranno mai andare.»

«È una condizione che tu conosci molto bene, vero Aurora? Mentre tu cercavi di studiare me, ho avuto l’opportunità di conoscerti tramite le tue cartelle cliniche. Ho ascoltato i nastri delle tue sedute psicanalitiche, e devo ammettere che sei un caso davvero interessante.»

«’Fanculo. Almeno io non sono diventata un serial killer.»

Bucci aggrottò le sopracciglia. «È così che ti piace definirmi? Un banale serial killer, prigioniero del suo stesso rituale? Oh, ma io sono molto più di questo. Sono uno sperimentatore, uno studioso. L’argomento del mio studio sono io. Quando ero ragazzo mi svegliavo nel cuore della notte, dopo un incubo, con la certezza che solo uccidere avrebbe calmato la mia angoscia. Così ho iniziato a indagare su me stesso, alla ricerca della fonte delle mie pulsioni. Pochi possono vantare di aver approfondito la conoscenza di sé quanto ho fatto io. Sono un predatore, il punto più alto della catena evolutiva. E rivendico la possibilità che ai comuni esseri umani non è concessa: quella di poter scegliere i propri incubi.»

«E Marciano?» insinuò Aurora. «Lui ti accettava per quello che eri, non è vero?»

Bucci fece un sorriso sarcastico. «Marciano era così patetico… era solo un uomo di mezza età troppo solo e troppo codardo per ammettere la sua vera natura. Quando mi sono reso conto che si era invaghito di me ho capito di averlo in pugno. All’inizio era titubante. Non era mai stato con un ragazzo, ed era spaventato e al tempo stesso elettrizzato all’idea di farlo con un suo paziente. L’ho incoraggiato a seguire la sua inclinazione, anche se questo l’ha portato alla rovina. Sono stato io a far sapere a tutti della nostra storia, anche se l’ho fatto solo dopo che aveva accettato di farmi dimettere da Villa Clara. Marciano perse il lavoro, così gli restai soltanto io. Ed è stato fin troppo facile fargli credere che senza di lui anch’io non potevo vivere. Abbiamo viaggiato per un po’ in Europa, anche se ogni volta era la stessa storia. Finiva sempre che un incubo prendeva il sopravvento e qualcuno ci rimetteva la vita. Non ne vado fiero, ma in quel periodo della mia vita avevo qualche problema a dominare gli accessi d’ira. Non ricordo nemmeno quante persone ho ucciso… e ogni volta era il povero Marciano a doversi occupare di nascondere le tracce. Almeno finché non è toccato a lui.»

«L’hai ucciso perché aveva capito che non saresti mai cambiato, vero?» fece Aurora, sperando di distrarre Bucci quanto bastava per avvicinarsi ancora un po’ alla pila di mattonelle. «Forse, si era finalmente deciso a denunciarti alla polizia.»

«Credo sia più appropriato dire che non mi serviva più» affermò Bucci con naturalezza. «Ci trovavamo in un magnifico resort sui colli euganei. È lì che ho conosciuto Aldo Bucci, allora studente di psicologia all’Università di Verona. Anche lui orfano. Lavorava come cameriere per mantenersi gli studi. Così, ho pensato che era il momento per Filippo Rovere di prendersi una… pausa dal mondo. Aldo Bucci era così perfetto che ho pensato che il destino me l’avesse inviato perché la sua vita diventasse la mia. Dopo averlo ucciso ho trasferito il suo piano di studi a Bologna, dove nessuno lo conosceva, e ho continuato il suo percorso accademico. È stato facile, ero molto più preparato in materia della maggior parte degli altri studenti.»

«Era del vero Aldo Bucci il corpo carbonizzato trovato nella tua macchina» commentò Aurora. «Hai inscenato la tua morte per diventare lui.»

Bucci mimò un breve applauso. «Sei perspicace, Aurora. E poi impari in fretta. Non siamo poi così diversi, io e te. Entrambi amiamo il brivido della caccia, sappiamo attendere il momento giusto per agire e non lasciamo niente al caso. Conosciamo il sollievo nel completare il rituale e scoprire che può addomesticare gli incubi.» Fece una breve pausa, in cui mutò espressione, assumendo per un attimo uno sguardo assente. «È stato all’Università di Bologna che ho appreso degli antichi rituali per cacciare i ritornanti. Perché, nonostante i miei sforzi per cacciarli dalla mia testa, loro continuavano a tornare» aggiunse sottovoce, come se stesse riaffiorando un ricordo spiacevole. Bucci cercò gli occhi di Aurora prima di proseguire. «Tu sai di cosa parlo, vero?»

Aurora scosse la testa con forza.

Un debole sorriso tornò sul viso di Bucci. «Per questo ti ho scelta» disse con enfasi. «Perché siamo uguali. Sei solo un po’ troppo emotiva. Ma questa è una caratteristica di voi donne, vero? Non potete rinunciare all’empatia, all’inutile trasporto verso gli altri esseri umani e all’inspiegabile interesse per le loro sorti.»

«Ti sbagli» fece Aurora. «Non ci assomigliamo affatto. Io non uccido le persone. Io do la caccia alle persone che uccidono.»

«Certo, tu fai parte della squadra dei buoni, vero?» cantilenò Bucci. «Ma siamo due facce della stessa moneta. Mi sono quasi divertito ad assistere mentre ti dibattevi nella tela di Torrese, a scommettere con me stesso quanto saresti riuscita ad avvicinarti alla verità, nonostante la miopia dei funzionari balordi e pieni di boria che ti impartivano gli ordini.» Bucci fece un respiro profondo. «Ti sei mai chiesta come facevi a conoscermi così bene? Io l’ho fatto. Ero così affascinato dalla tua mente che mi sono spinto fino alla tua tana. La risposta l’ho avuta quando sono entrato nella tua stanza. E mi sono trovato di fronte le tue magnifiche ossessioni, in tutta la loro terribile bellezza.»

«Fottiti, Bucci. Il balordo sei tu. Un balordo psicopatico. Persino Torrese, nella sua arroganza, è migliore di te.»

Un ghigno divertito prese forma sul viso di Aldo Bucci. «Stai cercando di lusingarmi, ispettore Scalviati?»

«Sto cercando di dirti che se avessi la mia pistola ti pianterei un proiettile in quella tua testa di cazzo.»

«Ma sei tu quella con il proiettile in testa, Aurora. Non è ironico? Quando ero un bambino, mi sarebbe piaciuto avere un’amica come te. E invece mi è toccato Ranuzzi.»

«Ranuzzi era un molestatore di ragazzini» protestò Aurora. «Come potevi considerarlo un amico?»

Bucci si strinse nelle spalle. «A me non dispiaceva» ammise. «Avevo preso l’abitudine di passare da lui quasi tutti i pomeriggi.» Si massaggiò una tempia, come se l’avesse colto un improvviso mal di testa. «I miei genitori erano così preoccupati! Le maldicenze in una piccola città fanno presto a proliferare. Qualcuno mi avrebbe definito un bambino cattivo, ma forse ero soltanto un bambino un po’ precoce. O forse troppo solo. La solitudine fa male.» Fece un ampio respiro, prima di aggiungere: «Fa pensare».

«Dicono che Ranuzzi abbia fatto a pezzi la tua famiglia perché avevi rubato dei melograni nel suo giardino.»

«Certo che a volte le chiacchiere di paese sono davvero ridicole» commentò Bucci. «Ma la gente è sempre troppo occupata a cercare un capro espiatorio per fare caso alla verità, persino quando è proprio lì, sotto gli occhi di tutti. Me lo ricordo bene, quel giorno. Mio padre aveva avuto una giornata terribile. Nella classe in cui insegnava un bambino era morto, e l’avevano accusato di negligenza.»

«Ma di cosa stai vaneggiando?»

«Mio padre mi cercò a casa di Ranuzzi. Ci trovò fuori. Io ero seduto sotto l’albero di melograno. Ranuzzi stava spaccando legna per l’inverno con la sua ascia. Ebbero un violento diverbio, papà gli disse che doveva smetterla di plagiarmi. Gli strappò l’ascia dalle mani e mi trascinò via con la forza per riportarmi a casa.»

«È a causa di quel litigio che Ranuzzi ha aggredito la tua famiglia?»

«Niente affatto.» Bucci fece un ghigno sarcastico. «Credimi, io c’ero. Ranuzzi non c’entra niente col massacro della mia famiglia. Quando arrivò a casa per parlare con mio padre, erano già tutti morti. Cercò persino di soccorrere i miei familiari, ottenendo solo di sporcare i suoi vestiti di sangue. Rimase così ossessionato dalla frase che lesse sul muro, da scriverla poi ovunque, in casa sua.»

«Che cosa?» sbottò Aurora. «Se non è stato Ranuzzi a uccidere la tua famiglia, allora… chi è stato?»

«Il tempo delle chiacchiere è finito» disse Bucci, risoluto. Dalla tasca estrasse un cavo elettrico e lo srotolò, impugnandolo con entrambe le mani. «C’è la mia sorellina qui di cui devo occuparmi, ora» e rivolse lo sguardo verso Chia.

La ragazzina era strisciata fino a rannicchiarsi contro una colonna, e stava continuando a piangere.

«Aspetta!» gridò Aurora. «Non puoi ucciderla! Io… dirò tutto alla polizia. Dirò che sei stato tu a uccidere Carlo Gualtieri, il tuo padre adottivo, dopo aver fatto a pezzi Celeste Martini e aver provocato la morte del piccolo Michele!»

Bucci la guardò con accondiscendenza. «E chi ti crederà, di grazia?» Fece un sospiro, prima di aggiungere: «Erano passati molti anni dal nostro ultimo incontro, quando ho telefonato a Carlo Gualtieri. Volevo mostrargli quello che ero diventato. Speravo persino che sarebbe stato orgoglioso di me. Avevo trovato un modo per cacciare gli incubi. Ma era così ovvio, che non avrebbe capito. Si è messo a indagare su di me, giocando a fare il detective come ai vecchi tempi, quando era ancora un poliziotto. Così, gli ho dato appuntamento a casa Ranuzzi, dove era iniziato tutto». Fece una pausa. «C’è stato un momento in cui avrebbe voluto diventare mio padre. In qualche modo, io ho realizzato il suo sogno. E grazie a quello che gli ho fatto, papà smetterà di ritornare.»

Bucci smise di parlare e tornò a rivolgere la sua attenzione a Chia.

Con un disperato colpo di reni, Aurora riuscì a posizionarsi con la schiena a ridosso delle piastrelle. Iniziò a grattare freneticamente il nastro adesivo contro uno spigolo per liberarsi.

Bucci si voltò bruscamente verso di lei. «Cosa stai facendo?» Poi addomesticò il tono della voce e aggiunse: «Filippo, Filippo, non imparerai mai a stare al tuo posto». Abbandonò il filo elettrico e prese Aurora per il collo della T-shirt. Con un gesto brusco, la scaraventò dall’altra parte della stanza.

Aurora urtò con la nuca sul telaio della finestra. Cercò di ignorare il dolore. Si protese in avanti per colpire Bucci con una testata, ma l’uomo si ritrasse e il colpo andò a vuoto.

Aurora crollò a terra, e non riuscì a trattenere un gemito. Adesso era in ginocchio davanti a lui.

Bucci si chinò per raccogliere la maschera da lupo cattivo. «Tu non farai alcun male» mormorò.

«Che cosa significa?» chiese Aurora. «Dimmelo. Ti ho inseguito fino a qui. Me lo devi.»

«Non ti devo niente. Non devo niente a nessuno!» La sua espressione era contrariata. «Soltanto a Filippo, che è dovuto morire per far rivivere Aldo Bucci. Per questo quando torna a sussurrare nella mia mente lo devo ascoltare.»

«Filippo tornerà a sussurrare nella tua mente sempre più spesso. Non puoi fuggire dalle sue ossessioni. Non potrai farlo mai.» Ogni parte del corpo di Aurora era dolorante. «Liberami» invocò. «Sono l’unica persona che ti capisce davvero. L’hai ammesso tu stesso che io e te siamo simili. Sono l’unica che può aiutarti.»

«Come puoi aiutarmi, se non riesci nemmeno ad aiutare te stessa?» replicò Bucci. «Guardati, vice ispettore Scalviati. Non sei più niente. Sei sola. Vivi in una stanza d’albergo in compagnia dei tuoi fantasmi. Tutti ti credono pazza. È successo a Torino, e ora anche qui. Io, invece, sono un uomo ammirato. Ho un buon lavoro e la stima dei miei colleghi.»

«Loro… ritorneranno» disse Aurora con voce tremante.

Gli occhi di Bucci si adombrarono. «Il rituale. Va concluso. Adesso.»

«Ritorneranno sempre, come ritornano nella mia testa» insistette lei.

Bucci sferrò un calcio all’addome di Aurora. «Non. Parlare.»

Lei rimase senza fiato, e iniziò a tossicchiare rivoli di sangue misto a saliva.

«Tu diventerai il suo testimone» continuò Bucci. Poi, come parlando con qualcuno che soltanto lui poteva vedere, aggiunse a voce bassa: «Tu non farai alcun male».

Aldo Bucci, o forse era Filippo Rovere, si avvicinò a Chia, zoppicando visibilmente.

«No!» gridò Aurora.

Ma per lui era come se lei non fosse più in quella stanza.

Aurora iniziò a dibattersi per liberare le mani finché l’adesivo, già consumato dalla frizione con le piastrelle, cedette.

Trascinandosi sui gomiti, raggiunse Bucci e lo afferrò per i pantaloni. Lui perse l’equilibrio e rovinò a terra, ma si rialzò subito.

Bucci colpì Aurora con una sequenza di calci e pugni, infierendo sul suo corpo finché non fu svuotata da ogni forza.

Poi la sollevò per le braccia e la trascinò in un angolo, posizionandola con cura, come una bambola disobbediente.

«Finalmente sei inerme» disse. «Sei proprio come un bambino. Un bambino terrorizzato. Sei nascosto nella dispensa e vedi quello che accade da una piccola fessura. C’è lui, il Lupo Cattivo. Abbatte la sua ascia su tua madre. Tu non vorresti guardare. Vorresti chiudere gli occhi, ma non puoi. Rimangono spalancati, come se non avessi più le palpebre. Ti bruciano, gli occhi. La gamba ti fa male. Vorresti cambiare posizione, ma non puoi farlo. Non devi far rumore o lui farà a pezzi anche te. E poi l’ascia si abbatte su tua sorella. Ancora, e poi ancora. E tutto diventa rosso. Un fiume rosso, e non li senti più gli occhi che bruciano, e la gamba non ti fa più male. Rimane solo l’orrore, e il suono cadenzato del suo respiro affannoso.»

Fece una carezza sulla testa di Aurora, proprio come avrebbe fatto per consolare un bambino spaventato.

«Non fare rumore» aggiunse a voce bassa. «Non chiudere gli occhi. Resta immobile, e lui non ti sentirà.»

Bucci si voltò e riprese ad avanzare verso Chia, che non riusciva a smettere di singhiozzare. Era in stato di shock, il suo sguardo era vitreo, la pelle livida.

Bucci si chinò di fronte a lei e, con lentezza esasperante, indossò la maschera. Infine, recuperò il filo elettrico.

«Tu non farai alcun male» mormorò. Ancora quella frase, come un mantra. Come se fosse la chiave per chiudere la paura dietro un muro.

Scostò Chia e si mise alle sue spalle. Poi le cinse il collo con il cavo elettrico, e iniziò a stringere con forza.

Aurora avrebbe voluto muoversi, ma il corpo era un blocco di pietra. Il suo respiro si era fatto corto. Come quello di un bambino di sei anni, rinchiuso in una piccola dispensa.

Davanti ai suoi occhi, l’immagine perse di definizione. Sfumò e Aurora si rivide in piedi, che respirava l’aria umida dell’ex mattatoio. Era immobile, inerme, mentre il branco si contendeva il corpo di Valentina.

Le lacrime iniziarono a rigarle il volto. Avrebbe voluto gridare, chiudere gli occhi, Aurora. Ma non poteva farlo. Perché adesso era soltanto un bambino di sei anni, nascosto in una dispensa.

Non poteva gridare, o il Lupo Cattivo le avrebbe fatto del male.

Non sono stata abbastanza veloce, pensò. Le sue paure l’avevano raggiunta e l’avevano resa prigioniera.

E la causa non era solo il proiettile che aveva in testa. Aurora fu pervasa dalla consapevolezza che, proprio come sua madre, anche lei era nata con un difetto di fabbrica.

Dai recessi della mente emerse l’immagine di lei da bambina, con un tulipano in mano, mentre con suo padre era andata a far visita alla madre nell’istituto in cui avrebbero dovuto guarirla.

Tremava come un ramo troppo fragile per resistere alla forza di un vento impetuoso, Aurora. Il padre la incoraggiava a donare quel fiore alla madre, perché le avrebbe ricordato quanto la sua famiglia la amava. Ma la mamma non l’aveva nemmeno riconosciuta. Era catatonica, stordita dai farmaci. E Aurora era rimasta immobile, incapace di metabolizzare un orrore troppo grande per la mente di una bambina.

Una vertigine portò Aurora avanti nel tempo, a quando aveva diciassette anni. Si rivide con lo stesso tulipano in mano, mentre lo appoggiava sulla bara del padre prima che venisse calata nella fossa.

Un lampo invase la stanza come un flash e Aurora tornò al presente. Con la consapevolezza che lei e Chia erano completamente sole, in balia di un assassino spietato e inesorabile. L’unico guardiano presente nell’istituto era Farneti, e ci aveva pensato lei stessa a metterlo fuori uso poco prima.

Rumore di passi.

C’era qualcun altro, adesso, all’interno della stanza. Qualcuno che era entrato senza farsi sentire, come un fantasma partorito da quelle antiche pareti.

Aurora sgranò gli occhi. Curzi stava camminando in direzione di Bucci, stringendo il manico di un’ascia nella mano e trascinando la lama sul pavimento.

Aldo Bucci era intento a stringere il cappio intorno al collo di Chia e non si accorse della sagoma imponente che gli era comparsa alle spalle.

Senza dire una parola, Curzi gli abbatté l’ascia sul cranio. La lama penetrò a fondo, spaccando in due la maschera e la fronte di Bucci. Un fiotto di sangue si rovesciò sul pavimento, come se un secchio fosse stato svuotato. Schizzi rossastri colpirono il viso e la maglietta di Aurora.

Nonostante avesse la bocca bendata, Chia lanciò un lungo grido acuto che sembrava il lamento disperato di un rapace.

Nell’istante in cui si rese conto che Chia era viva, ad Aurora sembrò di poter ricominciare a respirare.

Ma non era ancora finita.

Il corpo di Bucci si afflosciò a terra con l’ascia conficcata in testa.

Dopo averlo osservato per un po’, Curzi gli appoggiò un piede sul collo e recuperò l’arma. Dalla ferita sgorgarono grumi di sangue misti a materia cerebrale.

Aurora era incapace di parlare. Si limitava a guardare in direzione di Curzi, sgomenta e incredula.

Curzi fece alcuni passi verso di lei. La sovrastava, con la sua stazza massiccia e gli occhi inespressivi.

«Quella notte avrei dovuto finire il lavoro» disse con la sua voce profonda. «Ma quel bambino spaventato che si era rifugiato nella dispensa mi ha ricordato mio figlio. Non ce l’ho fatta. Non potevo ucciderlo due volte lo stesso giorno.»

«T-tuo figlio?» balbettò Aurora, strisciando all’indietro.

«Si chiamava Luca. È morto tra le mie braccia» mormorò Curzi. «Ero un medico. Avrei dovuto salvarlo. Ero suo padre. Avrei dovuto proteggerlo.»

Un brutto giorno il figlio di Curzi ebbe un incidente mentre si trovava a scuola, le aveva detto Farneti la prima volta che era venuta in visita a Villa Clara. Era messo così male che dovettero allestire in fretta e furia una sala operatoria. Curzi era un neurochirurgo. Fu proprio lui a doverlo operare alla testa. Il ragazzo morì sotto i ferri.

Quell’evento era stato il trauma scatenante della follia di Curzi.

Quell’uomo non parla con nessuno da più di vent’anni.

Più di vent’anni, rimbombò nella mente di Aurora.

«Era la mattina del 25 ottobre del 1991» continuò Curzi, parlando lentamente. «Mi chiamarono in ospedale per dirmi che mio figlio aveva avuto un malore mentre si trovava a scuola. Alberto Rovere era il suo professore.»

Alberto Rovere, il padre di Filippo, pensò Aurora.

«Aveva pensato che il forte mal di testa di cui si lamentava Luca fosse solo un tentativo di saltare la lezione, così non gli aveva dato peso.» La voce monotona di Curzi non tradiva alcuna emozione. «Poi Luca aveva cominciato a vomitare, e poco dopo era svenuto. Quando lo vidi, così fragile e indifeso, steso sul tavolo operatorio, le mie mani iniziarono a tremare. L’esperienza accumulata in una vita intera dedicata alla neurochirurgia non bastò per salvargli la vita. Perché niente può prepararti a una cosa del genere. Si può morire di aneurisma cerebrale a dieci anni?» Una breve pausa, in cui Curzi volse lo sguardo sul cadavere di Filippo Rovere, per poi tornare a posarlo su Aurora. «Quella sera andai a casa di Alberto Rovere. Era stato per colpa sua se mio figlio era morto. Se solo i soccorsi fossero stati tempestivi, forse avrei potuto salvarlo…» Roteò gli occhi verso il soffitto, per poi puntarli su Aurora. «Non lo so nemmeno come mi sono trovato quell’ascia tra le mani. So soltanto che ho colpito, e poi ho colpito ancora. E le mani non mi tremavano più.»

Tu non farai alcun male. Soltanto in quel momento Aurora capì il significato di quella frase scritta con il sangue sulla parete.

Non era una citazione impropria della Bibbia. Isacco e i suoi alleati non c’entravano nulla con il massacro della famiglia Rovere.

Tu non farai alcun male era il primo postulato del giuramento di Ippocrate, che ogni medico è chiamato a prestare per essere abilitato alla professione.

Primo: tu non farai alcun male. Un giuramento che Curzi non aveva potuto mantenere.

Curzi era un chirurgo, ma nel delirio di quella notte aveva perso la sua fede.

«Per più di vent’anni, Filippo Rovere ha custodito l’ascia con cui ho ucciso i suoi genitori» affermò Curzi. «È come se l’avesse sempre saputo, che sarei tornato per lui. Forse era questo che voleva, quando veniva a cercarmi nella mia stanza e mi sfidava a finire il lavoro. Negli anni in cui è stato ricoverato qui in clinica ha cercato in tutti i modi di capire, di trovare un senso a quello che gli era capitato. Era l’unico testimone di quello che era successo quella notte. Ma non ha mai fatto il mio nome, come se fosse il suo segreto più prezioso. In fondo, quale bambino oserebbe pronunciare ad alta voce il nome del Lupo Cattivo che infesta ogni notte i suoi sogni?»

Aurora osservò a lungo la lama insanguinata dell’ascia. «Cosa hai intenzione di fare, adesso? Vuoi uccidere anche me?»

Curzi curvò le labbra nel tentativo di sorridere, ma uscì soltanto un ghigno sinistro. «Ti ho attesa troppo a lungo. Per anni ho osservato e ho ascoltato. Finché sei arrivata tu.» Posò le dita sulle cicatrici che attraversavano la testa di Aurora.

Lei fece per ritrarsi, ma lui cercò ostinatamente il contatto.

«L’imperfezione della tua mente è così… perfetta» concluse Curzi.

All’improvviso, una rapida sequenza di lampi e tuoni esplose nella stanza.

Aurora si guardò intorno, spaesata. Non era il temporale.

Una smorfia di dolore si dipinse sul volto di Curzi. L’ascia cadde a terra con un tonfo.

Poi fu il corpo di Curzi ad accasciarsi sul pavimento.

«Bruno!» esclamò Aurora.

Bruno era immobile, sulla soglia, con la pistola fumante in mano.

«Stai bene?» le chiese, precipitandosi a soccorrere Chia.

Aurora iniziò a rimuovere il nastro adesivo che ancora le teneva immobilizzate le caviglie. «Sto bene… pensa a Chia.»

Dopo averla liberata, Bruno abbracciò forte Chia. «Va tutto bene» le sussurrò.

Chia tremava forte, batteva i denti. «Voleva uccidermi» farfugliò. «Non me lo dimenticherò mai… è stato orribile.»

«Non ci pensare. È tutto finito» fece Bruno. Poi ripeté, come per convincersene a sua volta: «È tutto finito».

«Come sei arrivato fino a qui?» gli chiese Aurora, avvicinandosi. Faticava a camminare, ogni parte del suo corpo urlava dal dolore.

«Mi sono fidato di te» affermò Bruno, guardandola negli occhi.

Aurora si passò una mano sul viso per ripulirsi dal sangue.

«Ho messo Piovani alle strette. Ha ammesso che ti avevano internata» continuò Bruno. «Aldo Bucci aveva firmato un documento in cui attestava che eri pericolosa per te stessa e per gli altri, e per questo raccomandava un TSO. Persino Piovani si è opposto, ma Torrese ha acconsentito che ti ricoverassero. Io non ho creduto a una sola parola.»

Le lacrime pungevano gli occhi di Aurora, nonostante lei cercasse con tutte le forze di respingerle. Si lasciò cadere a terra, esausta, appoggiando la schiena alla colonna accanto a Chia e Bruno.

«Ho svolto alcune indagini insieme a Tom» continuò Bruno. «E ho scoperto alcune discrepanze nella vita di Bucci, che mi hanno permesso di collegarlo a Filippo Rovere. È stato così che ho capito che aveva scelto Villa Clara per concludere il suo rituale.»

Aurora nascose il viso tra le braccia di Bruno. «Ranuzzi era innocente. È stato Curzi a uccidere la famiglia Rovere.»

Bruno le accarezzò la ciocca di capelli ribelle, scostandogliela dietro l’orecchio e quella, puntualmente, tornò sulla fronte.

Poi sgranò gli occhi.

Aurora seguì il suo sguardo.

Nel punto in cui c’era il corpo di Curzi, adesso c’erano soltanto alcune chiazze di sangue. L’ascia era ancora lì, dove era caduta quando Bruno gli aveva sparato.

Curzi era scappato. O forse era scomparso, divorato dalla stessa oscurità che per anni era stata la sua casa. Tra quelle pareti impregnate di incubi e di follia.

Perché nessuno, in fondo, può uccidere il lupo cattivo.

Aurora nel buio
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