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Aurora si sedette di fianco al letto della piccola Aprile. Passò in rassegna i nuovi fiori che erano stati sistemati negli angoli della stanza e i nuovi biglietti di auguri che erano stati affissi alle pareti. Poi per qualche istante rimase incantata a osservare il viso della bambina. Sembrava dormire, mentre i macchinari a cui era collegata monitoravano le sue funzioni vitali.

«Mi scusi,» disse una voce femminile alle sue spalle «ma l’orario delle visite è già passato.»

Aurora si voltò e incrociò lo sguardo di una giovane infermiera. «Sono il vice ispettore Scalviati. Io… sono venuta soltanto per sapere come sta.»

Lo sguardo dell’infermiera si illuminò. «Lei è la poliziotta che l’ha salvata.»

«“Salvata” non è la parola esatta, date le circostanze» ribatté Aurora amaramente. «Per quanto potrebbe restare ancora in stato di incoscienza?»

«Questo non lo so» ammise l’infermiera. «Ma posso assicurarle che i medici stanno facendo tutto il possibile.»

Aurora si limitò ad annuire.

Dopo aver fatto alcuni controlli, l’infermiera fece un sorriso ad Aurora. «Può restare per qualche minuto, se vuole.» Lo disse a bassa voce, come se non volesse disturbare il sonno della bambina. Poi lasciò la stanza.

Passarono alcuni secondi in cui il silenzio fu interrotto soltanto dai bip delle macchine. Poi Aurora prese delicatamente la mano di Aprile. «Vorrei che tu potessi sentirmi» disse. «Vorrei che tu potessi vedere il cielo, oggi. Non c’è nemmeno il sole e non è niente di speciale, a dire la verità. Ma se tu potessi vederlo, il cielo, significherebbe che il peggio è passato. Vorrei poterti dire che andrà tutto bene. Vorrei che tu stessi bene.»

Per un istante, Aurora desiderò con tutta se stessa di avvertire un segnale, un movimento impercettibile. Ma la bambina non si mosse. Restò immobile con l’espressione leggermente corrucciata di chi sta combattendo, anche nel sonno.

«Ti è mai capitato, la notte, di desiderare di non addormentarti mai?» chiese Aurora. Attese qualche istante prima di proseguire. «A me succedeva da bambina, quando mia madre era ancora in sé, quando era lei a rimboccarmi le coperte e, per farmi addormentare, mi raccontava gli aneddoti della sua vita in tournée, degli attori che aveva conosciuto, del batticuore prima che si sollevasse il sipario, del vuoto che sentiva dentro ogni volta che doveva abbandonare un personaggio per riprendere il suo ruolo nella vita reale.»

Aurora si rigirò tra le dita l’anello che portava al pollice. Le sue mani erano fredde come l’argento con cui era forgiato.

«Aveva un talento nel raccontare le storie, mia madre» proseguì. «Un dono, purtroppo, che io non ho ereditato.» Abbozzò una breve risata sarcastica. «A volte mi chiedo che madre sarei stata per il mio bambino che non è mai nato. Quali storie avrei potuto raccontargli per farlo addormentare, quando gli unici aneddoti sul mio lavoro riguardavano farabutti e criminali di ogni specie?» Una pausa, sofferta. «Forse è stato meglio così. Sono stata sollevata dalla responsabilità di diventare madre senza dover scoprire che probabilmente non ne ero all’altezza.»

Nonostante fosse pieno giorno, dalla finestra proveniva soltanto una debole luce. Le cime degli alberi erano accarezzate da una leggera brezza.

«Mi piacerebbe raccontarti una storia.» Aurora attese qualche secondo, cercando nella memoria un ricordo da condividere con la piccola Aprile. Doveva essere una storia significativa, di quelle che propongono una morale. Una morale che capisci solo alla fine. Ma le vennero in mente soltanto le parole di Silvia quando le aveva detto quanto fosse spaventata suor Edvige, l’espressione di Bruno quando le aveva chiesto di fidarsi di lui, la sua stanza d’albergo troppo spoglia e troppo poco accogliente, la cartina del turno di notte del padre di Aprile e il cerchio con il pennarello rosso che aveva tracciato in corrispondenza di casa Ranuzzi.

Quando stava per arrendersi all’evenienza che forse non ne aveva neanche una di storie significative da raccontare, ecco che un ricordo cominciò a prendere forma. Emerse dalla nebbia della sua mente come l’aurora, quando caccia sotto l’orizzonte l’ultima tenebra.

Si schiarì la voce. «Avevo nove anni, proprio come te.» La voce le usciva a fatica, era come se dovesse forgiare ogni parola prima di trasformarla in suoni. «Per l’esattezza, era il giorno del mio compleanno, e questo è un particolare importante per capire fino in fondo quello che sto per raccontarti. Ricordo che in classe nessuno dei miei compagni mi aveva fatto gli auguri. Del resto, non ero molto popolare. Non me l’ero presa, perché speravo di trovare un bel regalo ad attendermi al mio arrivo a casa.» Dopo un inizio difficile, ad Aurora sembrò di poter rievocare le immagini con la stessa continuità con cui le onde del mare arrivano sulla battigia. «E invece ho trovato soltanto mia madre che guardava la tv con l’espressione smarrita, un piatto di pasta freddo e nessun indizio che facesse capire che quello era un giorno speciale. Il giorno del compleanno dovrebbe esserlo, non trovi?»

Aprile non rispose. Aurora sapeva che non avrebbe potuto farlo. Eppure, in fondo al cuore, continuava a nutrire la speranza che da un momento all’altro la piccola mano della bambina stringesse la sua, un gesto che l’avrebbe confortata, esortandola a continuare.

«Era chiaro che anche mia madre si era dimenticata del mio compleanno, come tutti gli altri» continuò. «Ma non volevo arrendermi all’evidenza. Così, quando mia madre si è spostata in cucina, l’ho seguita e gliel’ho chiesto, tutto d’un fiato. Lei mi ha accarezzato i capelli e ha sorriso, inclinando leggermente la testa di lato. Ho sempre pensato che mia madre fosse l’unica persona al mondo che anche quando sorrideva riusciva a sembrava triste.»

«Aurora,» le aveva detto sua madre quel giorno «certo che non l’ho dimenticato. Come potrei dimenticare il compleanno della mia bambina adorata? È solo che quest’anno volevo farti una sorpresa. Ho deciso di portarti in libreria. Potrai scegliere un libro, e quel libro ti ricorderà per sempre il giorno speciale in cui hai compiuto nove anni.»

Aurora abbozzò un sorriso stanco. «Ero soltanto una bambina,» proseguì «ma avevo capito che in realtà se n’era dimenticata, ma andava bene lo stesso. Avrei avuto il mio regalo di compleanno, e questa era l’unica cosa che contava.»

Aurora accarezzò i capelli di Aprile, proprio come sua madre aveva fatto quel giorno con lei. «Per andare in centro abbiamo preso il tram. Era il numero 18, me lo ricordo ancora; una vettura arancione che assomigliava a un treno in miniatura. Abbiamo scelto la carrozza meno affollata, perché nonostante mia madre sia stata un’attrice e abbia recitato in teatri gremiti, quando si trovava in un luogo con troppe persone aveva difficoltà a controllare l’ansia. In questo, io e mia madre eravamo simili. Anche a me piace stare in disparte, e quando non posso farlo ho l’impressione che il cuore mi batta all’interno di una scatola.»

Prima di proseguire, Aurora accarezzò il dorso della mano di Aprile. Scivolò con le dita sul polso come se temesse che, nonostante l’incessante intercalare cadenzato del bip dei macchinari, le sue pulsazioni si fossero fermate.

«Ho sempre pensato che fosse bella, mia madre, vestita da gran dama come per una grande occasione, persino tra la gente distratta o indaffarata che c’era sul tram. A quell’ora erano per lo più studenti e qualche pendolare che tornava al lavoro dopo la pausa pranzo, e lei si distingueva da tutti, con il suo abito in velluto nero e la collana di granato che risaltava sulla pelle bianca del collo. Mentre le tenevo una mano, proprio come sto facendo con te, lei teneva gli occhi incollati al paesaggio che scorreva oltre il finestrino. La luce del sole di mezzogiorno inondava il suo volto come il bagliore accecante di un riflettore, e io pensavo che era bellissima, un’autentica primadonna. Persino in quel momento, su un tram, sembrava calcare la scena. D’un tratto, mi sono resa conto che tutti la stavano ammirando. La gente non era più distratta o indaffarata, ma era diventata il suo pubblico. Mi sono sentita così piena di orgoglio per lei, ma allo stesso tempo mi sono resa conto che non sarei mai stata alla sua altezza, e nessuno mi avrebbe mai guardata in quel modo.»

Aurora guardò i biglietti affissi alle pareti, proprio come aveva fatto la prima volta che era stata in quella piccola stanza d’ospedale. Trovò un messaggio da parte di Sara, l’amica di Aprile, e ne lesse l’inizio. Questa notte ho sognato di svegliarmi, e tutto era com’è sempre stato. Aurora scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e si chiese quante volte era successo anche a lei.

«Quando siamo entrate in libreria,» continuò «ricordo di aver pensato che c’erano troppi libri per poterne scegliere soltanto uno. Camminavo lentamente tra gli scaffali, sfiorando i dorsi con la punta delle dita. Poi, quando la copertina di un volume attirava la mia attenzione, mi fermavo e lo prendevo tra le mani. Leggevo il retro e poi lo riponevo, certa che nel prossimo scaffale ne avrei trovato uno ancora più bello.» Aurora si interruppe e, per qualche secondo, osservò il viso di Aprile, come se da un momento all’altro potesse aprire la bocca per chiederle che libro aveva scelto, alla fine.

Ma non accadde.

Così lo chiese a se stessa, mentalmente, e rispose a voce alta. «Non ho potuto scegliere nessun libro, perché mia madre aveva già scelto per me La vita di Maria Callas. Mamma sorrideva con il suo sorriso triste, assicurandomi che mi sarebbe piaciuto, quel libro, perché la Divina era la sua eroina.»

Una pausa. Aurora deglutì e fu come ingoiare una manciata di chiodi.

«Io non volevo quel libro. Avrei voluto Alice nel paese delle meraviglie con le illustrazioni originali, o uno di quei romanzi con ragazze dai lunghi capelli mossi dal vento in copertina, che promettono storie d’amore senza fine. Avrei voluto perdermi tra i libri illustrati, o cercare la più intrigante tra le avventure di Sherlock Holmes. Ma non ho voluto deludere mia madre e sono rimasta in silenzio, mentre chiedeva alla commessa di impacchettare per me La vita di Maria Callas

Aurora si alzò e camminò fino alla finestra. Perse lo sguardo oltre le cime degli alberi che continuavano a ondeggiare sospinte dalla brezza insistente. «Non so perché ti ho raccontato questa storia» concluse. «E per quanto mi sforzi a cercarla, credo che non abbia nemmeno una morale. Quel libro non l’ho mai letto, ma mi ricorderà per sempre mia madre, vestita come una vera diva, su un tram, con me al suo fianco, il giorno in cui ho compiuto nove anni.»

Aurora nel buio
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