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«Cosa ci fai qui?» chiese Aurora con un filo di voce.
Era stesa sul letto in una stanza spoglia, immobilizzata da delle cinghie strette intorno ai polsi e alle caviglie. Indossava una camicia ampia color rosa pallido e un paio di pantaloni di cotone. Le palpebre erano pesanti e le labbra secche. In fondo alla gola avvertiva uno sgradevole gusto ferroso. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato, ma dovevano essere ore. Era buio e sul vetro della finestra si infrangeva una miriade di gocce di pioggia. Fuori, il temporale imperversava, anche se la stanza non lasciava filtrare alcun suono dall’esterno.
Il bambino con il cappotto a scacchi era immobile di fronte a lei. Aveva lo sguardo vacuo e la fissava in silenzio, come se stesse vegliando su di lei.
«Mi avevano promesso che i farmaci ti avrebbero fatto andare via» farfugliò Aurora. Scandire le parole era difficile, si sentiva come se avesse perso in parte la mobilità della lingua e della mandibola.
«Non posso andare via.» La voce del bambino echeggiò ovattata nella mente di Aurora, proprio come se stesse parlando dall’interno della sua testa.
«Perché?» si lamentò. «Cosa vuoi da me?»
«Sono venuto per metterti in guardia. Qualcosa di orribile sta per succedere.»
«Credi che io non lo sappia già?» commentò Aurora, sarcastica.
«Sei l’unica che può fare qualcosa per impedirlo» disse il bambino con decisione.
Aurora chiuse gli occhi, sperando di farlo scomparire. Ma quando li riaprì, il bambino era ancora lì nella stessa posizione.
«Non so nemmeno perché ci parlo, con te. Tu non sei reale.»
Il bambino continuò a osservarla senza ribattere per alcuni, lunghissimi secondi. «Ma il Lupo Cattivo, sì. Lui è reale» mormorò, poi. Nonostante le avesse pronunciate a voce bassa, le sue parole saturarono la piccola stanza come un’esalazione tossica.
«No, hanno ragione loro» ribatté Aurora. «Sto dando la caccia a un fantasma.»
Il bambino fece un passo in avanti. «Non è stato un fantasma a prendere Chia. Soltanto tu puoi salvarla.»
«Non posso!» si lamentò Aurora. «Guarda cosa mi hanno fatto.»
«Reagisci!» la incalzò il bambino. «Chia ha bisogno di te.»
Aurora scosse debolmente la testa. «Non posso farcela da sola.»
«Ma tu non sei sola. Anche se hai fatto di tutto per cacciarlo via dalla tua vita, Bruno ti ama.»
«Nessuno mi ama» ribatté amaramente Aurora. Una lacrima si affacciò alle ciglia, e dovette lottare per non scoppiare a piangere. «Sono stata una delusione per tutti quanti.»
«Il Lupo Cattivo ucciderà ancora.»
«Ranuzzi era il Lupo Cattivo. Ed è morto più di vent’anni fa.»
«Anche Filippo Rovere è morto. Ma questo non lo rende meno pericoloso.»
Prima che Aurora potesse ribattere, la porta della stanza si aprì, facendo filtrare la luce del corridoio. Sulla soglia comparve il direttore della clinica, il dottor Rambaldi, accompagnato da Guido Farneti, che entrò con un’aria vagamente imbarazzata.
Aurora lanciò un’occhiata al bambino, che nel frattempo aveva iniziato a indietreggiare, fino a rifugiarsi nell’angolo più remoto della stanza, rannicchiandosi.
«Salve, Aurora» disse Rambaldi.
Aurora rivolse lo sguardo verso di lui, ma non ribatté. Si limitò a osservarlo con un misto di disprezzo e risentimento.
«Come si sente?» chiese lui, accomodante.
Aurora fece una serie di ampi respiri, che sembrarono rantoli di un animale ferito. «Mi guardi bene, professor Rambaldi» grugnì. «Come crede che mi senta?»
Rambaldi avanzò fino a trovarsi a un passo dal letto di Aurora. «Glielo prometto. Farò tutto ciò che è in mio potere per farla sentire meglio.»
«Tenermi legata a un letto non mi sembra un buon inizio.»
«So che le sembra difficile da comprendere, adesso. Ma voglio che lei sappia che lo stiamo facendo per il suo bene.»
«Certo, come no» sogghignò Aurora.
«Io voglio aiutarla. Vorrei che si sentisse a suo agio, proprio come un’ospite. Soprattutto, vorrei che si sentisse protetta.»
«Mi creda, Rambaldi» fece Aurora con voce ruvida. «In questo momento lei non è in grado di proteggere nessuno.»
«A cosa si riferisce?»
Aurora ignorò la domanda. «Dove sono i miei vestiti?»
«Non si preoccupi. Li riavrà presto.»
Aurora lanciò un’occhiata a Farneti. «Chi è stato a spogliarmi?»
«Luciana, una delle infermiere» rispose Rambaldi, con fermezza. «Abbiamo dovuto cambiarla perché… ehm… ha vomitato sui suoi vestiti. Mi spiace… davvero. Ma non ha niente da temere, ora. È in buone mani.»
Aurora voltò la testa e si mise a fissare il soffitto. Con la coda dell’occhio vide che il bambino era ancora immobile, nella stessa posizione, rannicchiato in un angolo.
«Per dimostrarle che è un’ospite di riguardo, ora la farò liberare dalle cinghie di sicurezza. La prego però di restare calma. Niente violenza, né gesti inconsulti. Sono distruttivi e dannosi, soprattutto per lei. Tutto questo finirà prima, se non opporrà resistenza alla terapia. Per favore, la prego, non mi deluda.»
Aurora lo guardò con diffidenza. «Mi avete imbottito di pillole al punto che riesco a malapena a parlare. Cosa si aspetta che faccia?»
«Niente, per l’appunto. Si affidi a noi senza alcun dubbio.» Parlava lentamente, sforzandosi di risultare amichevole.
Farneti si posizionò a fianco del letto e con cautela iniziò a slacciare le cinghie che tenevano immobilizzata Aurora.
Quando ebbe finito, Aurora si alzò lentamente sui gomiti. Si sentiva indolenzita e frastornata. Si sedette sul bordo del letto, massaggiandosi i polsi.
«Posso contare su di lei, allora?» la incalzò Rambaldi.
Aurora si limitò ad annuire.
«Allora la lascio in compagnia di Guido. Per una serena convivenza con gli altri ospiti, è fondamentale che si attenga alle poche, semplici regole che ora le illustrerà.» Le rivolse uno sguardo vagamente compiaciuto. «Arrivederci, Aurora. Sono certo che si troverà bene da noi.»
Aurora dovette mordersi la lingua per non mandarlo al diavolo. Mentre Rambaldi stava per uscire, mormorò: «Aspetti».
Rambaldi si fermò e si girò verso di lei.
«Prima che se ne vada, dottor Rambaldi, vorrei chiederle una cosa.»
«Sono a sua disposizione.»
Ci fu un veloce scambio di occhiate tra Farneti e Rambaldi, come se si aspettassero una domanda inappropriata.
«Chi era il terapista di Filippo Rovere?» chiese Aurora, dopo un istante di esitazione.
Rambaldi curvò le labbra in un sorriso ironico. «Non posso crederci» sospirò. «Lei è davvero caparbia. La prego, la smetta di torturarsi. Quell’indagine è come… una dipendenza da cui deve assolutamente disintossicarsi. Si sforzi di guardare al futuro, piuttosto. Pensi a come vorrebbe che fosse la sua nuova vita, fuori da questo istituto.»
«Me lo dica e basta» insistette Aurora. «E le giuro che sarà l’ultima volta che mi sente parlare di questo argomento.»
«E va bene» borbottò Rambaldi. «Se ne occupò Marciano in persona. Ma non lavora più qui, da parecchio tempo, ormai.»
«Perché se n’è andato?» lo incalzò Aurora.
Rambaldi fece un respiro profondo. «Ricordi la sua promessa. Il tempo delle domande è finito.» Si voltò e fece per uscire.
«Me lo dica!» lo rincorse la voce di Aurora. «Perché Marciano ha lasciato il lavoro in clinica?»
Rambaldi rivolse uno sguardo ad Aurora prima di uscire. «Arrivederci, Aurora.»
Rimase sola con Guido Farneti, che la guardava con sospetto. Ci fu un lungo silenzio, che alcuni secondi dopo fu rotto dal giovane volontario.
«Niente ginocchiate, ok?»
«Non credo che riuscirò a reggermi in piedi.»
«Non ti preoccupare, starai meglio. Non è poi così male, qui dentro. Villa Clara è una clinica all’avanguardia. I pazienti del dottor Rambaldi vengono trattati bene.»
Aurora fece una risatina sarcastica. «È buffo, no?»
«Che cosa?» chiese Farneti, diffidente.
«La prima volta che sono venuta qui ero un ispettore di polizia che svolgeva un’indagine.» Fece un respiro profondo. «Guardami adesso, non sono più… niente.»
«Non dire così» la rassicurò Farneti. «Prima o poi, capita a tutti di dover fare i conti con i propri fantasmi.»
«Già. Solo che i miei fantasmi uccidono.»
«Ricordati che il primo passo per superare un problema è riconoscerlo.»
«Lascia stare le psico-stronzate, con me non attacca. Io non sono come Lena. Io ci riesco, a mantenere il controllo.»
Farneti fece una piccola smorfia. «Che c’entra Lena? Lei… ha una storia completamente diversa dalla tua.»
Aurora cercò i suoi occhi. «Lei ti piace, vero?»
Farneti voltò la testa di lato per schivare il suo sguardo.
Per un attimo, ad Aurora sembrò che anche lui potesse vedere il bambino con il cappotto a scacchi, rannicchiato nell’angolo della stanza.
«C-cosa te lo fa pensare?» balbettò Farneti, per poi tornare a guardare in direzione di Aurora.
«Niente» tagliò corto lei. «Allora, quali sarebbero le regole di cui parlava Rambaldi?»
«Lena è una paziente come tutte le altre» insistette Farneti.
«Guarda che a me non interessa affatto. Ho già i miei problemi.»
Farneti si schiarì la voce. «Dunque, tra circa un’ora sarà servita la cena nella sala mensa. Se sei troppo debole, però, posso mandare qualcuno nella tua stanza.»
«Non ho molto appetito.»
«Fidati, è meglio se mangi qualcosa.»
«Sì, mamma.»
Farneti ignorò la provocazione. «Domani mattina la dottoressa Bellocchi ti aspetta nel suo ufficio per un incontro preliminare. Concorderete insieme un percorso terapeutico. Prima dell’ora di pranzo, poi, c’è la terapia di gruppo del dottor Savini. Ti consiglio vivamente di partecipare, è uno bravo. Nel pomeriggio, se ti va, puoi dedicarti alle attività ricreative, come guardare la tv o scegliere un libro dalla biblioteca.»
Come poteva pensare di guardare la tv o leggere un libro mentre, da qualche parte, Chia veniva fatta a pezzi? «Che mi dici del dottor Marciano? Anche lui era uno bravo?»
Farneti fece un ampio respiro, come per trovare la calma necessaria. «Perché sei così… arrabbiata?»
«Perché sono reclusa in un istituto psichiatrico mentre dovrei svolgere le mie indagini, ecco perché!»
«Le indagini per conto di chi? Il giudice che ti ha fatta rinchiudere?»
Aurora corrugò le labbra in una smorfia: poteva essere interpretata come rabbia o disgusto.
Farneti si passò una mano su una tempia per asciugare una goccia di sudore. Sembrava inquieto. C’era qualcos’altro che lo rendeva nervoso, ma Aurora, in questo momento, non riusciva a coglierlo.
Con un sorriso di circostanza, Farneti aggiunse: «Scusa. Non volevo essere duro».
«Sopravvivrò» mormorò Aurora.
«Non avrei dovuto perdere la calma» disse Farneti. «Per favore, non parlarne con Rambaldi.»
«Figurati.»
«Allora, se è tutto chiaro, io ora devo andare. Ho un po’ di faccende da sbrigare.»
Aurora sollevò una mano in cenno di saluto e lo osservò mentre si allontanava.
Quando Farneti fu sul punto di uscire, si voltò verso di lei. «E comunque non era un gran che come psichiatra, Marciano» disse in tono confidenziale. «E neanche come direttore della clinica. Io non lavoravo ancora qui, quindi parlo per sentito dire. È stato allontanato dal consiglio di amministrazione perché aveva una relazione omosessuale con un paziente.»
Lo sguardo di Aurora si illuminò. «Chi era quel paziente?»
«Non dirai a nessuno che te ne ho parlato io, vero?»
«Croce sul cuore.» Aurora si mise due dita sulle labbra.
«Filippo Rovere.»
Il battito accelerò e, per un istante, Aurora si dimenticò di respirare. «Che fine ha fatto Marciano, dopo essere stato cacciato?»
Guido Farneti si strinse nelle spalle. «E chi lo sa? Nessuno ha più avuto notizie di lui, da allora.»