17.
L’ufficio funebre è terminato. I mendicanti, battendo alternativamente i piedi intirizziti, si sono stretti in due file. Il carro ondeggiando si è mosso lentamente, seguito da quello con le corone e dalla carrozza dei Krueger. I cocchieri si sono avvicinati alla chiesa. Dal tempio è uscita Shura Schlesinger con tracce di pianto sul volto e, sollevando il velo bagnato di lacrime, ha fatto scivolare uno sguardo interrogativo lungo la fila dei cocchieri. Individuati fra loro i portatori dell’agenzia, li ha chiamati a sé con un cenno ed è scomparsa con loro nella chiesa da dove stava uscendo a f rotte, sempre più numerosa, la gente.
«E così è stata la volta di Anna Ivànovna. Ha detto di salutarvi, ha preso il biglietto per l’al di là, poveretta.»
«Sì, poveretta, se n’è andata. E’ andata a riposarsi, libellula.»
«Avete la vettura o prendete l’11?»
«Mi si sono gelati i piedi. Facciamo prima due passi.»
«Avete notato come l’ha presa Fufkòv? Guardava la salma e giù lacrime a dirotto, si soffiava il naso, se la divorava con gli occhi. E lì vicino c’era il marito.»
«E’ tutta la vita che le stava dietro.»
Con discorsi del genere, procedevano verso la parte opposta della città, alla volta del cimitero. Dopo il gran gelo, il freddo era diminuito. L’aria era di una pesantezza immobile: una giornata in cui cominciava a cedere il gelo e un’esistenza finiva, una giornata fatta apposta per un seppellimento. La neve sudicia pareva tralucere attraverso un velo funebre, gli abeti bagnati, scuri come argento brunito, si affacciavano oltre la cinta e sembravano anch’essi in lutto.
Era lo stesso memorabile cimitero dove riposava Màrija. Negli ultimi anni Jura non si era più recato alla tomba della madre. «Mammina,» mormorò quasi con le labbra di allora, guardando di lontano in quella direzione.
Il corteo si sciolse e quanti vi avevano preso parte procedevano in modo solenne, quasi spettacolare, lungo i vialetti sgombri, le cui curve sinuose mal si accordavano con la dolente regolarità dei passi. Aleksàndr Aleksàndrovich conduceva a braccetto Tonja. Li seguivano i Krueger. A Tonja l’abito a lutto donava molto.
Le catene sospese alle croci delle cupole e le rosee mura del monastero erano cosparse di brina, villosa come una muffa. In un angolo lontano, del cortile del monastero correvano da un muro all’altro delle corde con. la biancheria lavata stesa ad asciugare: camicie con le pesanti maniche penzoloni, tovaglie color pesca, lenzuoli strizzati male e messi di traverso. Jura guardò laggiù e riconobbe quel punto del cortile del monastero, dove allora infuriava la tormenta, e che per le nuove costruzioni ora appariva mutato.
Camminava solo davanti agli altri, a passo svelto, e di tanto in tanto si fermava ad aspettare. Per rispondere al vuoto prodotto dalla morte in quella gente che procedeva lenta alle sue spalle, egli avrebbe voluto, con la stessa sicurezza con la quale l’acqua turbinando precipita in fondo formando dei vortici, sognare e pensare, affaticarsi sulle forme, creare la bellezza. Ora, come non mai, gli era chiaro che l’arte è sempre e senza tregua dominata da un duplice motivo. Un’instancabile meditazione sulla morte, da cui instancabilmente essa crea la vita. La grande, la vera arte è quella che si chiama la Rivelazione di Giovanni e quella che in qualche modo la continua.
Pregustava avidamente il momento in cui sarebbe uscito per un paio di giorni dalla cerchia familiare e universitaria, e allora, scrivendo di Anna Ivànovna, avrebbe ricordato ed espresso tutto ciò che in quel momento gli si presentava davanti, le piccole, minute realtà casuali che la vita gli offriva: qualcuno dei lati migliori della morta; l’immagine di Tonja in lutto; alcune osservazioni fatte per strada tornando dal cimitero; la biancheria stesa nel luogo dove, molti anni prima, una notte aveva urlato la tormenta e lui aveva pianto bambino.