3.
I fatti che seguono avvennero nella città di Karacëv, distrutta dalle fondamenta, poco dopo il pernottamento e il colloquio notturno di Gordon e Dudorov a Cern’. Raggiungendo la propria armata, i due ritrovarono a Karacëv le retroguardie, che seguivano il grosso.
Da più di un mese il tempo era stabilmente calmo e sereno, di tiepido autunno. La nera, fertile terra della Brynshcina, una zona benedetta tra Orël e Brjansk, ricolma dello splendore di un cielo azzurro senza nubi s’abbronzava al sole con riflessi color caffè e cioccolato.
La città era tagliata in due dalla via centrale, rettilinea, che si fonde va col tracciato della grande strada. Da un lato stavano le case distrutte, che le bombe avevano trasformato in cumuli di pietrisco, e gli alberi sradicati, spezzati e arsi dei frutteti rasi al suolo. Dall’altro lato della strada si stendevano delle aree vuote, forse poco costruite anche in precedenza, prima della distruzione della città, e risparmiate dagli incendi e dalle esplosioni, visto che non c’era nulla da distruggere.
Nella zona un tempo abitata, i cittadini senza tetto frugavano nei mucchi di cenere non ancora spenti, ne tiravano fuori qualcosa e dai punti più lontani della zona degli incendi portavano tutto in un sol luogo. Altri costruivano in fretta delle capanne di terra e tagliavano zolle per ricoprire di piote la parte superiore.
Sul lato opposto alle aree vuote biancheggiavano alcune tende e si ammassavano autocarri e carrozzoni dei servizi del secondo squadrone. Erano ospedali da campo che avevano perso il collegamento con lo stato maggiore delle loro divisioni, sezioni di parchi, intendenze e magazzini di viveri d’ogni genere, che si erano smarriti e mescolati e si andavano cercando. Qui, inoltre, si ripulivano e si sistemavano alla meglio per mangiare qualcosa, riposarsi e riprendere poi faticosamente la strada verso occidente, esili e sparuti adolescenti dei reggimenti di fanteria della riserva, con le grigie bustine e i pesanti grigi cappotti arrotolati sulle spalle, i visi smunti, terrosi, esangui per la dissenteria.
La città, per metà incenerita e sconvolta dalle esplosioni, continuava ad ardere e a sussultare agli scoppi delle mine ad azione ritardata. Di tanto in tanto quelli che frugavano fra le ceneri e nei frutteti interrompevano il lavoro, fermi a ogni scotimento del terreno sotto i piedi, raddrizzavano le schiene incurvate, si appoggiavano all’impugnatura della vanga e, volta la testa nella direzione dell’esplosione, si riposavano guardando a lungo da quella parte.
Laggiù, dapprima a colonne e a getti, poi come pigra e pesante massa, salivano al cielo, grigie, nere, rossastre, fumose e infuocate, le nuvole dei detriti sollevati per aria, si dilatavano, formavano dei pennacchi, si disperdevano e quindi ricadevano lentamente. E la gente riprendeva a lavorare.
Uno dei prati della zona priva di costruzioni era circondato di cespugli e ricoperto dall’ombra fitta dei vecchi alberi, e sembrava separato dal resto del mondo, come un cortile chiuso, isolato e immerso in una fresca penombra.
Lì, la lavandaia Tanja, insieme a due o tre soldati dello stesso reggimento, ad altri che intendevano partire con loro, e a Gordon e Dudorov, aspettavano fin dal mattino l’autocarro che doveva venire a prendere Tanja e i beni del reggimento affidati a lei, sistemati in alcune casse ammucchiate lì accanto. Tanja faceva buona guardia e non se ne allontanava di un passo, ma anche gli altri non se ne scostavano per non perdere l’occasione di partire, non appena si presentasse.
L’attesa durava da molto, da oltre cinque ore, le persone che aspettavano non avevano nulla da fare e ascoltavano l’instancabile chiacchierio di quella ragazza loquace che ne aveva viste di tutti i colori. Aveva appena terminato di raccontare il suo incontro col maggiore generale Zivago.
«E come no? E’ stato ieri. Mi hanno accompagnata proprio dal generale in persona. Dal maggiore generale Zivago. E’ qui di passaggio. Si interessava di Christina, interrogava i testimoni oculari, quelli che la conoscevano di persona. E così gli hanno indicato anche me. E’ un’amica, gli avevano detto. Ha ordinato subito di farmi chiamare. Be’, mi hanno chiamata, mi hanno portata da luì. Non faceva affatto paura. Niente di speciale, come tutti gli altri. Occhi obliqui. Bene, quel che sapevo, gliel’ho spifferato. Mi ha ascoltata, mi ha detto grazie. ‘E tu,’ mi ha detto, ‘di dove sei e chi sei?’ Io, si capisce, e qui e là, menavo il can per l’aia. Che cos’ho da vantarmi? Sono stata “besprizòrnaja”. E poi, più o meno, lo sapete anche voi: case di correzione, vagabondaggio. Ma lui mi dice: ‘Non nascondere nulla, non aver timore, non c’è da vergognarsi.’ Be’, io, per la timidezza, prima dico un paio di parole, poi, dài e dài, lui fa sì sì con la testa, e io mi son fatta coraggio. E ce n’ho io da raccontare! Se mi sentiste, non ci credereste, direste che invento. Be’, anche lui però. Quando ho finito, si è alzato, e s’è messo ad andare su e giù per l’isbà. ‘Senti un po’,’ dice, ‘è proprio straordinario. Facciamo così,’ ha detto poi. ‘Ora non ho tempo. Ma ti ritroverò, sta’ tranquilla, ti ritroverò e ti farò chiamare. Non avrei mai pensato di sentire una cosa simile. Non ti lascerò così,’ mi dice. ‘Bisognerà chiarire ancora qualcosa, certi particolari. C’è caso, bada, che mi dichiaro tuo zio e che ti promuovo nipote di generale. E ti metto a studiare all’università, dove vuoi tu.’ Quant’è vero Dio. E’ un mattacchione quello lì.»
Nel frattempo era arrivato un lungo carro vuoto con alte sponde, del tipo di quelli usati in Polonia e nella Russia occidentale per trasportare i covoni. Guidava i due cavalli affiancati un inserviente militare, un “furlèit”, secondo la vecchia terminologia, o soldato delle salmerie. Appena giunto sul prato, saltò giù dal sedile e prese a staccare i cavalli. Tutti, eccetto Tanja e alcuni soldati, lo circondarono, pregandolo di non staccare il carro e di portarli dove desideravano, pagando, s’intende. Il soldato rifiutò perché non aveva il diritto di disporre dei cavalli e del carro e doveva obbedire alle istruzioni ricevute. Condusse via i cavalli e non tornò più. Tutte le persone in attesa, che fino a quel momento erano state sedute in terra, si alzarono e andarono a prender posto nel carro vuoto. Riprese allora il racconto di Tanja, interrotto dall’arrivo del carro e dalle trattative col soldato.
«Cos’è che hai raccontato al generale,» domandò Gordon. «Non ce lo puoi raccontare anche a noi?»
«Perché no? Certo che posso.»
E raccontò la sua terribile storia.