27.

Con quel caldo soffocante e l’aria viziata non si riusciva a dormire. Jurij Andrèevich grondava sudore sul cuscino inzuppato.

Con cautela si calò dalla cuccetta e pianissimo, per non svegliare nessuno, socchiuse la porta del vagone.

Un’umidità vischiosa lo colpi in faccia, come quando in cantina si urta il viso in una ragnatela. «La nebbia,» si disse. «La nebbia. La giornata probabilmente sarà afosa, cocente. Ecco perché si fatica tanto a respirare e si sente quest’oppressione.»

Prima di scendere sul terrapieno, sostò presso lo sportello, in ascolto.

Il treno era fermo in una stazione molto grande, un nodo ferroviario. Oltre che nel silenzio e nella nebbia, i vagoni erano immersi in una sorta di non esistenza e di abbandono, come fossero stati dimenticati. Il convoglio, infatti, era fuori stazione e ne era separato da una così vasta rete di binari, che se la terra fosse sprofondata lì inghiottendo tutta la stazione, nessuno del treno se ne sarebbe accorto.

In lontananza si riuscivano a percepire due rumori diversi.

Dietro, dalla parte da cui erano arrivati, veniva uno sciabordio regolare, come di biancheria che si risciacqui, o di una bandiera bagnata sbattuta dal vento contro l’asta.

Nella direzione opposta si udiva un rombo che lo fece trasalire e tendere l’orecchio: un rombo che gli ricordava la guerra.

«Cannoni a lunga gittata,» stabilì, dopo essere rimasto ad ascoltare. Il rombo regolare echeggiava monotono su una lunga noia bassa.

«E così, siamo arrivati fino al fronte,» rifletté scuotendo la testa, e saltò giù dal vagone.

Fece alcuni passi. Dopo due vagoni, il treno finiva. La locomotiva e vagoni di testa erano stati sganciati, scomparsi chissà dove.

«Per questo ieri facevano tanto i bravacci,» pensò. «Lo sentivano che appena arrivati, li avrebbero subito scaraventati al fuoco.»

Costeggiò tutto il treno con l’intenzione di attraversare i binari e di trovare la strada per la stazione. Ma, dietro l’angolo del primo vagone, spuntò come di sotto terra una sentinella col fucile. Senza alzare la voce, gli intimò:

«Dove vai? Il lasciapassare!»

«Che stazione è?»

«Nessuna stazione. Chi sei piuttosto?»

«Sono un dottore di Mosca. Viaggio con la famiglia su questo treno. Ecco il mio documento.»

«Chi se ne infischia del tuo documento. Non sono mica scemo da leggere le carte al buio e rovinarmi gli occhi. Vedi che c’è nebbia. Anche senza documento si capisce a una “versta” che razza di dottore sei. Eccoli, i tuoi dottori; sono laggiù che sparano coi cannoni da dodici pollici. Bisognerebbe sistemarli per bene, ma non è ancora il momento. Dietrofront, finché sei vivo.»

«Mi prende per qualcun altro,» pensò. Entrare in discussione con la sentinella era assurdo. La cosa migliore era allontanarsi prima che fosse troppo tardi. E si avviò dalla parte opposta.

I tiri d’artiglieria cessarono, dietro di lui. Là, alle sue spalle, era l’oriente. Nel fumo della nebbia era sorto il sole e occhieggiava pallido tra nubi di tenebra galleggianti, come in mezzo a nuvole di vapore, nei bagni pubblici, appaiono i corpi nudi.

Il dottore camminò lungo i vagoni del treno, li oltrepassò tutti e continuò ad avanzare. A ogni passo i suoi piedi sprofondavano in una soffice sabbia.

Quello sciaguattio monotono, che aveva già notato, si avvicinava. Il terreno scendeva dolcemente. Fatti ancora alcuni passi, si fermò davanti a confuse sagome cui la nebbia conferiva proporzioni smisurate. Ancora un passo ed emersero dalla foschia le poppe di molte barche tirate in secca. Si trovava sulla riva di un grande fiume che stancamente schiaffeggiava con la pigra risacca le fiancate dei pescherecci e le assi dei pontili d’attracco.

«Chi ti ha permesso di ficcare il naso qui?» domandò un’altra sentinella, staccandosi dalla riva.

«Che fiume è questo?» sfuggì involontariamente al dottore, benché, dopo la recente esperienza, avesse fermamente deciso di non fare più domande.

Invece di rispondere, la sentinella si ficcò tra le labbra un fischietto, ma non ebbe il tempo di servirsene.

L’altra sentinella, che egli avrebbe voluto chiamare, aveva pedinato Jurij Andrèevich ed era già vicina al compagno. Parlarono fra loro.

«Non c’è da starei a pensare sopra. L’uccello si riconosce al volo. ‘Che stazione è? Che fiume è?’… Crede di gettar polvere negli occhi. Che dici, lo facciamo fuori subito, o lo portiamo al vagone del comando?»

«Secondo me, è meglio portarlo al comando. Sentiamo il capo. La carta d’identità,» ringhiò la seconda sentinella, e afferrò il fascio di certificati che il dottore gli porgeva.

«Fagli la guardia, paesano,» disse a qualcuno che non si vedeva, e insieme alla prima sentinella si avviò, lungo i binari, verso la stazione.

Allora, si fece avanti tossendo un uomo che stava steso sulla sabbia, evidentemente un pescatore.

«Fortuna che ti portano da lui. Forse, brav’uomo, è la tua salvezza. Ma tu non prendertela con loro. Fanno quello che devono fare. E’ il momento del popolo. Forse, è per il meglio. Ma, per ora, neanche a parlarne. Loro, vedi, ti hanno scambiato per un altro. Danno la caccia a uno. E credono che sei tu, quello. Pensano: eccolo qui il nemico del potere operaio, l’abbiamo preso. Si sono sbagliati. Tu, in ogni caso, chiedi del capo. Guàrdati da questi. E’ gente che fa sul serio, è un guaio, che Dio ce ne scampi. Ti fanno fuori come niente. Se ti dicono ‘andiamo’, tu non andarci. Di’ che vuoi vedere il capo.»

Dal pescatore Jurij Andrèevich seppe che quello era il famoso fiume navigabile Ryn’va, che la stazione era Razvil’e, sobborgo fluviale e industriale di Jurjatin e che la stessa Jurjatin, distante due o tre “verste”, era da tempo contesa ai bianchi e probabilmente ormai conquistata. Il pescatore aggiunse che anche a Razvil’e c’erano disordini, che, però, sembrava fossero stati soffocati; che tutt’intorno c’era tanto silenzio, perché la zona adiacente alla stazione era stata evacuata dalla popolazione civile e circondata da un severissimo cordone protettivo; e, infine, che fra i treni fermi sui binari che ospitavano uffici militari si trovava anche il treno speciale dei commissario di guerra Strèl’nikov, al quale le sentinelle avevano portato a vedere i documenti.

Dopo un certo tempo, una nuova sentinella venne a cercare il dottore. Differiva dalle altre due per come teneva il fucile, che trascinava col calcio a terra o che spostava davanti a sé, come se trasportasse sottobraccio un compagno ubriaco che altrimenti sarebbe crollato di colpo. La sentinella condusse il dottore in un vagone commissario militare.

Il dottor Zivago
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