3.
Fu durante quel periodo, in quella prima parte del suo lungo cammino, che capitò in un villaggio dato alle fiamme e abbandonato. Prima della distruzione, le case erano allineate su una sola fila, dal lato della strada opposto al fiume. Dall’altro, non erano state ancora costruite.
Solo poche case, annerite e bruciacchiate, erano rimaste in piedi, anche queste vuote, disabitate. Le altre isbe erano ridotte a un mucchio di tizzoni che puntavano verso l’alto i neri scheletri delle cappe affumicate dei camini.
Le ripe scoscese del fiume erano interrotte da cave, da dove un tempo gli abitanti del villaggio, che vivevano di quel lavoro, estraevano pietre per macine.
Tre di queste mole non ancora sgrossate giacevano in terra di fronte all’ultima isbà del villaggio, una delle poche superstiti, anch’essa vuota, come tutte le altre.
Jurij Andrèevich vi entrò. La sera era quieta, ma non appena il dottore mise piede nell’isbà, fu come se il vento vi avesse fatto irruzione. Sul pavimento svolazzarono da tutte le parti fili di paglia e di stoppa, sulle pareti si agitarono laceri brandelli di carta. Tutto si mosse, frusciò. E i topi, di cui l’isbà brulicava come tutti i dintorni, presero a fuggire squittendo.
Ne uscì subito. Dietro a lui, oltre i campi, tramontava il sole che illuminava di luce dorata l’altra sponda, dove arbusti e piccoli promontori si protendevano fino a metà del fiume con lo scintillio dei loro pallidi riflessi. Attraversò la strada e si sedette a riposare su una delle macine che giacevano nell’erba.
Da sotto, dal burrone, spuntò una bionda testa capelluta, poi le spalle, poi le mani. Una figura umana saliva dal fiume lungo il sentiero portando un secchio pieno d’acqua. Quando scorse il dottore, si fermò, sporgendo fino alla cintola oltre la linea della scarpata.
«Vuoi da bere, brav’uomo? Non farmi del male, io non ti toccherò.»
«Grazie. Sì, dammi da bere. Ma vieni qui, non aver paura. Perché dovrei farti del male?»
Risalendo la scarpata, il tipo dell’acqua si rivelò un adolescente, scalzo, lacero e dai capelli lunghi e incolti.
Nonostante le parole amichevoli rivoltegli dal dottore, fissò su di lui uno sguardo inquieto e penetrante. Per una incomprensibile ragione il ragazzo appariva stranamente emozionato. In preda all’agitazione, depose a terra il secchio e, a un tratto, dopo aver accennato a lanciarsi verso il dottore, si fermò e mormorò:
«Macché… macché… ma no, non può essere, mi sono sbagliato. Mi scuso, compagno, ma lasciate che ve lo chieda. Mi sembrava che foste una persona che conoscevo. Ma sì! Ma sì! Siete lo zio dottore!»
«E tu chi sei?»
«Non mi riconoscete?»
«No.»
«Abbiamo viaggiato insieme nella tradotta di Mosca, nello stesso vagone. Mi mandavano all’armata del lavoro, sotto scorta.»
Era Vasja Brykin. Gli si gettò ai piedi, prese a baciargli le mani e scoppiò a piangere.
Il villaggio bruciato era il paese natale di Vasja, Veretènniki. Sua madre era morta. Durante la rappresaglia e l’incendio egli si era nascosto in una caverna sotterranea, nelle cave di pietra da macina, e la madre aveva creduto che fosse stato portato via. Impazzita dal dolore, si era annegata nel Pelgà, quello stesso fiume sulla cui riva loro adesso sedevano e conversavano. Le due sorelle Alënka e Arishka, a quanto aveva saputo, dovevano trovarsi in un altro distretto, in un asilo d’infanzia. Il dottore prese con sé Vasja e lo condusse a Mosca. Durante il viaggio il ragazzo raccontò a Jurij Andrèevich orrori d’ogni sorta.