8.

Ai confini occidentali della “tajgà” erano in corso dei combattimenti. Ma la “tajgà” era di tale immensità che quegli scontri sembrava si svolgessero alle lontane frontiere dello Stato, e l’accampamento sperduto nella boscaglia aveva tanta. di quella gente che, per quanti andassero a combattere, non rimaneva mai deserto.

Il rombo della battaglia lontana quasi non raggiungeva l’angolo remoto del campo. Ma all’improvviso, nel bosco, echeggiarono alcuni spari, che si susseguirono a breve distanza e d’un tratto diventarono una fitta, disordinata sparatoria. La gente, sorpresa dove si trovava da quei colpi, fuggì disordinatamente. Gli uomini delle riserve sussidiarie si precipitarono ai carri. Si creò un trambusto, tutti corsero ad armarsi.

Ma la calma tornò presto. Era stato un falso allarme e la gente prese ad affluire in folla verso il punto dove erano echeggiati gli spari. Altri sopraggiungevano da ogni parte.

Circondavano un troncone d’uomo che giaceva insanguinato a terra. li mutilato respirava appena. Aveva amputati il braccio destro e la gamba sinistra. Era incomprensibile come fosse riuscito a strisciare fino al campo con una sola gamba e un solo braccio. Gli arti amputati erano legati come orrendi gomitoli sanguinosi dietro la sua schiena, insieme a un cartello, nel quale, fra i peggiori insulti, si diceva che quella era la risposta alle efferatezze di un reparto rosso, col quale però i Fratelli del Bosco non avevano alcun rapporto. Si aggiungeva inoltre che così sarebbero stati trattati i partigiani se non si fossero arresi entro il termine indicato nel cartello e non avessero consegnato le armi ai rappresentanti delle truppe di Vicyn.

Grondando sangue, interrompendosi, con la voce spenta e la lingua che si ingarbugliava, e perdendo continuamente i sensi, l’infelice riferì le atrocità e le torture a cui aveva assistito presso le unità di polizia militare e di repressione del generale Vicyn. L’impiccagione a cui l’avevano in un primo tempo condannato gli era stata commutata, per una sorta di grazia, nella mutilazione di un braccio e di una gamba, perché, così ridotto, tornasse al campo, monito ai partigiani. Era stato portato a braccia fino agli accessi della prima linea, poi l’avevano deposto a terra, ordinandogli di proseguire da solo e incitandolo con spari in aria.

Il mutilato riusciva a stento a muovere le labbra. Per intendere il suo inafferrabile balbettio, la gente intorno si piegava, chinando le teste fino a lui. Diceva:

«Attenti, fratelli. Quello ha aperto una breccia.»

«Ci sono le ali di rinforzo. C’è una grande battaglia. Resisteremo.»

«L’ha aperta, l’ha aperta. Quello vuole arrivare di sorpresa. Io lo so. Oh, non ne posso più, fratelli. Perdo tutto il sangue, vedete, sputo sangue. Muoio.»

«Resta sdraiato, riposa. E non parlare. Non lo fate parlare, animali. Non vedete che gli fa male?»

«Non mi ha lasciato niente di sano addosso, cane, sanguisuga. Ti laverai davanti a me col tuo sangue, mi diceva, dimmi chi sei. Ma come potevo dirgli chi sono, fratelli, se sono un suo disertore. Sì. Io l’ho lasciato, quello, per passare con voi.»

«Perché continui a dir ‘quello’? Chi ti ha ridotto così?»

«Oh, fratelli, mi sento dilaniare le viscere. Vi prego, fatemi riprender fiato. Adesso ve lo dirò. E’ l’“atamàn” Bekeshin. Il colonnello Shtreze. Quelli di Vicyn. Voi qui nel bosco non sapete nulla. Ma in città si piange. Arroventano il ferro con gli uomini vivi. Scuoiano la gente a strisce. Ti trascinano per la collottola chissà dove, nessuno lo sa, ti mettono al buio. Tasti intorno, senti una cella, un vagone. Dentro ci sono più di quaranta persone mezze svestite. Ogni tanto aprono e giù una zampa, per prenderne uno. Il primo che capita. Fuori. Come sgozzassero galline, giuro su Dio. E uno lo impiccano, un altro lo frustano, un altro lo portano all’interrogatorio. E giù a strappargli la pelle, a versargli sale sulle piaghe, acqua bollente. Quando vomita o se la fa addosso, lo obbligano a rimangiarsela. E coi bambini, e le donne, o Signore!»

L’infelice era agli estremi. Non finì di parlare, mandò un grido ed esalò l’ultimo respiro. Tutti intorno se ne resero subito conto, si tolsero i berretti, segnandosi.

La sera un’altra notizia, anche più tremenda, fece il giro del campo.

Pamfìl Palych era tra la folla che circondava l’agonizzante. L’aveva visto anche lui, aveva udito il racconto, aveva letto il cartello pieno di minacce.

Il continuo terrore per la sorte dei familiari nel caso che lui fosse morto, lo assalì con violenza esasperata. Nell’immaginazione già li vedeva sottoposti a lente torture, vedeva i loro visi contratti dalla sofferenza, udiva i loro gemiti, le loro implorazioni d’aiuto. Per salvarli dai patimenti futuri e porre fine ai propri, nella follia della disperazione li uccise con le sue mani. Sgozzò la moglie e i tre bambini con la stessa ascia, affilata come un rasoio, con cui aveva intagliato i giocattoli di legno per le bambine e per Flènushka, il maschietto che amava più di tutti.

Era strano che non si fosse ucciso subito dopo. Che pensava? Che poteva attenderlo? Quali erano le sue intenzioni? Era palesemente uno squilibrato, un’esistenza per sempre troncata.

Mentre Liverij, il dottore e i membri del soviet dell’armata erano riuniti a discutere come comportarsi nei suoi confronti, Palych errava in libertà per il campo, con la testa china sul petto, senza più veder nulla, con quei suoi occhi torbidi e giallastri, che guardavano di traverso. Un sorriso vago e ottuso, d’una sofferenza disumana che nessuna forza avrebbe potuto spegnere, non abbandonava il suo volto.

Nessuno lo compativa. Tutti lo sfuggivano. Si levò qualche voce a chiedere il linciaggio, ma non trovò eco.

Ormai non aveva più nulla da fare al mondo. All’alba scomparve dal campo, come fugge da se stesso un animale arrabbiato, preda dell’idrofobia.

Il dottor Zivago
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