6.

L’estate di San Martino era passata. Vennero chiare giornate di un autunno dorato. All’estremità occidentale del Lisij Otòk presso la torretta di un fortino rimasto intatto, Jurij Andrèevich doveva incontrarsi col dottor Layos, suo assistente, per discutere con lui di questioni che interessavano entrambi. Vi giunse puntuale, all’ora stabilita. In attesa, cominciò a passeggiare sul ciglio terroso della trincea crollata, poi salì nella torretta di guardia e, attraverso le vuote feritoie delle mitragliatrici, si mise a guardare verso gli spazi boscosi che si estendevano oltre il fiume.

Nel bosco l’autunno aveva già disegnato nettamente i confini tra il mondo delle conifere e il mondo delle latifoglie. Il primo si rizzava in profondità come una parete tetra, quasi nera, mentre il secondo traluceva qua e là con macchie rosso-dorate, come un’antica città con le sue fortificazioni e le sue dimore turrite dalle cime d’oro, fabbricata nel folto del bosco con i suoi stessi tronchi.

La terra, piena di buche sotto i piedi del dottore e nelle carreggiate della strada percorsa e indurita dai geli mattutini, era fittamente cosparsa e come lastricata dalle foglie dei salici, aride, secche e accartocciate. L’autunno sapeva di quell’amaro fogliame bruno e di infiniti altri aromi. Jurij Andrèevich aspirava avidamente quel pungente odore di mele macerate, intriso di acre aridità, di dolce umidità e dell’azzurro acido di carbonio settembrino, simile al vapore di un falò spento con l’acqua o di un incendio appena domato.

Non si accorse che Layos gli si era avvicinato alle spalle.

«Salve, collega,» gli disse questi, in tedesco. E cominciarono a parlare.

«Tre sono le questioni: la distillazione del “samogòn”, la riorganizzazione del lazzaretto e della farmacia e, terza, dietro mia insistenza, la cura delle malattie nervose in ambulatorio, in condizioni di guerra. Forse voi non ne vedete la necessità, ma, secondo me, caro Layos, noi stiamo diventando matti e i vari aspetti dell’alienazione assumono oggi la forma d’un’infezione, d’un vero e proprio contagio.»

«E’ una questione molto interessante. Ci torneremo sopra. Ora sentite: nel campo c’è fermento. La sorte di quelli del “samogòn” desta compassione. Molti sono anche in pensiero per la sorte delle loro famiglie fuggite dai villaggi occupati dai bianchi e una parte si rifiuta di partire di qui, perché sta arrivando il convoglio con le mogli, i figli e i vecchi.»

«Sì, bisogna aspettarli.»

«E tutto ciò alla vigilia delle elezioni di un comando unico, comune, anche per le altre unità, quelle distaccate. A me pare che l’unico candidato possa essere il compagno Liverij. Ma un gruppo di giovani ne presenta un altro, Vdovicenko. Lo appoggia la parte ostile a noi, che si è legata con quelli del “samogòn”, figli di «kulàk» e di bottegai, tutti disertori di Kolchak. Sono questi a far più chiasso.»

«Che dite, che ne sarà del personale sanitario che ha fabbricato e venduto il “samogòn”?»

«Secondo me, li condanneranno alla fucilazione e poi li grazieranno commutando la condanna in una pena simbolica.»

«Be’, abbiamo chiacchierato fin troppo. Occupiamoci delle nostre questioni. La riorganizzazione del lazzaretto è la prima cosa da discutere.»

«Bene. Ma devo dirvi che trovo giusta la vostra proposta di profilassi psichiatrica. Siamo d’accordo. Sono apparse e si vanno diffondendo malattie nervose del genere più tipico, caratteristiche dei nostri tempi e direttamente influenzate dalla situazione storica. C’è da noi un soldato dell’esercito zarista, assai cosciente, con un senso di classe innato, Pamfìl Palych. E’ uscito di senno, proprio per questo timore che i suoi familiari, ove egli fosse ucciso e loro cadessero in mano dei bianchi, debbano rispondere per lui. Una psicologia molto complessa. Pare che i suoi ci seguano col convoglio dei fuggiaschi e presto. ci raggiungeranno. Il mio poco russo m’impedisce di interrogarlo come si deve. Informatevi da Angeljar e da Kamennodvorskij. Bisognerebbe visitarlo.»

«Conosco bene Palych. Figuratevi! A un certo momento ci siamo scontrati nel soviet dell’esercito: un tipo scuro, violento, con la fronte bassa. Non capisco che abbiate trovato di buono in lui. E’ sempre per le misure estreme, massimo rigore e pene di morte. Ne ho avuto sempre repulsione. Ma va bene, me ne occuperò.»

Il dottor Zivago
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