L’ANCELLA DEL DIAVOLO

Althea si stampò in faccia il sorriso che riservava ai passeggeri più difficili e aspettò l’uomo che barcollava verso di lei lungo il corridoio. Mr Lineman, cabina V23. Lui e la moglie erano davvero disgustosi, lasciavano la tazza del gabinetto sporca e gli asciugamani fradici sparpagliati sul pavimento del bagno. «Buonasera, Mr Lineman», lo chiamò modulando la voce in una cantilena rispettosa. «Dovrebbe già essere al suo punto di raccolta.»

Lui sbuffò, le guance arrossate per aver camminato per quei cento metri scarsi dalle scale. Il chiarore fioco delle luci di emergenza evidenziava le rughe della faccia cascante; le ginocchia gli si piegavano per lo sforzo di reggere tutto quel peso. «Si può sapere che diavolo è successo a questa stramaledetta nave?»

«Mi dispiace molto, Mr Lineman, ma non ne so più di lei.» Era quasi vero – quando l’allarme Bravo era risuonato, stava sonnecchiando alla sua postazione – però aveva sentito dire da Maria, il suo capo, che il ponte B era stato evacuato a causa del fumo. Althea non era preoccupata. Nei suoi quattro anni di lavoro per la Foveros c’erano stati innumerevoli incidenti di quel genere, e Maria aveva detto che si trattava di un incendio di poco conto.

«E allora perché cavolo non possiamo restare nelle nostre cabine?»

«È per la sua sicurezza, Mr Lineman.»

Le ganasce tremolarono. «Non dicevano che non c’è pericolo? Damien ha assicurato che non c’è niente da temere.»

Col sorriso ancora stampato in faccia, Althea disse: «È vero, ma il comandante deve seguire una procedura, che gli impone di far convergere i passeggeri in certe zone. Devo proprio chiederle di sbrigarsi a raggiungere il suo punto di raccolta».

«Sono tornato a prendere la mia medicina. Non vorrete mica che mi senta male, no?»

No, vorrei che morissi di una morte lenta e dolorosa. «Certo che no, Mr Lineman. Avrebbe dovuto accompagnarla un membro dell’equipaggio. Vuole che vada a prendergliela io?»

«Posso fare da me.» Indicò la chiave elettronica rossa infilata nella serratura della sua porta. «Cosa diavolo è?»

«Serve a indicare che la cabina è già stata controllata ed è vuota, Mr Lineman.»

«Mmm.» La gettò a terra, strisciò la propria chiave elettronica nella fessura e spalancò la porta entrando in cabina.

Lei si appoggiò contro la parete e si stirò come un gatto in attesa che riemergesse. Quella stronza di Maria le sarebbe saltata alla gola se non si sbrigava, e le restava ancora da controllare la zona di Trining sul ponte Cinque di poppa, avrebbe dovuto farlo ore prima. Quella puta pigra era andata a cercarla a pranzo, dicendo che aveva cominciato a vomitare a metà del suo turno del mattino, ma Althea sospettava che avesse bevuto di nuovo. Trining era già stata ammonita – sarebbe stato il suo terzo giorno di malattia solo nell’ultimo mese – e aveva promesso cinquanta dollari ad Althea se l’avesse coperta. I soldi in più le facevano comodo, ma quel giorno Althea avrebbe fatto a meno volentieri di quella seccatura. Era tutta indolenzita per la stanchezza; non aveva dormito bene. Aveva cercato di convincersi che era sempre stanca perché ultimamente lavorava troppo e faceva troppi straordinari. All’alternativa non voleva neppure pensare.

La voce di Damien ronzò dagli altoparlanti, ripetendo per l’ennesima volta il solito messaggio. Quell’uomo era innamorato della propria voce. Althea non aveva mai parlato con lui, ma Rogelio, l’unico vicedirettore di crociera filippino, diceva che era un egoista dal cuore cattivo. Rogelio... quello sì che era un uomo da sposare. Bello, gran lavoratore e sempre gentile. Il contrario di Joshua.

Si sentì scrosciare lo sciacquone nel bagno della cabina di Mr Lineman, e dopo qualche secondo lui riapparve, un grosso sacchetto Walgreens stretto fra le mani. Lei gli sorrise di nuovo, ma quello si limitò a passarle davanti senza una parola.

«Putang ina mo», borbottò lei sottovoce.

Lui si fermò e si voltò, gli occhietti porcini che luccicavano. «E quello cos’era?»

Oh, cacchio. «Prego?»

«Cos’ha appena detto? Che lingua era quella?»

«Tagalog, Mr Lineman.»

«Taga che?»

«Tagalog. È una lingua delle Filippine.» Brutto porco ignorante. «Le stavo semplicemente augurando buona fortuna», mentì.

«Allora impari a parlare inglese, no?» borbottò lui.

Althea avrebbe voluto poter dire a quella testa di cazzo che lei parlava correntemente inglese, spagnolo e tagalog e sapeva imprecare in altre cinque lingue, mentre lui a stento ne parlava una, ma se il bastardo avesse espresso un giudizio basso su di lei si sarebbe giocata il bonus. «Mi dispiace tanto, Mr Lineman. Non intendevo offenderla.»

Sembrò vagamente addolcito. Questa volta lei rimase a controllare che si allontanasse davvero. Adesso la nave si era inclinata di più, abbastanza da rendergli difficile l’equilibrio. Bene, cadi, brutto bastardo, cadi.

Rimise a posto il segnale rosso nella serratura e poi controllò la suite condivisa dalle due signore anziane, Helen ed Elise. Immacolata: i letti gemelli erano esattamente come li aveva lasciati lei stessa poco prima, quando aveva preparato la camera per la notte. Si aspettava una bella mancia da quelle due. Althea aveva lavorato abbastanza sulle navi da riconoscere i passeggeri più generosi con le mance, e non erano mai quelli che chiedevano una bottiglia di acqua in più ogni ora, si lagnavano dell’aria condizionata o avevano da ridire se tutte le sere non gli si faceva trovare sul letto qualche nuovo esemplare di quegli assurdi animali fatti di asciugamani ripiegati.

Passò all’ultima suite – la V27 –, quella della pazza. Progenie del diavolo, l’avrebbe definita la sua mamita. Mrs del Ray era una vecchia stronza bisbetica, poco ma sicuro, però era generosa. Althea aveva già fatto un po’ di soldi fingendo di non vedere le bottiglie di liquore nella sua cabina. Nell’istante in cui stava strisciando il suo passe-partout nella serratura, la porta venne spalancata dall’interno e Maddie, l’ossuta assistente di Mrs del Ray, le si parò davanti. «Althea! Credevo che fosse il dottore.»

«Si sente male?»

«Non io, Celine. Mrs del Ray.»

Althea la seguì in camera da letto, dove Mrs del Ray era sulla sua sedia a rotelle, a fissare senza espressione lo schermo nero del televisore. La stanza puzzava di alcol.

«Celine? Celine? C’è Althea», disse Maddie cantilenando, come se si rivolgesse a un bimbo piccolo.

Mrs del Ray alzò gli occhi, la testa che ciondolava indietro sul collo, gli occhi vacui. Ridacchiò e agitò la mano in un vago saluto.

«Cosa le è successo?» chiese Althea, lo sguardo che guizzava verso la bottiglia vuota di J&B vicino al televisore. Quella donna beveva troppo – era Althea a portare i suoi vuoti fino alla tritavetro –, forse era per quello che si sentiva male.

«Non so. Si comporta in modo strano. Ho chiamato quel cazzo... scusi.» Althea annuì composta. «Ho chiamato il medico appena la nave si è fermata, ma non è ancora venuto nessuno.»

«Ha provato a richiamarlo?»

«Sì. Mai smesso. Ma non c’è stata ancora nessuna risposta.»

Althea sganciò la propria radio e chiamò il supervisore: «Maria? Maria, rispondi». Di rimando, solo crepitii e scariche. Ci riprovò, col medesimo risultato. Susmaryosep. «Le spiace se provo col suo telefono, Maddie?»

«Faccia pure.»

Althea prese il ricevitore e compose il numero dell’infermeria, ma continuò a suonare a vuoto. Subito dopo provò col servizio clienti e col servizio guardaroba, entrambi però davano il segnale di occupato. «Andrò personalmente in infermeria e chiederò di mandarle un medico.»

«Grazie.»

«Si figuri», rispose Althea automaticamente.

Maddie non le dispiaceva: l’assistente di Celine era sempre stata gentile con lei, senza mai mostrarsi condiscendente né troppo amichevole. E sembrava sinceramente preoccupata. Forse la vecchia aveva davvero qualcosa che non andava.

Althea uscì in fretta dalla cabina, facendo un altro tentativo con la radio. Di nuovo le scariche. Proprio quello che non ci voleva. Controllò il corridoio sul lato di sinistra alla ricerca di Electra, che si occupava delle cabine di quel settore, ma non c’era traccia di lei. Usando le scale per i passeggeri avrebbe fatto prima a raggiungere l’infermeria sul ponte Tre, anche se il personale delle cabine non aveva accesso a quell’area. Corse il rischio. La maggior parte del personale era ai vari punti di raccolta a smistare i passeggeri o a risolvere i problemi nella sala generatori, quindi l’avrebbe passata liscia. Cominciò a scendere di corsa. Trattenne il fiato e si accucciò quando raggiunse il pianerottolo del Sei, dove due tecnici aiutavano alcuni passeggeri di pessimo umore a uscire da uno degli ascensori rimasti bloccati.

Correndo verso la porta dell’infermeria le arrivò una zaffata di fumo, che sembrava filtrare dalla serranda abbassata che chiudeva l’accesso al corridoio I-95. Premette il pulsante accanto alla porta e attese. Niente. Provò con la maniglia e, quando si aprì, entrò nell’infermeria. Il piccolo ingresso, la farmacia e la sala d’attesa erano deserti, ma da dietro la porta in fondo filtravano delle voci animate. Si avvicinò, si sollevò sulla punta dei piedi e sbirciò attraverso il vetro smerigliato. Il nuovo dottore stava mettendo una mascherina per l’ossigeno sulla faccia di un membro dell’equipaggio isterico, in tuta da lavoro sudicia. Accanto a lui un infermiere si stava occupando di un tizio con la divisa bianca da ufficiale, anche lui attaccato all’ossigeno. Ma fu l’uomo sul lettino più vicino a catturare la sua attenzione. Era disteso su un fianco, assolutamente immobile, un braccio disteso. Brandelli di pelle gli penzolavano dall’avambraccio come un pizzo osceno, scoprendo un tratto di tessuto sieroso, giallo e rosso. Come se avesse avvertito i suoi occhi addosso, l’uomo spostò la testa e la fissò dritta in faccia. Lei gli restituì uno sguardo compassionevole, ma lui non reagì. Aveva l’espressione vacua, come se si fosse rintanato in se stesso per affrontare il dolore. Althea aveva già visto brutte ustioni in precedenza – era in visita da sua madre a Binondo quando un incendio aveva devastato una fabbrica della zona – ma lo spettacolo le fece comunque rivoltare lo stomaco. Il medico si avvicinò all’ustionato e gli posò dolcemente una mano sulla fronte.

Tremando, Althea si ritrasse in sala d’aspetto. Gli urli dall’interno erano diventati mormorii. L’incendio doveva essere stato peggio di quanto le avevano detto. E laggiù cominciava a fare sempre più caldo; l’aria condizionata continuava a non funzionare. Incerta sul da farsi, si mise a camminare avanti e indietro.

Si diceva che l’ultimo medico, un cubano dai denti orrendi, fosse stato licenziato per aver ripetutamente molestato una delle cameriere romene, ma il suo successore aveva l’aria gentile. Althea si domandò se avrebbe potuto chiedergli aiuto per la sua situazione, poi deglutì a vuoto al pensiero. Non c’era neppure da prendere in considerazione quell’ipotesi. Si passò una mano sul ventre. Se era incinta, era ancora troppo presto perché si vedesse. Due mesi al massimo. Forse Joshua aveva attuato la sua minaccia di sostituirle le pillole, dopotutto. Bastardo. Avevano litigato di brutto l’ultima volta che era stata a casa, quando si era rifiutata di cucinare per lui e per i suoi fratelli. Come poteva aspettarsi che lo servisse, dopo essersi spaccata la schiena a lavorare sulle navi per mantenerli tutti?! Il solo pensiero le faceva ancora montare una rabbia bruciante. Lui sapeva che aveva il terrore di ridursi come sua sorella, grigia e logorata, che tirava avanti con cinque figli nello squallore di Quezon. Come credeva sarebbe finita, se lei fosse rimasta incinta? L’avrebbero licenziata, ecco cosa, niente più soldi, e tutti loro si sarebbero ritrovati a un passo dallo slum. Lui e la sua stramaledetta famiglia. Be’, sai cosa? Quel momento arriverà prima di quanto pensi.

Era colpa sua. Doveva sposare un americano coi soldi, non uno stupido filippino così imbecille da farsi licenziare dalle navi. Invece no, era andata a innamorarsi – Ah! L’amore! – di un maledetto aiutocameriere con un neo sotto l’occhio, che le aveva promesso una luminosa carriera insieme. Forse non sarebbe mai riuscita a divorziare da lui – le loro famiglie non l’avrebbero mai accettato – però poteva andarsene. Poteva mettere da parte i soldi e cominciare una nuova vita altrove.

Era un piano, un buon piano, ma se era rimasta incinta poteva scordarselo. Era appena al secondo mese di un contratto di dieci, perciò non c’era verso di riuscire a tenerlo nascosto.

«Cosa fa qui?» Althea si voltò per trovarsi davanti un donnone coi capelli tinti di arancione e con una divisa da infermiera tutta stazzonata. «Si sente male?»

Althea spiegò la situazione di Mrs del Ray.

La donna le scoccò un sorriso stanco. «Ah, Bin deve aver preso la chiamata prima che succedesse tutto il casino.»

«Gli uomini feriti nell’incendio», disse Althea accennando alla porta, «se la caveranno?»

La donna serrò le labbra. «È entrata là dentro? Quell’area è riservata ai pazienti.»

«Mi scusi», mormorò Althea, tornando automaticamente all’atteggiamento deferente. «Non sono entrata. Stavo solo cercando il dottore.»

«Ah, va bene.» L’infermiera si passò una mano tra i capelli arruffati. Aveva le occhiaie scure, e naso e gote percorsi da un reticolo di venuzze rosse. Una bevitrice. Althea riconosceva i segnali.

«Il mio supervisore aveva detto che l’incendio non era grave», azzardò Althea.

«Sembrano conciati peggio di quel che sono, non si preoccupi. Farò meglio a rientrare anch’io. Grazie per averci informati. Ha detto V27, giusto?»

Althea annuì e, ormai congedata, oltrepassò la tenda di plastica in direzione dell’I-95. La postazione di Trining era sul Cinque di poppa, una camminata di almeno cinque minuti. Trotterellò lungo il corridoio, consapevole che l’aria si faceva sempre più pesante e il puzzo di fumo più forte a mano a mano che si avvicinava alla sala macchine di poppa. Scambiò un saluto con un gruppo di camerieri che le passò accanto, le braccia cariche di vassoi di bottiglie di acqua, ma non seppero dirle niente più di quanto già non sapesse. Quando superò di corsa gli uffici del servizio alle cabine, sentì risuonare la voce di Maria: «Althea!»

Althea si bloccò, poi si voltò ad affrontarla, gli occhi bassi.

«È un po’ che cerco di chiamarti, Althea.»

«Mi spiace.» Batté sulla propria radio. «È di nuovo rotta.»

«Hai controllato che non ci sia più nessuno nelle tue cabine? Hai seguito la procedura?»

«Sì, Maria. Ma una delle mie ospiti sta male e ha bisogno di un medico. Hanno chiamato l’infermeria, ma non rispondeva nessuno.»

Maria la incenerì con lo sguardo, come se la considerasse personalmente responsabile del malanno della passeggera. Un giorno, si ripromise Althea, avrebbe messo in ginocchio quella puta. L’avrebbe costretta a leccare il pavimento. «Ci penso io. Che cabina?»

«V27. È quella medium, Mrs del Ray. Sono già passata in infermeria ad avvisarli. Adesso posso andare, per favore?» La sicurezza stava probabilmente verificando che tutte le chiavi rosse fossero al loro posto e Trining avrebbe dato la colpa a lei se non avesse controllato anche le sue cabine.

«Perché non mi hai detto che Trining stava male?» disse Maria in tono pericolosamente dolce.

Maledetta Trining. Questa volta Althea non ci pensava proprio, a coprirla. «Credevo che te l’avrebbe detto lei direttamente.»

«Dice che hai accettato di coprire tu le sue cabine, oggi.»

Althea assunse la sua espressione più innocente. «Ah, sì?»

Maria inarcò le due righine a matita che le facevano da sopracciglia. Non erano mai uguali, una era sempre disegnata più in alto dell’altra, e facevano a pugni coi capelli biondo platino. Impara a usare uno specchio, puta.

«Siamo fortunati che non ci siano reclami. Dice che non aveva neppure cominciato a preparare le cabine per la sera.»

«Mi dispiace tanto, Maria. Dev’esserci stato un malinteso.»

«Paulo ha controllato che le cabine di Trining fossero vuote, ma voglio che tu verifichi che abbia fatto tutto bene.»

«Non ci pensa la sicurezza?»

«Metti in dubbio i miei ordini?»

«No, Maria.»

«Quando avrai finito potrai andare al tuo punto di raccolta e aspettare ulteriori istruzioni.»

«Sì, Maria. Grazie, Maria.»

Come detestava dover strisciare in quel modo, ma le serviva un giudizio positivo, se voleva avere almeno una possibilità di essere promossa a un ruolo di supervisore. Non che ci fossero troppe occasioni, su quella nave. Si tendeva a privilegiare i compatrioti: Maria avrebbe dato spazio ad altri romeni. Era così che funzionava a bordo. A volte tornava a tuo favore, a volte no. E non importava che l’inglese fosse la sua prima lingua. La sua nazionalità le remava contro. A qualcuno dovevano toccare i lavori peggiori. Le ci erano voluti più di due anni a risalire dalla posizione iniziale di steward del personale interno (e, se i passeggeri potevano essere disgustosi, non erano niente in confronto a certi ufficiali) e assicurarsi l’agognato incarico sul ponte VIP.

Superò la porta di servizio che dava accesso ai ponti inferiori, cogliendo un’altra zaffata di fumo. Detestava quella sezione delle scale: c’erano tredici scalini per ogni rampa e lei li contava a voce alta per annullare la malasorte. Sapeva che era assurdo, ma non riusciva a liberarsi del tutto delle superstizioni della sua infanzia; per esempio, continuava a girare il proprio piatto ogni volta che qualcuno si alzava dal tavolo della mensa.

Aprendo la porta che dava sulla sezione di Trining, scorse con la coda dell’occhio il guizzo di un movimento in fondo al corridoio buio. Qualcuno correva verso di lei, una figuretta minuscola. La luce lì era più fioca che sul suo ponte, però sembrava un bambino. Com’era possibile? Era stata in crociere piene di bambini americani viziati che scorrazzavano ovunque come se fossero i padroni della nave, coi genitori che se la prendevano col personale ogni volta che uno di quei mocciosi si perdeva o si faceva male, ma le crociere di Capodanno erano riservate a passeggeri maggiorenni. Le luci di emergenza ammiccarono e si spensero, facendola piombare in una momentanea oscurità, prima di riaccendersi con un sibilo. Il bambino – pelle chiara, capelli scuri e scalzo – si trovava adesso a una ventina di metri da lei.

«Ehi!» gli gridò, sbattendo gli occhi quando le luci si spensero di nuovo. Lottò contro l’impulso di rituffarsi nel corridoio di servizio. Le luci tornarono, stavolta più forti, ma il bambino... il bambino era sparito.

Si fece automaticamente il segno della croce, sussultando quando un’alta figura girò l’angolo in fondo al corridoio. Cominciò a respirare meglio nel momento in cui vide la camicia bianca e i calzoni scuri di un addetto della sicurezza. Se l’era sognato, quel bambino? Che la sua mente le avesse giocato qualche scherzo? Da un po’ non dormiva più di quattro ore per notte, quindi era possibilissimo.

La guardia puntò verso di lei. Uno di quelli della mafia indiana, una faccia che pareva tagliata con l’accetta. Torreggiava su di lei.

«Ha visto un passeggero, quaggiù?» gli chiese Althea, sorprendendosi per il proprio tono controllato.

Lui la fissò impassibile. «No.» Le indicò le chiavi rosse infilate nelle fessure. «Ha finito?»

«Non è la mia sezione.»

«Allora cosa ci fa qui?» La sua mano corse alla radio che portava alla cintura. «Tutto il personale deve dirigersi subito ai punti di raccolta.»

«Lo so. Il mio supervisore mi ha detto di venire a controllare che fosse tutto a posto.»

«E lo è?»

«Non ne sono sicura.» Non voleva dirgli cos’aveva visto, casomai fosse stata davvero la sua immaginazione. Ma il bambino, se mai c’era stato un bambino, doveva essersi infilato in una delle cabine vicine, anche se era sicurissima di non aver sentito lo scatto di una porta che si apriva e poi richiudeva. «Le spiace se ricontrollo alcune delle cabine? Lo steward mandato a farlo era nuovo.» Bene. Una bugia, ma suonava ragionevole. Attese che la guardia obiettasse, invece continuò a fissarla – forse le aveva letto in faccia qualcosa – e poi fece un gesto con la mano come a dire faccia pure.

C’erano tre cabine in cui il bambino poteva essersi infilato quando si erano spente le luci. Aprì la prima, infilò la testa in bagno e poi controllò l’area soggiorno, spalancando anche le ante dell’armadio per assicurarsi che non si fosse nascosto lì dentro. Non c’era traccia di lui, però la cabina era un macello, con le lenzuola appallottolate, il cestino colmo di lattine vuote di Coors. Era chiaro che Trining non aveva neppure cominciato a sistemare le cabine, ed era probabile che Paulo si fosse limitato a bussare alle porte e infilarci poi la chiave, senza nemmeno controllarle. Trining doveva avere dalla sua parte Dio e tutti gli angeli: era un miracolo che nessuno si fosse lamentato.

Lanciò un’occhiata al tizio della sicurezza prima di verificare la seconda cabina, ma quello stava trafficando con la sua radio. Nell’istante in cui aprì la porta, l’odore acre del vomito la investì. Esitò per un attimo, poi spalancò la porta bloccandola col magnete ed entrò. Il bagno era vuoto, e il resto dello spazio sembrava deserto. Si guardò attorno per scoprire la fonte del cattivo odore, ora consapevole di sentirne anche un altro: urina. Lieve, ma inconfondibile.

Girò attorno al letto sfatto. La trapunta era ammucchiata tra il materasso e la parete, e ne sbucava un paio di piedi, le piante grigie e sudicie. Strillò e fece un passo indietro, andando a sbattere contro la toeletta e facendo cadere a terra un beauty-case.

La guardia si precipitò dentro in un attimo, arricciando il naso. «Cosa c’è?»

«Venga qui», sussurrò lei. «Guardi.»

Osservò con attenzione la reazione dell’uomo, che indietreggiò disgustato, poi annaspò alla ricerca della radio. «Controllo, rispondete. Controllo.» Un sibilo e una scarica. Ci batté sopra con la mano.

Althea non riusciva a staccare gli occhi da quei piedi. Appartenevano a una donna, e si sorprese a pensare a quello che le diceva la sua lola da piccola: ai morti bisogna togliere subito le scarpe, perché non li appesantiscano nel loro viaggio verso il cielo. Senza rendersi davvero conto di quello che stava facendo, allungò la mano per scostare la trapunta, ma la guardia l’afferrò per il braccio. Il suo palmo sembrava così rovente da bruciarle la pelle. «Aspetti.» La guardia montò sul letto, lo attraversò con circospezione e sollevò lentamente la trapunta che copriva la testa della donna, rivelando una ciocca di capelli color paglia. Si chinò a controllare se c’erano pulsazioni, poi rimise a posto la trapunta, esattamente com’era.

«È morta?» sussurrò Althea.

«Sì.»

Rimasero in silenzio per diversi secondi. La guardia si schiarì la gola. «Devo uscire per vedere se c’è più segnale. Non tocchi niente.» Addolcì la voce: «Va bene se la lascio qui da sola?»

Lei annuì.

«Di nuovo, non tocchi niente.» Si affrettò fuori, lasciandola sola col cadavere. Le si accapponò la pelle. Althea chiuse gli occhi, si fece di nuovo il segno della croce e, per la prima volta dopo molti anni, pregò.